Ballet de l’Opéra de Lyon al Regio di Torino

Torino, Teatro Regio – Stagione d’opera 2013-2014
“Limb’s Theorem”
Balletto in tre parti (Limb’s I – Enemy in the figure – Limb’s III)
Musica Thom Willems
Coreografia William Forsythe
Scene Michael Simon (Limb’s I – Limb’s III), William Forsythe (Enemy in the Figure)
Luci William Forsythe, Michael Simon
Corpo di ballo dell’Opéra de Lyon
“GISELLE”
Balletto in due atti
Coreografia Mats Ek
Musica Adolphe Charlese Adam
Giselle DOROTHÉE DELABIE
Albrecht RANDY CASTILLO
Hilarion FRANCK LAIZET
Bathilde e Myrtha JULIA CARNICER
L’amico di Albrecht HARRIS GKEKAS
Nobili Aurélie Gaillard, Agalie Vandamme, Thomas Gallus.
Contadini Marie Laëtitia Diederichs, Coralie Levieux, Ruth Miro Salvador, Ashley Wright, Alexis Bourbeau, Tadayoshi Kokeguchi, Julian Nicosia, Pavel Trush.
Villi Marie Laëtitia Diederichs, Aurélie Gaillard, Coralie Levieux, Ruth Miro Salvador, Elsa Raymond, Agalie Vandamme, Ashley Wright.
Scene e costumi Marie-Louise Ekman
Luci Jörgen Jansson
Torino, 1 e 7 dicembre 2013     

In nove giorni, tra 29 novembre e 7 dicembre, il Ballet dell’Opéra de Lyon ha offerto presso il Teatro Regio di Torino sei rappresentazioni coreografiche, abbinando due titoli molto diversi, un trittico contemporaneo e un grande classico come Giselle, accomunati però dallo stile interpretativo che aggiorna la danza all’arte contemporanea e all’espressione di emozioni assolute e senza tempo.
Limb’s Theorem. Se i grandi artisti sono coloro che precorrono i tempi, Forsythe è un autentico dottore in materia, un maestro tra gli artisti, come conferma la coreografia dello spettacolo risalente al 1990 (ed entrato nel repertorio del Balletto di Lione soltanto nel 2005). Theorem vuol dire teorema, ossia astrazione di un ragionamento perfetto, Limb è parola polisemica che può significare margine, lembo, ma anche limbo, stato di sospensione indeterminata. Per questo occorre applicare la coreografia di Forsythe a una dimensione concreta, appunto perché il teorema deve essere dimostrato; sin dalla prima parte si riscontra una connessione della macchina scenica e dei movimenti dei danzatori con il funzionamento del nostro cervello: impulsi, instabilità, confusione, senso di pace, voli, respiri, sollievi, giri. La tecnica praticata è un mix incredibile, di Horton, di stile neoclassico, di quello moderno, e i ballerini diventano locutori subliminali, poiché ognuno racconta una storia con le ombre e con la luce, in quello spazio apparentemente senza limiti, libero e infinito nelle sue potenzialità che è il palcoscenico teatrale. Per questo motivo lo scenario minimalista di Limb’s Theorem può essere ricollegato al nostro cervello, le cui sinapsi non si fermano mai e non conoscono limiti.
Eppure nello spettacolo di Forsythe non c’è nulla di astratto; nella seconda parte, Enemy in the figure, l’argomento principale è il rapporto di equilibrio che si dovrebbe trovare, tra passione e relazione. E ancora una volta la luce è protagonista, perché a volte accompagna i ballerini, altre volte li abbandona, e rende indipendente ogni variazione a seconda dei punti su cui cade. I danzatori si muovono nell’ambiente minimalista con tecnica straordinaria; d’altra parte, essi costituiscono una delle compagnie di balletto tra le più importanti al mondo, anche grazie a un repertorio vastissimo. Ma è il geniale lavoro di Forsythe a imporre la sua cifra, costituita appunto di tanti colori, tante sfumature, e soprattutto tanta tecnica.
La musica di Thom Willems, che ha lavorato molto spesso con il coreografo, è del tutto funzionale alla danza e alle sue esigenze: prima nasce l’idea coreografica, e poi quella musicale, elettronica e affidata ai sintetizzatori. L’aspetto più importante è quindi il ritmo, perché Willems imposta tutto su disegni percussivi minimali e strappate di forte sonorità. Non c’è mai alcun accenno melodico, anche se il discorso musicale resta comunque nei confini della tonalità; anzi, le strutture si ripetono con pacatezza, senza ossessioni, con variazioni minime ma insistenti. Alla rarefazione della prima parte si contrappongono la drammaticità e il nervosismo della seconda, e il manierismo della terza, quando c’è spazio anche per brevi squilli e fanfare. Willems predilige un effetto sonoro su tutti gli altri: il fruscio, che ovviamente accompagna i movimenti dei danzatori come per trasformarli in suono; come se i corpi avessero lunghe ali, e il loro ronzare nell’aria disegnasse una danza tutta scatti e rapidità.
Giselle. La prima volta che vidi la Giselle moderna di Ek (la cui première risale al 1982, a Stoccolma) sono uscita dal teatro dispiaciuta, perché ancorata alla versione classica, bellissima e – a mio dire di allora – “intoccabile”. Ma occorre ricredersi, perché l’emozione suscitata dallo spettacolo ospitato dal Teatro Regio è enorme. Ecco in sintesi l’idea fondamentale di Ek: dopo essere stata sedotta e tradita da Albrecht, Giselle è ricoverata insieme ad altre fanciulle in un ospedale psichiatrico, dove vanno a farle visita sia il primo fidanzato Hilarion sia il seduttore, distrutto dai sensi di colpa; e pur essendo alienata, sarà proprio Giselle a dare ultimo conforto ai due uomini. Lo spettacolo è magnifico prima di tutto perché l’interprete della protagonista, Dorothée Delabie, è un’artista straordinaria: una farfalla nel I atto, capace di volare grandi salti con una tecnica di elevazione e un dominio dell’aria stupefacenti. Se si considera come sia difficile trovare una ballerina capace di reggere una variazione di batteria, i grandi salti di Giselle del I atto caratterizzano la Delabie come étoile completa e perfetta. L’immenso palcoscenico del Regio sembra addirittura piccolo per le sue mosse, così ariose e vitali, e per la sua energia incredibile. Appunto sin dal I atto la vicenda “modernizzata” si profila in termini molto chiari, ma non è vero che Giselle sia – come sintetizza la scheda di sala del Regio – «ragazza fragile e semplice», perché il suo nome significa pur sempre ‘freccia’, asta scagliata con forza alla ricerca della felicità; ed è questa la storia che il balletto racconta sempre, sia in versione classica sia in versione moderna. Ottimo anche l’Hilarion di Franck Laizet, soprattutto nella partnership con Giselle; la perfetta alchimia tra i loro corpi è assai più percepibile rispetto a quella con l’Albrecht di Randy Castillo, ancora molto giovane e già molto bravo. Ma, al di là dei ruoli principali, è l’intero corpo di ballo, di contadini e nobili nel I atto, delle villi nel II, a lasciare l’anima nella rappresentazione e a commuovere il pubblico di Torino per la loro passione e assoluta lealtà nei confronti della danza.