Alexander Lonquich e l’orchestra di Santa Cecilia alla IUC

Roma (“La Sapienza” Università di Roma), Istituzione Universitaria dei Concerti, Stagione 2014/2015
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Pianoforte e direttore Alexander Lonquich
Franz Joseph Haydn: Concerto in re maggiore per pianoforte e orchestra Hob. XVIII: 11; Sinfonia n. 83 in sol minore “La Poule”
Wolfgang Amadeus Mozart: Concerto n. 25 in do maggiore per pianoforte e orchestra K. 503
Roma, 14 ottobre 2014

Per l’apertura della nuova stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, che coincide anche col suo settantesimo ‘genetliaco’, è la massima orchestra romana, gli accademici di Santa Cecilia, a officiare i festeggiamenti di rito: a dirigerla, e a suonare come solista al piano, Alexander Lonquich, già noto al pubblico romano.
Un rettorato val bene un concerto. Così si potrebbe ironizzare sull’insolitamente folta presenza di cariche politiche de “La Sapienza”: il rettore uscente, prof. Luigi Frati, e il novello insediato, prof. Eugenio Gaudio sono, infatti, assieme in prima fila a godersi il gustoso programma. Non poteva mancare, ovviamente, in apertura, il classico discorso del prof. Franco Piperno, che questa volta indugia politicamente sull’evento testé verificatosi (mi riferisco all’insediamento del nuovo Magnifico Rettore, naturalmente), prima di introdurre l’aurea classicità dell’incipiente concerto. Il programma è realmente una sorta di summa antologica della classicità: un concerto per pianoforte e orchestra di Haydn, uno di Mozart e, a mo’ di copula, una sinfonia del primo. Del resto, «il classicismo viennese, prima di sublimarsi nell’opus beethoveniano, è nella diade Haydn-Mozart», come ha splendidamente scritto il prof. Piperno, che ci ha anche regalato delle mirabili note di sala.
Primo pezzo è il Concerto in re maggiore di Haydn, unanimemente ritenuto, dalla critica, il più bello da lui composto. Lonquich ci palesa subito il suo lato migliore, quello di artigiano sopraffino della tastiera: e come tutti gli artigiani, non si può pretendere da lui la perfezione. Qualche sbavatura nei passaggi si ascolta nitidamente; ma qualche inezia tecnica è superata dalla brillante visione d’insieme, che inquadra, grazie a un sicuro senso dell’agogica, il tutto in un unicum coerente. Così, il vivace (I tempo) si risolve in passaggi di acquatica virtuosità e di elaborate cadenze; nel poco adagio (II) i Santa Cecilia dipingono magnificamente l’incipit, splendido, dal sapore vividamente vivaldiano − una cullante barcarola −, in cui dopo qualche arpeggio si inserisce il pianoforte − tale cooperazione fra Lonquich e l’orchestra lo rende il momento più bello del concerto haydniano; il III tempo svela il suo carattere più scopertamente ungherese, e il carattere percussivo magiaro è ben interpretato dal solista. L’interpretazione di Lonquich non può essere certo paragonata, per perfezione e tersa pulizia, a quella polita di un Arturo Benedetti Michelangeli (celebre interprete del concerto; si ricordi, per esempio, la registrazione del 1959 con l’orchestra RAI di Torino), ma del tedesco si lasciano apprezzare, appunto, altre qualità: artigianalità, maestranza, senso nobile del ritmo, attenzione a un suono filologico. E non si svela da meno nelle vesti di direttore, lasciando spazio al suono magnifico dei Santa Cecilia: si sta, peraltro, proprio suonando una sinfonia del re del genere («Haydn fu essenzialmente un sinfonista: ebbe per le mani uno straordinario strumento, l’orchestra di corte dei conti Esterházy, e lo sfruttò al meglio infinite volte declinando il genere “sinfonia” secondo le potenzialità timbriche, foniche e stilistiche di quel complesso e definitivamente stabilizzando l’assetto formale e la destinazione d’uso della sinfonia sette-ottocentesca», come ci ricorda Piperno). L’allegro maestoso della Sinfonia n. 83 è un vero tour de force che inizia dalle venature malinconiche (in sol minore), seguite da uno sviluppo incredibilmente lungo basato sull’ossessiva ripetizione di una divertentissima unità ritmica le cui acciaccature hanno forse ricordato il verso della gallina (da cui, appunto, il nomignolo francese); l’andante gioca tutto sui repentini cambi di intensità sonora e mostra ancora qualche venatura vivaldiana; del Menuet si fa apprezzare l’invenzione timbrica, cameristica, del Trio. La sinfonia termina con un finale dal sapore tutto pastorale, evocato dall’oboe che funge da cornamusa. L’orchestra (rimpolpata all’uopo) regala delle sonorità stupende; l’esecuzione fila liscia come l’olio. Dopo l’intervallo è il momento del Concerto n. 25 di Mozart: l’impianto più maestoso, più sinfonico della compagine orchestrale, si fa sentire fin dall’elaborata introduzione, dove il pianoforte fa capolino, quasi chiedendo permesso, e ricamando, poi, una melodia dolce ma decisa, riecheggiante la Marseilleise − anzi, per così dire, anticipandola. La polla inventiva di Mozart zampilla qui felicemente: floridezza tematica, virtuosismo e quant’altro non si fanno attendere. Il secondo movimento ricorda, come ben intuisce Piperno, l’atmosfera dell’aria della Contessa all’inizio del II atto de Le nozze di Figaro: un certo senso di musicale rêverie si coniuga a un languido gusto per il malinconico. Il finale è uno scanzonato allegro, del più genuino salisburghese. Lonquich pone più cura nell’esecuzione della partitura mozartiana e il risultato è un nitore pianistico più marcato; l’orchestra lo accompagna con la consueta magnifica perizia. Come bis programmato regala il III movimento del celebre concerto di Mozart K. 453: l’esecuzione è spigliatamente energica, virtuosistica. Il secondo bis, forse più d’impeto e dovuto ai calorosi applausi, è slegato dal contesto classico: il prelude n. 7 dal secondo libro (La terrasse des audiences du clair de lune) di Claude Debussy, eseguito con competenza ma non con la dovuta astrazione − ma fare un balzo interpretativo di più di un secolo non è psicologicamente, proprio, agevole.