Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Lirica 2024-2025
“WOZZECK”
Opera in tre atti (quindici scene) op. 7
Testo e musica di Alban Berg da “Woyzeck” di Georg Büchner
Traduzione italiana di Alberto Mantelli
Wozzeck ROBERTO DE CANDIA
Tambourmajor ENEA SCALA
Andres PAOLO ANTOGNETTI
Hauptmann LEONARDO CORTELLAZZI
Doktor OMAR MONTANARI
Primo Garzone ROCCO CAVALLUZZI
Secondo Garzone WILLIAM CORRÒ
Lo Sciocco MARCELLO NARDIS
Marie LIDIA FRIDMAN
Margret MANUELA CUSTER
Il bimbo di Maria SOLISTA DEI PICCOLI CANTORI VENEZIANI
Un soldato COSIMO D’ADAMO
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Markus Stenz
Maestro del Coro Alfonso Caiani
Piccoli Cantori Veneziani
Maestro del Coro Diana D’Alessio
Regia Valentino Villa
Scene Massimo Checchetto
Costumi Elena Cicorella
Light designer Pasquale Mari
Movimenti coreografici Marco Angelilli
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 19 ottobre 2025
Proporre Wozzeck in italiano significa permettere a uno spettatore, nato nel “bel paese là dove ‘l sì suona”, di comprendere quello che sta guardando e ascoltando. I ‘puristi’, che arricceranno il naso per rivendicare, forse anche giustamente, l’insostituibilità della prosodia e della crudezza verbale del testo tedesco – per
quanto la traduzione di Alberto Mantelli, non sia affatto edulcorata: “Lei piscia troppo, Wozzeck!”, esclama in una scena il Dottore – dovrebbero almeno ammettere che la scelta ‘italofona’ operata a suo tempo dall’ex sovrintendente Fortunato Ortombina ha schiuso a gran parte del pubblico la possibilità di accostarsi a questo capolavoro del teatro musicale novecentesco, disponendo di un importante strumento di decodificazione. Alla quale contribuisce anche un’ambientazione riconoscibile. È quello che pensa Valentino Villa, regista di questo nuovo allestimento feniceo, che si riallaccia a quello, storico, del 1942, messo in scena al Teatro dell’Opera di Roma nella versione ritmica italiana di Alberto Mantelli, segnando il debutto del Wozzeck nella Penisola. L’ambientazione scelta per questa ripresa guarda all’Italia nel primo dopoguerra, con particolare riguardo all’anno
1925, quello in cui avviene la ‘creazione’ di Wozzeck a Berlino. È un contesto storico che tutti conosciamo, ma che è per noi – che abbiamo negli occhi gli orrori del presente – una realtà lontana. La scelta fatta da Valentina Villa è diversa rispetto alle attualizzazioni tipiche del Regietheater, nato nel Nord Europa e anche per questo – sostiene il regista – poco adatto ad un allestimento in italiano. Questo Wozzeck, dunque, si svolge in un’Italia segnata da questioni sociali irrisolte e dagli effetti postumi della Grande Guerra, visibili su molti reduci, affetti da danni fisici e psichici. A quegli anni si ispirano anche i costumi, disegnati con gusto e sobrietà da Elena Cicorella, molti dei quali sono uniformi militari. Tale
messinscena, ben caratterizzata da questi segni distintivi, si fonda sull’antitesi ‘apparire/sparire’. Più precisamente Villa, coadiuvato da Massimo Checchetto, colloca, all’interno di una scena più ampia, piccoli contenitori – in cui si vede la scenografia di un determinato ambiente –, che poi ascendono verso l’alto fino a sparire. Si determina, così, un rapido avvicendarsi di diversi quadri, davvero funzionale allo spettacolo. Assolutamente autorevoli Roberto De Candia, nei panni di Wozzeck, e Lidia Fridman, in quelli di Marie, nell’articolare lo Sprechgesang, previsto solo per questi due personaggi, ad indicare analogicamente la loro insofferenza per l’ordine sociale. Wozzeck lo usa al culmine dell’inquietudine o dell’angoscia; Marie in particolari momenti come in quello in cui legge la Bibbia. Ma tali personaggi – i più umani ed autentici nell’opera – dispongono di una gamma
espressiva più ampia: a Wozzeck viene affidata un’aria intensamente lirica (nella scena d’apertura, dove lamenta le conseguenze della povertà); Marie si esprime in accenti di più sofferto lirismo, dibattendosi tra voglia di vivere e amara disillusione (quella seguente alla sua infatuazione per Tambourmajor); tra ribellione e ripiegamento su se stessa (come nella solitaria meditazione all’inizio del terzo atto). Voce importante, Roberto De Candia non indulge in esasperazioni espressionistiche, ma sa essere comunque efficace nel dare sfogo alle frustrazioni, ai tormenti, alle allucinazioni, ai deliri, che si agitano nella propria mente
ottenebrata. Lidia Fridman – voce ragguardevole per timbro e padronanza tecnica – offre, analogamente, una prestazione di intensa espressività nell’interpretare la parte della vittima predestinata. Quanto ad Hauptmann e a Doktor, due conformisti, ritratti con ironia, che rappresentano l’autorità costituita, Leonardo Cortellazzi nel ruolo del primo, sa rendere con maestria la vocalità instabile – fatta di scatti, sussulti, grotteschi acuti in falsetto –, consona all’assoluta vacuità del personaggio, mentre Omar Montanari è un Doktor timbratissimo nell’esaltare la sua pseudoscientificità e certi suoi “esperimenti immortali”, che fanno rabbrividire, spesso rompendo – come prevede l’autore – la regolarità del proprio canto con grotteschi scatti frenetici. Una buona dose di ironia è riservata anche a Tambourmajor – che Berg perfidamente affida a un Heldentenor –, brillantemente restituito da Enea Sala in tutta la sua aria da sbruffone. Apprezzabili le prestazioni offerte da Paolo Antognetti (un equilibrato Andres), Manuela Custer (un’elegante Margret), Rocco Cavalluzzi e William Corrò (due simpatici Garzoni), Marcello Nardis (Lo sciocco, una sorta di Innocente come nel Boris), Alessandro Vannucci (Un soldato). Alla piena riuscita della spettacolo ha
ovviamente contribuito anche il magistero di Markus Stenz che, affrontando questa partitura operistica, firmata dal meno dogmatico della Triade di musicisti che diedero vita alla Seconda Scuola di Vienna, ne ha messo in valore una sua caratteristica peculiare: la capacità di coniugare il nuovo linguaggio fondato da Schönberg con un uso espressivo – anche in ambito tonale – della melodia e dell’armonia. Ne è risultata un’esecuzione rigorosa ed emozionante. Particolarmente toccante quando è risuonata quella sorta di Requiem in re che segue alla morte del protagonista. Imprescindibile l’apporto dell’Orchestra, che Berg utilizza diffusamente per blocchi di strumenti, con gli ottoni spesso in primo piano, tra cui spesso è emerso il basso tuba con le sue ruvide sonorità. Ma un ruolo importante hanno avuto anche le percussioni, che sono esplose nel momento in cui Wozzeck uccide Marie, e gli archi, scattanti e coesi. Senza nulla togliere ai legni o ad altre sezioni, parimenti all’altezza. Eccellente la prestazione del Coro – encomiabile per nitore dell’emissione e fraseggio – istruito da Alfonso Caiani, e dei Piccoli Cantori Veneziani, diretti da Diana D’Alessio, che hanno brillato nell’ultima scena. Alla fine, pieno successo per tutti. Foto Michele Crosera
Venezia, Teatro La Fenice:”Wozzeck”