“Alcina” al Teatro Real di Madrid (cast alternativo)

Teatro Real de Madrid – Temporada 2015-2016
“ALCINA”
Opera seria in tre atti su libretto anonimo, basato su L’isola di Alcina (1728) di Riccardo Broschi
Musica di Georg Friedrich Händel
Alcina SOFIA SOLOVIY
Morgana MARÍA JOSÉ MORENO
Ruggiero JOSÈ MARIA LO MONACO
Bradamante ANGÉLIQUE NOLDUS
Melisso JOHANNES WEISSER
Oronte ANTHONY GREGORY
Oberto FRANCESCA LOMBARDI MAZZULLI
Orchestra del Teatro Real di Madrid
Direttore Christopher Moulds
Assistente del direttore e clavicembalo Luke Green
Regia David Alden
Scene e costumi Gideon Davey
Luci Simon Mills
Coreografia Beate Vollack
Nuova produzione del Teatro Real, in coproduzione con la Opéra National de Bordeaux
Madrid, 1. novembre 2015

Dopo la notte di Halloween assistere all’Alcina di Händel in un grande teatro potrebbe essere il modo migliore per dare seguito musicale all’atmosfera stregonesca e incantatrice di fine ottobre. A patto che la rappresentazione conservi la presenza affascinante della magia e del mistero dei personaggi, almeno in parte … Ma è proprio questo a non verificarsi con la regia di David Alden e con la direzione di Christopher Moulds al Teatro Real di Madrid, il cui secondo titolo della stagione 2015-2016 è appunto Alcina. Moulds è un direttore molto preciso negli attacchi e coerente nello staccare tempi di arie e recitativi, ma il suono della sua orchestra è poco screziato (sebbene possa valersi di una compagine molto ampia per una partitura barocca, con trentacinque elementi complessivi), manca di vibrazione, di sfumature e di tinte, e soprattutto di effetti agogici; ritmo e sonorità sono sempre gli stessi, metronomicamente prevedibili. Senza dubbio è un tipo di direzione utile alla concertazione e ai cantanti, ma dalla resa debole sul piano interpretativo; a poco vale la traslazione sul palcoscenico di alcuni strumenti solisti, di accompagnamento obbligato per determinate arie (per esempio i due flauti dritti di Eva Jornet e Melodi Roig, invitate per l’occasione, o il violino e il violoncello rispettivamente di Victor Ardelean e Simon Veis, che invece fanno parte della Orquesta Titular del Teatro Real). Il direttore opera tagli molto frequenti nei recitativi, con il risultato di presentare l’opera quale semplice successione di arie; anche questa è scelta abbastanza rischiosa, dal momento che le riprese sono sempre esattamente identiche al primo blocco di ciascuna aria, ossia non porgono né variazioni né abbellimenti.
Nel comparto vocale si conta sulla presenza di professionisti ben preparati, oltre che di ottimi attori, ma altre dovrebbero essere le voci di un’opera come Alcina, scritta nel 1735 per personaggi della statura di Giovanni Carestini, Anna Strada del Pò, Cecilia Young o Maria Caterina Negri. Nella compagnia madrilena nessuno può vantare la tecnica della coloritura, l’abilità nel virtuosismo e l’inventiva nelle variazioni che resero celebri gli interpreti händeliani dell’epoca; le voci ascoltate sono tutte corrette, ma piccole, per lo più leggere, a volte insufficienti a sostenere i volumi sonori dell’orchestra.
Il carattere più persistente della voce di Alcina, l’ucraina Sofia Soloviy, è la discontinuità nell’intonazione. Per il resto la sua emissione è come prosciugata di armonici, di colore e di vibrato; una voce asciutta asciutta, dunque, non certo addolcita da risonanze nasali e da suoni striduli al posto degli acuti. Nel II atto acquista un poco di corpo, ma non migliora nel resto. Un altro grave errore – che però non dipende dall’artista – caratterizza negativamente la performance della protagonista: soprattutto nei primi due atti Sofia Soloviy canta per lo più immobile, limitandosi ad attraversare la scena o a scomparire nella fossa orchestrale. La staticità può anche essere momentanea prerogativa di una voce incantevolmente bella e seduttiva, che da sola attiri ogni attenzione dell’uditorio; diversamente, sortisce l’effetto di scoprire i difetti vocali (che invece si dovrebbero nascondere). La catanese Josè Maria Lo Monaco è una cantante molto corretta e sempre ben preparata; la sua voce è sicuramente la più interessante dell’intera compagnia, anche se la cavata resta un poco inferiore rispetto a quanto si pretenderebbe dal personaggio protagonista maschile di Ruggiero. Il suo momento migliore è nel II atto, in occasione delle arie di disperazione e di gelosia, in cui sa essere molto espressiva. María José Moreno, originaria di Granada ma di formazione madrilena, è una Morgana molto disinvolta, anche perché conta su un’emissione facile congiunta a eccellenti doti attoriali. Nelle agilità, però, emerge sempre qualche incertezza: le note scorrono fluide, ma senza corpo, e spesso sono coperte dall’orchestra. Mezzosoprano belga, Angélique Noldus è una Bradamante convincente, anche se tende a spianare le agilità, e di conseguenza non concede alcuno spazio alle variazioni nelle riprese da capo. L’Oronte dell’inglese Anthony Gregory è poco preciso nei passaggi di agilità, e anche la sua cavata resta inferiore a quella necessaria al ruolo. Melisso è il baritono norvegese Johannes Weisser: nei recitativi la voce s’impone autorevole e convincente, mentre nella sua aria accusa le solite debolezze nel registro acuto; è comunque un interprete soddisfacente, considerata la continua presenza sulla scena. Ben riuscito il ruolo fanciullesco di Oberto grazie alla spigliatissima Francesca Lombardi Mazzulli, soprano di formazione milanese.
Sullo spettacolo, che è esteso e articolato, si potrebbe discutere a lungo; per riassumere forse in modo brutale ma chiaro, si può dire che a seconda dei momenti dell’opera il regista abbia avuto o troppe idee oppure troppo poche. All’inizio, per esempio, il regno di Alcina si offre alla vista come una serie di stanze d’albergo, popolate da un personale in alta divisa (Morgana e Oronte); poi questa suggestione è sostituita da un’altra, con un piccolo teatro barocco sul palcoscenico (e dunque “teatro nel teatro”), che però non è sfruttata quasi per nulla. La voce di Alcina si ascolta per la prima volta con il sipario del teatrino ancora chiuso; poi dal centro della cortina esce un braccio guantato di color fuxia, che ritorna ossessivamente nell’opera, e che è il simbolo (purtroppo l’unico) della capacità erotica e seduttiva della maga; un po’ poco, a dire il vero … E tutte le trasformazioni in animale, vegetale e minerale della celebre storia? Oronte è il primo personaggio ad accusare una metamorfosi zoologica: da portiere d’albergo diventa scimmione – comunque gallonato – irretito dalle banane che Morgana gli agita sotto gli occhi. Per il resto compare spesso un figurante in tight con maschera di leone, che si scoprirà alla fine essere Astolfo (padre di Oberto). Non c’è dubbio che David Alden sappia evitare il rischio della monotonia delle arie tripartite con movimenti e accorgimenti scenici imprevedibili (anche divertenti, come quando nel I atto Oronte sfoggia repentinamente un frac rosa da prestigiatore di avanspettacolo, e dirige una passerella di eroi prigionieri di Alcina); tra l’enunciazione di un segmento vocale e un altro, prima delle riprese e in parallelo agli interventi orchestrali i personaggi scompaiono dietro la scena, risalgono su piani praticabili più alti, riappaiono abbigliati diversamente, insomma escogitano trovate sempre differenti, che però non sono funzionali all’azione o al testo poetico, ma risultano puramente riempitivi del tempo musicale che il dispiegarsi dell’aria comporta. E poi, un’opera come Alcina presenta una gerarchia tra i suoi personaggi, che il regista dovrebbe rispettare, anche per aiutare il pubblico a comprenderli, e a capire meglio la vicenda. Il rapporto tra Alcina e Morgana nella regia di Alden è sbilanciato a favore della seconda: al principio dell’opera Morgana appare in divisa di portiere d’un grande albergo (collega di Oronte), ma poi va incontro alla metamorfosi sempre più chiara di femme fatale (perché voler imitare l’allestimento dell’Opéra di Paris di Robert Carsen, visto alla Scala nel 2009, in cui Morgana è appunto una cameriera dall’abitino succinto?). Anche lo sforzo del costumista, Gideon Davey, sembra essersi interessato assai più della sorella che non della protagonista. Se Alcina è sempre solitaria, Morgana è spesso accompagnata da gruppi di valletti e servitori, ha una recitazione spiritosa, muta continuamente di costume e di modi; persino nel II atto, allorché la scena offre la Wunderkammer di Alcina, stipata di strumenti operatori e trofei animali di gigantesche proporzioni, la divertente pantomima creata dal regista occupa lo spazio di un’aria di Morgana; insomma, almeno per i primi due atti è proprio lei la vera protagonista, e anche alla fine dell’opera l’applauso più prolungato e partecipe va a Maria José Moreno (e non soltanto per ragioni vocali).
Sul piano scenografico lo spettacolo comincia male, e va peggiorando in particolare nel III atto. All’inizio è una fuga prospettica di camere d’albergo affacciate su un lungo corridoio, che permette di sfruttare numerosi giochi di ombra, e soprattutto crea un effetto ottico che riduce la statura di Ruggiero, e lo fa apparire schiacciato da tutti gli altri personaggi. Questa potrebbe essere un’ottima idea, ma non è sfruttata appieno. Se alcuni momenti sortiscono un certo effetto suggestivo (come l’invocazione delle potenze infere nel finale II), altri o impediscono di seguire lo sviluppo ariostesco dei fatti magici, oppure forniscono una lettura decisamente tendenziosa e sbagliata. Gli errori si avvertono in particolare nel III atto: ormai sicura del ritorno alla ragione e della fedeltà di Ruggiero, Bradamante rientra in scena abbigliata da casalinga statunitense degli anni Cinquanta, armeggiando con arnesi di cucina; poi compaiono casette a schiera in miniatura, a simboleggiare la vita convenzionale e sciocca che d’ora in poi il paladino e la donna condurranno insieme, al posto delle emozionanti esperienze che si lasciano alle spalle nel regno di Alcina. Nelle note introduttive del programma di sala Alden spiega infatti che il soggiorno presso la maga rappresenta una fuga riuscita dalla noia di tutti i giorni. Se si intendono i doveri e i ruoli che la società impone come compiti ordinari e ripetitivi, che possono anche causare aegritudo vitae in chi è tenuto a praticarli, non si fa altro che ripetere l’intento della digressione ariostesca dei canti VII-X del poema. Ma Alden vuole a ogni costo ribaltare il libretto e il suo esito; per questo inscena nel finale un grottesco matrimonio tra Ruggiero e Bradamante in cui l’eroe, anziché restare nel quadretto fotografico insieme alla sposa, si allontana verso lo sfondo della scena, dove riappare Alcina in lontananza, più languorosa, serena e seducente che mai. Gli errori di questo finale sono almeno due: la caratterizzazione Bradamante e la riabilitazione di Alcina. Un regista scaltro e spiritoso avrebbe fatto rientrare la prima con l’aspetto che davvero le è proprio secondo le storie cavalleresche, ossia di provocante ambiguità sessuale della “donna-uomo”, della “donzella guerriero” (lo sarebbe poi stata anche la Clorinda di Tasso, non a caso prediletta da un compositore come Monteverdi). Anziché sminuirla a insignificante casalinga, con una lettura femminista in ritardo di troppi decenni (che non fa neppure sorridere) il regista avrebbe potuto fare irrompere Bradamante quale dominatrice della sfera matrimoniale, quale nuova “padrona” di Ruggiero. Far riapparire Alcina trionfante anziché sconfitta, in ultima analisi, non è per nulla un’idea nuova; è semplicemente l’acquiescenza alle interpretazioni registiche “di grido” del Don Giovanni mozartiano, nel cui finale è oggi di moda imperante vedere il dissoluto impunito, e tutti gli altri personaggi distrutti dal suo carisma e dalla sua potenza. Intendendo Alcina alla stregua di un Don Giovanni al femminile, Alden non fa altro che applicarvi la medesima lettura. Tale inversione narrativa tradisce ulteriormente la povertà di idee, e crea un danno allo stesso regista, perché tutto l’aspetto della disperazione di Alcina e le soluzioni cui avrebbe potuto ricorrere per realizzarla scompaiono completamente. Con l’assurdo pregiudizio per cui il finale debba essere per forza trasgressivo e divertente, si perde la dimensione più umana dei rimpianti e dell’affetto della maga. Eppure Ariosto lo aveva sintetizzato tanto bene: «Morir non puote alcuna fata mai, / fin che ’l sol gira, o il ciel non muta stilo. / Se ciò non fosse, era il dolore assai / per muover Cloto ad inasparle il filo; / o, qual Didon, finia col ferro i guai; / o la regina splendida del Nilo / avria imitata con mortifer sonno: / ma le fate morir sempre non ponno» (Orlando furioso, X 56).   Foto Teatro Real