Napoli, Palazzo Reale: “Totò e la sua Napoli”

Napoli, Palazzo Reale
Sala Belvedere
“TOTO’ E LA SUA NAPOLI”
a cura di Alessandro Nicosia e Marino Niola
prodotta da C.O.R. Creare Organizzare Realizzare
promosso dal Comitato Nazionale Neapolis 2500 con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, il Palazzo Reale di Napoli (Ministero della Cultura)
con la partecipazione degli Eredi di Totò
e la collaborazione di Rai Teche e Archivio Storico Luce
Napoli, 29 ottobre 2025

Il Palazzo Reale accoglie il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, e apre le porte alla città nel chiaro intento, dichiarato dalla direttrice Tiziana d’Angelo, di fare dell’arte e della cultura lo strumento privilegiato per ritrovare e riaffermare l’identità collettiva e il consolidamento della tradizione. Dalla vastità monumentale della piazza Plebiscito si entra nella sala Belvedere con l’impressione di scivolare in uno spazio intimo. Voci e suoni vivi, una canzone. Le luci basse, come quelle di un vicolo su cui si aprono finestre di abitazioni. Ed è proprio dal Rione Sanità che inizia l’esplorazione di quest’anima, simbolo di Napoli, talento incandescente conosciuto in tutto il mondo. Dall’infanzia di bimbo povero figlio di NN nella casa di via S.Maria Antesaecula, si segue il percorso non solo cronologico ma ontologico di un artista unico. Il rione Sanità, o meglio Stella, non è solo il luogo di nascita ma il grembo di un’arte e di una lingua che è canto e grido. Le mura sgretolate, i vicoli, la povertà ma anche gli squarci improvvisi di cielo palpitano nelle foto e nel flusso di ricordi. Così la Napoli di Totò prende sostanza come una pelle. L’allestimento è sobrio, lascia parlare gli oggetti che trascorrono come attimi di vita. È una regia precisa quella di Alessandro Nicosia, ideatore e curatore della mostra, che ha un ritmo musicale e una tonalità affettiva. La figura di Totò non è indagata o interpretata ma emerge dagli oggetti personali, documenti, foto, costumi di scena, installazioni mediali. Nelle teche gli spartiti delle sue canzoni annotati a matita, i dattiloscritti delle sue poesie, le bellissime locandine sgualcite che dicono come cambiò nel tempo la percezione di Totò presso il pubblico italiano. Gli oggetti non mettono solo in scena la materialità dell’attore Totò ma ne catturano il riverbero emotivo, mentre nella sala dedicata alla musica, cuore della mostra, suona Malafemmena, la sua canzone capolavoro. Pare che il piano Totò lo suonasse con due dita, ma anche nella musica è il suo istinto che lo fa volare. E Napoli per Totò è ovunque “a tengo sana sana dinto ‘e vvene”. Chiove, Mergellina blu, Zuoccole Tammorre e femmene: Napoli  è cantata, invocata, detta a fior di labbra come se per Totò il suo essere napoletano fosse un “farsi abitare dalla città, più che abitarla”, come osserva la nipote Elena. Nei film la sua città è materia, personaggio, luogo architettonico, linguistico e spirituale, laboratorio della sua comicità e il suo gene distintivo. Per Pasolini, Totò è impensabile al di fuori della cultura sottoproletaria napoletana. Sullo schermo di fronte ai visitatori, Totò recita ‘A livella’ ed è allora che per tutti è chiaro come per lui la risata fosse davvero un atto di resistenza: contro la miseria, l’ipocrisia, la sopraffazione.  La sua capacità tutta napoletana di passare dal riso al pianto, come diceva, ci dà un senso più nascosto della sua comicità: mostrare la fragilità umana, il contrasto fra apparenza e realtà, smascherare la vanità. Lui che, come in una favola, da figlio povero di NN era stato riconosciuto e nel 1933 aveva ricevuto il titolo di principe, aveva vissuto la cruda vanità delle convenzioni sociali. Per Bergson, il comico si manifesta quando una persona agisce con rigidità, come una marionetta che risponde a schemi precostituiti o automatismi che costituiscono una frattura nella fluidità della vita. Si tratta di un’incapacità di adattarsi alla complessa dinamicità del reale, osserva il filosofo nel suo saggio Le rire. Il personaggio non si rende conto della sua stessa meccanicità e la risata ha una funzione “moralizzatrice”, il comico interviene per “correggere” questa rigidità e ripristinare l’armonia sociale. Quando cade, quando la smorfia si allarga, nella sua gestualità di “marionetta” Totò mostra la spaccatura, la dissonanza, ma senza sanarla, senza correggerla. Forse perché, come dice ancora la nipote Elena, la sua missione era quella di “destrutturare i saperi costituiti”. Totò semplicemente diventa quella frattura. Anche in questo Totò somiglia a Napoli, che per molti appare con l’orgoglio di essere una ferita rilucente, un insanabile splendore. Negli anni dell’avanspettacolo e anche dopo, nel pieno della fama, gli amici Peppino e Eduardo de Filippo, Nino Taranto e molti altri non solo condividono con lui la scena e la passione ma formano il tessuto artistico e umano della sua vita. Peppino ricorda la cocciuta tenerezza con cui Totò tutte le sere dopo lo spettacolo veniva a casa a curarlo quand’era malato. Sfilano le immagini dei suoi amori, così importanti: dalla dedica straziante di Liliana Castagnola, primo tragico legame finito col suicidio della giovane, al rapporto solido e duraturo con Diana Bandini e all’ultima compagna Franca Faldini, fino ai nipoti Antonello, Diana e Elena che custodiscono il ricordo del nonno e ne tramandano l’eredità. Quei volti ci accompagnano all’ultima sala, che affonda la lama della commozione. Sugli schermi, la folla oceanica accorsa al funerale di Totò a Roma, il saluto dei cari, le parole singhiozzate degli amici. E i due funerali successivi, celebrati a Napoli a bara vuota, perché la gente aveva bisogno di piangerlo ancora, di piangerlo qui. E a 58 anni dalla sua scomparsa, questa città è ancora piena di lui, non solo nei murales e nelle sagome, ma nella lingua, nei modi di dire, nei gesti, Napoli è per sempre residenza dell’anima e sua custode. Photocredit Stefano Renna