Antonio Salieri (1750-1825): “Les Danaïdes”

Tragédie lyrique in cinque atti su testo di Ranieri de Calzabigi nella versione francese di L. T. von Tschudi e La Bailly du Roullet. Judith van Wanroji (Hypermnestre), Tassis Cristoyannis (Danaüs), Philippe Talbot (Lyncée), Katia Vellataz (Plancippe), Thomas Dolié (Pélagus), Les Chantes du Centre de la musïque baroque de Versailles, Olivier Schneeneli (Maestro del coro), Les Talens Lyrique, Christophe Rousset (direttore). Registrazione, Versailles. Centre de musique baroque de Versailles 27 novembre 2013. 2 CD Ediciones Singulares – Fondazione Palazzetto Bru Zane, volume 9 ES1019 (2015)
Antonio Salieri è ancora in gran parte vittima di leggende e di luoghi comuni che, sorti dopo la sua morte, ne hanno spietatamente deformato l’importanza storica e quasi annullato la fama musicale. Il veronese, tuttavia, non è stato solo un personaggio storicamente fondamentale nell’aver trasmesso al nascente romanticismo la lezione della riforma neoclassica, collegando Gluck, di cui era stato allievo ed erede, a Beethoven, di cui sarà a sua volta maestro, ma anche uno dei compositori più interessanti della sua generazione, capace come pochissimi altri di far progredire l’opera seria riformata verso la nuova sensibilità che si andava affermando con la fine del secolo.
È quindi con estrema gioia che si accoglie questa nuova incisione, filologicamente inappuntabile e musicalmente coinvolgente, di “Les Danaïdes”, l’opera del trionfo parigino e della grande affermazione internazionale.
Andata in scena il 26 aprile 1784, l’opera era debitrice fin dalla nascita della benedizione di Gluck. Il libretto originario – di De Calzabigi in italiano – era infatti destinato al maestro tedesco e quest’ultimo ne aveva fatto trarre una versione francese da due suoi storici collaboratori come Le Bailly du Roullet e von Tchudi; era stato, poi, lo stesso Gluck – ormai stanco e malato – a passarlo all’allievo, senza neppure avvertire De Calzabigi che andò su tutte le furie per lo sgarbo ricevuto. Fondamentale fu il ruolo del maestro nel far accettare l’opera al pubblico parigino, presentandola come lavoro a quattro mani e rivelando solo dopo alcuni mesi di trionfali accoglienze la completa paternità di Salieri.
L’opera nasce evidentemente all’interno della tradizione gluckiana, ma, pur mantenendone le forme, le fa evolvere al massimo delle proprie possibilità drammatiche. La composta classicità gluckiana è qui vitalizzata alla luce di un rapporto più diretto con la tragedia antica e con la sua capacità di esprimere insondabili abissi di orrore, pur nel rispetto delle forme più cristalline. Salieri mostra una capacità di raggiungere vertici drammatici ormai decisamente rivolta verso le nuove tensioni pre-romantiche e che solo Cherubini con la “Medée” riuscirà ad eguagliare prima dell’inizio del nuovo secolo; mentre la scelta di uno dei miti più sanguinari e spaventosi della classicità, una sorta di corsa nel baratro fino all’apoteosi infernale conclusiva, acquisisce, vista la data di composizione, un sentore quasi profetico in una Francia che di lì a poco sarebbe sprofondata nel baratro della Rivoluzione e delle sue conseguenze.
Salieri è, inoltre, uno straordinario orchestratore, ottenendo una ricchezza timbrica ed un’intensità di suono in cui appaiono già evidenti i punti da cui si svilupperà la ricerca beethoveniana e che dovrebbero far riflettere sulla vera natura della drammaticità orchestrale del primo Ottocento, troppo spesso ancora intesa in forme decisamente troppo iper-romantiche, dimenticandosi della sua matrice ancorata alla tradizione classica.
Proprio per quest’apertura verso il futuro, l’opera ha goduto di una fortuna vivissima ancora fino agli anni ’30 dell’Ottocento – seppur nella versione ridotta a quattro atti e in parte arrangiata da Cherubini nel 1817 – suscitando l’entusiasmo di Berlioz, testimone di una ripresa e letteralmente incantato dall’opera, nonostante il disprezzo per gli interventi cherubiniani; non sorprende, quindi, che questa capacità di fondere rigore classico e passione romantica abbia entusiasmato il futuro autore de “Les troyens”, così come lo sprofondamento infernale conclusivo quello del Pandemonium della “Damnation de Faust”.
Si accoglie quindi con grande piacere la registrazione dell’esecuzione in forma di concerto eseguita a Versailles nel 2013 che permette di ascoltare questo autentico capolavoro misconosciuto – per una volta il termine non è eccessivo – con una qualità esecutiva decisamente alta.
Alla guida dei suoi Les Talens Lyrique troviamo un maestro assoluto della musica del XVIII secolo come Christophe Rousset, il quale crede palesemente nei valori di quest’opera e nella sua forza espressiva. La sua è una direzione asciutta, quasi scabra in molti passaggi, che evidenzia al massimo gli elementi di tensione ritmica e dinamica al fine di far risaltare con la maggior chiarezza possibile l’articolazione tragica dell’opera. Una direzione che può sorprendere chi conosce Rousset, soprattutto per le letture galanti e sensualmente melodiche di tanta musica rococò, ma che si adatta alla perfezione tanto al rigore neoclassico dell’opera quanto alle nubi pre-romantiche che sempre più fosche si affacciano all’orizzonte. Les Talens Lyrique suonano splendidamente e, quanto la partitura lo concede, fanno apprezzare le doti di trasparenza e cantabilità che le sono riconosciute. Splendida anche la prova del coro de Les Chantes du Centre de la musïque baroque de Versailles diretti da Olivier Schneebeli, tanto più considerando l’ampiezza e la ricchezza che Salieri pretende dalla massa corale, quasi onnipresente in scena e chiamata a passare dall’eterea purezza degli inni sacri delle nozze al furore diabolico del finale.
La compagnia è molto buona. La parte della protagonista richiederebbe una grande eroina tragica – sul piano vocale ricorda in più punti la Medea cherubiniana – e se Judith van Wanroij non è esattamente quello, le va però riconosciuto di avere una voce molto bella, morbida e lirica, ma non priva di autorevolezza e di una sensibilità interpretativa capace di ben evidenziare i turbamenti del personaggio, in particolare  nei duetti con Lyncée, in cui amore e timore si fondono in un inscindibile contrasto emotivo, e di dar giusto rilievo ai grandi monologhi, aulicamente gluckiani nella loro capacità di superare le varie forme espressive, passando da austeri recitativi declamati a riprese di moduli di aria tradizionale, seppur ricomposti liberamente secondo le esigenze del dramma.
La parte di Danaüs è forse la più teatralmente interessante dell’opera: questo padre insensibile e crudele, ma capace di celare la sua ferocia sotto la più credibile maschera d’affabilità è fra i personaggi più compiuti e originali che la tragedia lirica neo-classica ci abbia lasciato e trova un interprete pienamente all’altezza in Tassis Christoyannis. Il baritono greco è cantante avvezzo ad alternare l’opera settecentesca con il repertorio ottocentesco e questo lo aiuta nel costruire un personaggio capace di mantenere un assoluto controllo stilistico anche nei momenti più drammatici – di grande efficacia la sua gelida freddezza di fronte all’ardente passionalità della figlia – tanto più che queste doti sono unite ad una voce di ammirevole robustezza e a una perfetta pronuncia francese, fondamentale per rendere la sublimità d’eloquio richiesta da queste opere.
Philippe Talbot è un Lyncée luminoso e appassionato, dal timbro chiaro e dalle buone doti di squillo nel settore acuto, dal taglio decisamente elegiaco e sentimentale più che eroico. L’interpretazione è comunque riuscita, con una nota di particolare merito al vibrante duetto che chiude il I atto di cantabilità quasi mozartiana. Completano efficacemente il cast la Plancippe di Katia Velletaz e il Pélagus di Thomas Dolié.