Teatro Carlo Felice di Genova: “Don Giovanni”

Genova, Teatro Carlo Felice, Stagione 2025-2026
DON GIOVANNI” ossia Il dissoluto punito KV 527
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Don Giovanni SIMONE ALBERGHINI
Donna Anna DESIRÉE RANCATORE
Don Ottavio IAN KOZIARA
Il Commendatore MATTIA DENTI
Donna Elvira JENNIFER HOLLOWAY
Leporello GIULIO MASTROTOTARO
Masetto ALEX MARTINI
Zerlina 
CHIARA MARIA FIORANI
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice di Genova
Direttore Constantin Trinks Maestro del coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto ripresa da Elisabetta Acella
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Fabio Barettin
Allestimento della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia.
Genova, 5 ottobre 2025
Il Don Giovanni che ha inaugurato la stagione del Carlo Felice non è, come da titolo, Il dissoluto punito ma piuttosto Il Dissoluto (e anche più) sterminatore. Tutte le sue e i suoi compagni di percorso, Dissoluti, e pure no, vengono, nel finale, inopinatamente atterrati dalla sua mano. Che significhi tutto ciò, a fronte di un’accoppiata testo-note già nata perfetta, forse l’avrà saputo il Damiano Michieletto che ha forzato questo ed altri deragliamenti dalla via tracciata dalla ineffabile accoppiata Da Ponte – Mozart. Fu “La Fenice” veneziana, nel 2010, a commissionare al concittadino, promettente genio innovatore delle scene, lo spettacolo e lo ripropose sul suo palco, quasi annualmente, fino al maggio del 2024. Al Carlo Felice la continuità registica è stata assicurata dalla ripresa, ma così fu anche nell’ultima comparsa veneziana, di Elisabetta Acella. Le prestigiose premiazioni accordate allo spettacolo non gli hanno comunque risparmiato giudizi più cauti e meno favorevoli. Troppe le intemperanze e le ambiguità. “Or sai chi l’onore…” Anna fa la capitale confessione a Ottavio che qui, inopinatamente, viene sostituito da Giovanni. Allo stesso modo il “Vedrai carino” di Zerlina prevede al suo lato il bastonato Masetto e non il bastonatore Giovanni. Il “Là ci darem la mano” mal sopporta che l’impegno amoroso degli imminenti fornicatori sia scambiato da camere separate. E così altre decine di situazioni, affogate in un buio persistente che mescola e confonde i personaggi. Può essere che questa fosse proprio l’intenzione ultima della regia, promossa e coadiuvata dal virtuosismo tecnico delle scene, sempre superlative, di Paolo Fantin e dalle sconvolgenti luci di Fabio Barettin. Si crea infatti, sull’ossessiva tappezzeria, l’ulteriore dramma delle ombre incombenti e minacciose dei protagonisti, siamo immersi nell’espressionismo alla Murnau. I costumi di Carla Teti, di artefatto anonimato, calzano con la rinuncia al rococò e con la penalizzazione dei personaggi. A risollevare le sorti dei protagonisti non contribuisce il complessivo grigiore musicale. Constantin Trinks mostra le doti tipiche del kapellmeister: determinazione e sicurezza nel condurre, sono efficacissime nei due grandi concertati finali, dove più prepotente è la necessità di una tecnica consumata. Nel corso del dramma giocoso, sicuramente per l’invadenza confusa della scena, la prestazione della pur ottima Orchestra del Carlo Felice, tende ad appiattirsi sfuocata in un accompagnamento passivo, rinunciando così a porsi da coprotagonista. La stessa sinfonia manca dell’incisività graffiante che condiziona perentoriamente il carattere delle vicende in divenire. Così pure i numerosissimi e capitali recitativi, che Trinks accompagna dal fortepiano, si mostrano claudicanti per come sono lasciati all’estro e alla sensibilità individuale degli attori, sostanzialmente mancanti di una regia che gli dia un carattere unificante. Simone Alberghini è l’ottimo protagonista. La regia, che non gli concede requie, gli nega distinti spazi individuali e lo spinge a confondersi tra gli altri, altrettanto confusi, impedendogli così di mettere in risalto l’ottima tecnica vocale e il timbro accattivante. Desirée Rancatore fa valere il suo virtuosismo, pur scontando un peso vocale poco adatto alla carica drammatica che si suole associare ad Anna. Il timbro e il carattere, gentilmente sopranili, parrebbero più consoni alla leggerezza di Elvira che non alle rigidezze di Anna. Per Jennifer Holloway, Elvira, l’opera di Mozart non pare assolutamente idiomatica: ha voce e timbro da walkiria e poco sa piegarsi alle esigenze dell’opera italiana; tende a spianare i gruppetti e a dribblare le difficoltà di scrittura. Il legato non è nelle sue corde e la sua Elvira suona come una feroce e fredda virago. Il tenore americano Ian Koziara colpisce per il fascinoso timbro baritonale. Non è comunque un baritenore, gli sono carenti tecnica ed estensione, sia sopra che sotto il rigo. I centri sono comunque fascinosamente timbrati e lo candidano ad essere un buon Idomeneo. Le sue due arie sono state le più applaudite, in una recita che dagli applausi non è stata sommersa. Il Leporello di Giulio Mastrototaro, pur soffrendo anch’egli della confusione dei ruoli che caratterizza lo spettacolo, emerge per prestanza scenica e per caratterizzazione di linguaggio e di carattere. Volgare quanto basta per essere un servo, snocciola con sprezzante disinvoltura un catalogo che la regia vuole essere una collezione di schede personali in valigia di cartone. Malamente si unisce a Giovanni nella distopica e sconcertante cena/orgia del finale. Chiara Maria Fiorani è una bravissima e vivace Zerlina che, benché costretta a un “là ci darem la mano” in camere separate e a consolare dalle percosse subite non il suo Masetto, ma l’ubiquo e inopportuno Giovanni, ha saputo farsi apprezzare come squisita e fascinosa vocalista. Alex Martini è il suo Masetto, aitante baritono dalla buona prestazione sia scenica che vocale. A Mattia Denti il disbrigo del difficile, con Michieletto, ruolo del Commendatore. Se la musica fa sentire il cozzar di spade, gli si impone di morir per bastonate, come se due nobili di Spagna potessero sfogarsi alla pari dei villani, compari di Masetto. Da morto, interviene poi in scena, muto, nel corso della festa mascherata della chiusa del primo atto. Non riveste mai i panni della statua funeraria ma sostiene dignitosamente, con voce non tonitruante, le minacce tempestose del finale. Il coro del Carlo Felice, retto da Claudio Marino Moretti, non ha, nel corso dell’opera, un grande impegno da sostenere, ma quanto ha da cantare lo porta ottimamente a compimento. Sala pienissima, Entusiasmo moderato. Foto Marcello Orselli