Roma, Basilica di Santa Maria in Aracoeli
“STABAT MATER”
Musiche di Giovanni Battista Pergolesi e Giacinto Scelsi
Direttore Michele Mariotti
Regia, Scene, Costumi, Luci Romeo Castellucci
Drammaturgia Christian Longchamp
Collaboratrice artistica Maxi Menja Lehmann
Collaboratrice alle scene Paola Villani
Collaboratrice ai costumi Clara Rosina Straßer
Collaboratore alle luci Benedikt Zehm
Coordinatore dei movimenti Aurélien Dougé
Soprano Emőke Baráth
Mezzosoprano Sara Mingardo
Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione del Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma Maestro del coro Alberto de Sanctis
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
in coproduzione con Grand Théâtre de Genève, Vlaamse Opera, De Nationale Opera
Roma, 28 ottobre 2025
Non comincia: accade. Lo Stabat Mater di Romeo Castellucci per il Teatro dell’Opera di Roma non apre un sipario, ma un corpo. Nella Basilica di Santa Maria in Aracoeli, lo spazio sacro diventa anatomia del dolore: i corpi distesi, i bambini che portano figure lignee, le due voci femminili che si erigono in verticale come emblemi di resistenza. Tutto appare immobile, eppure vibra.
Castellucci riduce la scena a un linguaggio di posture e materia: il legno, la pelle, la luce. L’opera di Pergolesi, attraversata dai frammenti di Scelsi, è deprivata della sua retorica barocca per essere osservata come fenomeno ottico. La basilica, con le sue colonne precristiane e la luce tagliente, agisce come organismo architettonico. Castellucci non la occupa, la ascolta. Le figure in bianco emergono dal buio come reperti, circondate da un silenzio che non è assenza ma vibrazione. I bambini — elemento ricorrente nella drammaturgia del regista — incarnano un’umanità non contaminata dal linguaggio, il grado zero del gesto sacro. Portano tra le braccia una scultura di legno, corpo morto e icona, oggetto di culto e di trauma: il Cristo che pesa come memoria. L’azione non narra, misura. Il movimento collettivo, disegnato da Aurélien Dougé, è un ritmo interno, una preghiera che ha perduto le parole. Michele Mariotti dirige con lucidità analitica, quasi ascetica.
La sua concertazione non indulge alla retorica barocca ma ne estrae la struttura logica. I tempi, ampi e calibrati, rendono visibile la grammatica interna della partitura: la pietas di Pergolesi emerge come costruzione architettonica, non come emozione. L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma suona con disciplina quasi liturgica. Gli archi, levigati e tesi, costituiscono una superficie sonora uniforme; i fiati respirano come intervalli di luce; le dinamiche, sottilmente controllate, diventano un sistema respiratorio della scena. Nei frammenti di Scelsi, Mariotti abbandona la logica metrica per entrare in uno spazio sonoro sospeso: il suono non procede ma si espande, come se la musica avesse cessato di rappresentare e si limitasse a esistere. Le voci di Emőke Baráth e Sara Mingardo emergono come polarità complementari. La prima, con timbro chiaro e impostazione lineare, aderisce alla forma musicale con distacco lucido: il suo canto è un asse di verticalità che taglia l’aria e non la abita. Mingardo oppone un colore terrestre, una vibrazione scura, che riporta la scena alla corporeità.
Nel loro dialogo non vi è armonia ma tensione: due linee che non si uniscono, ma definiscono la distanza tra umano e divino. Il Coro di Voci Bianche, guidato da Alberto de Sanctis, agisce come presenza laterale, quasi angelica. I bambini distribuiti nello spazio — gli stessi che reggono il corpo ligneo — aggiungono un grado ulteriore di spiazzamento: la loro voce pura contrasta con la densità materica dell’immagine, producendo una frattura percettiva che è l’essenza stessa del lavoro. Visivamente, Castellucci dispone le figure come in un polittico. Le fotografie testimoniano una composizione rigorosa: le due interpreti in bianco, isolate sullo sfondo nero, sembrano reliquie di se stesse; il gruppo dei bambini, inginocchiati o distesi, forma un fregio di corpi muti; la scultura lignea del Cristo morto, ripetuta e maneggiata, è il fulcro iconico dell’intera costruzione. L’oggetto non viene venerato ma analizzato. La luce — mai naturalistica — scava i volti e lascia che la pietra e la carne si confondano.
L’intera visione appare come un affresco vivente sull’impossibilità della redenzione. Il linguaggio scenico di Castellucci si muove tra rituale e esperimento fenomenologico. La scena non racconta ma esamina. La ripetizione dei gesti, l’immobilità, la disposizione dei corpi in fila ricordano un laboratorio antropologico più che un dramma religioso. Ciò che emerge non è la compassione, ma la percezione oggettiva del dolore: il corpo umano come misura di un’assenza divina. Tutto ciò che è umano — gesto, voce, carne — diventa un dato da osservare, non da giudicare. In questa neutralità estetica si riconosce la cifra più radicale del regista. Il risultato, di grande coerenza formale, non è privo di rischio. L’astrazione, spinta fino al limite, tende a escludere la partecipazione emotiva. L’effetto complessivo è ipnotico, ma anche respingente: lo spettatore assiste a un fenomeno più che a un dramma.
Tuttavia, proprio questa sospensione tra distacco e tensione produce la qualità intellettuale dello spettacolo. Lo Stabat Mater non offre catarsi, ma conoscenza; non cerca l’empatia, ma la precisione. È un teatro che chiede di essere pensato, non amato. Nel silenzio finale, quando la musica si spegne e resta solo la luce che disegna il profilo della navata, la scena non si chiude: resta aperta come una domanda. Ciò che rimane non è la commozione, ma la consapevolezza di aver assistito a una dissezione dell’immagine sacra, compiuta con rigore quasi scientifico. Castellucci e Mariotti, ciascuno nel proprio linguaggio, compiono un’operazione speculativa sul rapporto tra suono, corpo e fede. La pietà, spogliata del suo sentimentalismo, torna ad essere ciò che forse è sempre stata: una forma di pensiero sulla finitezza.
Roma, Basilica di Santa Maria in Aracoeli: “Stabat Mater” di Pergolesi e Scelsi