Ballet Preljocaj, “Les Nuits”

Parma, Teatro Regio, Parma Danza (decennale) 2013
“LES NUITS”
Ballet Preljocaj

Direttore artistico e coregrafo  Angelin Preljocaj
Musiche di Natacha Atlas & Samy Bishal, 79 D
Interpreti Gaëlle Chappaz, Natacha Griamud, Émilie Lalande, Céline Marié, Wilma Puentes Linares, Aude Miyagi, Nagisa Shirai, Charlotte Siepora, Anna Tatarova, Patrizia Telleschi, Cecilia Torres Morillo, Yurie Tsugawa, Sergei Amoros Aparicio, Marius Delcourt, Sergio Diaz, Jean-Charles Jousni, Fran Sanchez, Julien Thiabult
Scene Constance Guisset
Costumi Azzedine Azzedine Alaïa
Luci Cécile Giovansili-Vissière
Coreologo Dany Lévêque
Coproduzione con Marseille-Provence 2013, Capitale europea della cultura, Théâtre National deChaillot Paris, Los Angeles Music Center, Château de Versailles Spectacles, Staatsballett Berlin, Oper der Stadt Köln, Grand Théâtre de Luxembourg, Théâtre de Caen, Grand Théâtre de Provence, Maison des Arts de Créteil, Festival Montpellier Danse 2013, Théâtre de Saint-Quentin-en-Yvelines, Les Nuits de Fourvière, Amsterdam Music Theater
Parma, 5 maggio 2013, Prima Nazionale
Già in Italia quest’anno, al Valli di Reggio Emilia, con un’altra prima nazionale, Ce que j’appelle oubli  (artisticamente longevo) coreografo franco-albanese Angelin Preljocaj (1957), apre il ParmaDanza, giunto alla sua decima edizione, con “Les Nuits”. Due spettacoli differenti, per testo di origine e narrazione: quello realistico, con la Mise-en-scène di un fatto di cronaca; questo favolistico, con la raffigurazione di un mondo lontano e affascinante, che s’addice a com’è stato nominato nel programma di sala (stampato il 1 febbraio 2013), con la dicitura: “Mille e una notte (titolo provvisorio)”. Siamo subito in Oriente, all’aprirsi del sipario, per assistere affascinati a “brevi storie” coreografate, come se fossero variegati saggi di danza, lasciati forse in sospeso, interrotti a volte dall’alternarsi di scene corali e duetti; come il fare della bella Sherazad coi suoi racconti di vari personaggi, che lasciano spazio a quelli di quest’ultimi.
D’altronde è un teatro nel teatro, specchio di sé, quello di Proljocaj; narrativo ed evocativo, ricco di suggestioni sonore e di rimandi artistico-letterari. Apre col “bagno turco di Ingres”. Una scena di fanciulle per terra, col turbante e seminude che si muovono rispecchiando i loro movimenti, molto belli, ammiccanti e sinuosi. Vero estetismo della forma.
Ma la bella calligrafia, in punta di candida piuma (luce bianca intensa), viene sporcata da macchie nere. Figure di uomini col viso coperto scombinano il quadro trascinando letteralmente via le bagnanti, come in un ratto. Movimenti di lotta tra vittima e carnefice, sincopati, come la musica che poi lentamente si assesta nella scansione di un battito che pulsa regolare: l’amplesso.
Tutto lo spettacolo è evocativo delle Mille e una notte. Gli sfondi disegnati da controluci su sagome di cupole a punta, la musica che riverbera suoni arabeggianti e il frinire delle cicale che zittisce il nostro sguardo e lo posa all’orizzonte, lì dove sorge l’aspettativa. L’aspettativa, appunto, d’intuire una storia raccontata dal gesto, diviene illusione. L’attesa che venga appagato il desiderio di essere rapiti da una di quelle storie tanto ricche di mistero, è vana. Insomma l’odalisca acquiescente del sultano non c’è, ma c’è la donna intelligente e scaltra che riscatta la sua condizione di oggetto privo di parola e si mostra arrogante. Dodici ballerine vestite da pretty woman, in fila di fronte a noi si muovono al ritmo di “It’s a man’s man’s world”, e questo glamour ben contrasta coi loro movimenti, se finiscono per farci il “dito medio” e il manichetto (gesto dell’ombrello) a tempo di musica.
La luce radente di quinta (sempre uguale e monotona) non drammatizza anzi appiattisce il gesto e l’emozione soprattutto quando entrano in scena dei “tappeti volanti”, che messi in verticale nascondono i corpi dei diciotto ballerini, ma non i loro piedi che invece danzano, ma la fioca luce non rivela quel che fanno.
Preljocaj prende il suono del sitar e le volute di fumo del narghilè e li usa per coreografare, per esautorarli dal loro rimando al mondo arabo, ché sarebbe semplicistico; infatti non sono che il supporto evocativo, come si diceva, di scene in cui sia invece palesata la bravura del suo corpo di ballo. Non si denotano studi particolarmente oculati di rimando e riutilizzo delle movenze della danza orientale, sebbene così dovrebbe, considerata la presenza di un coreologo (Dany Lévêque), nel cast tecnico. Quindi “La Nuit” rimane il solo centro dell’attenzione per tutto il tempo, con la sua valenza di momento deputato all’erotismo. Così la penombra del chiar di luna non ha niente di romantico se il gesto che viene suggerito è il richiamo sessuale, anche quello autoerotico, in vero la concupiscenza, in senso biblico: quell’inclinazione naturale per i piaceri non puri.
Entrano a coppie i sei ballerini maschi, mano nella mano, e a turno si guadano allo specchio, si toccano, si desiderano. Quasi lo urlano quel desiderio come il lupo alla luna e le sirene ad Ulisse. Molto bella la parte in cui tre ballerine sopra ad otri giganti, richiamano la nostra attenzione, ci rendono partecipi, come le sirene descritte da Omero. Rispecchiano le nostre voglie notturne, ma da figure maschili sono ritorte e ricacciate dentro ai vasi a smorzare ogni peccato inconfessato.
La gente applaude, a lungo, i ballerini, ma fuori dal teatro critica e rimpiange di non aver assistito ad uno dei lavori più riusciti dell’autore de “Le Funambule”. Foto Roberto Ricci – Teatro Regio di Parma