Berlino, Deutsche Oper: “Death in Venice”

Berlino, Deutsche Oper , Stagione lirica 2017
“DEATH IN VENICE”
Opera in due atti di Benjamin Britten, su libretto di Myfanwy Piper, tratta dal romanzo di Thomas Mann.
Musica di Benjamin Britten
Gustav von Aschenbach PAUL NILON
Il viaggiatore, il bellimbusto, il gondoliere,  il direttore dell’hotel,  il parrucchiere,  la voce di Dioniso SETH CARICO
Apollo TAI ONEY
Madre polacca LENA NATUS
Tadzio RAUAND TALEB
Due sorelle di Tadzio EBRU DILBER, JULIA BREIER
Educatrice ANNE RÖMETH
Jaschiu, amico di Tadzio ANTHONY MROSEK
Altri amici LAURENZ WIEGAND, PHILIP ROZENKIEWICZ, PHILIPP DJOKIC , ALEXANDER GAIDA, ALEXANDER SCHANK , DAVID LEHMANN
Venditrice di fragole ALEXANDRA HUTTON
Orchestra e coro del Deutsche Oper di Berlino
Direttore Donald Runnicles
Maestro del coro Raymond Hughes
Regia Graham Vick
Scene e costumi Stuart Nunn
Luci Wolfgang Göbbel
Coreografie Ron Howell
Berlino, 19 marzo 2017
Quell’alone di mistero e inquietudine, quell’atmosfera onirica che racchiude la vicenda di Death in Venice presente dapprima nel romanzo di Thomas Mann, e in seguito negli essenziali paesaggi sonori creati da Britten, sotto le mani di Graham Vick sembra quasi affievolirsi. E’ un po’ come se il regista britannico ci stesse proponendo un’altra vicenda, ambientata in un luogo indefinito, che potrebbe essere un qualsiasi paese d’occidente nel quale i personaggi si astraggono dalla propria interiorità come se fossero fantocci. Ed è così che a distanza di più di quarant’anni dal primo debutto nella capitale tedesca di Death in Venice, il ritorno al Deutsche Oper è stato al quanto discusso.
Benjamin Britten, poco prima della sua morte, lasciò ai posteri un’eredità dal valore inestimabile e Death in Venice ne è ad oggi solo una piccola parte, resa unica dalla collaborazione con la librettista Myfanwy Piper, che seppe tirar fuori il meglio dal noto romanzo di Thomas Mann.  Sono in tanti, infatti, coloro che rivedono come elemento caratterizzante della vicenda la componente omosessuale di Gustav von Aschenbach, in accordo alle reali tendenze del compositore. C’è da dire però, in realtà, che in Death in Venice c’è molto di più.  C’è il forte richiamo alla tragedia greca, e c’è anche il richiamo al conflitto, di indubbia natura nietzscheana, tra lo spirito apollineo e quello dionisiaco, che infine avrà il sopravvento sul primo.
Il personaggio di Aschenbach ha molto di quel che fu il temperamento di Britten stesso d’altronde, dall’estremo riserbo, l’autodisciplina, e quella passione totalizzante, come fosse un fuoco, per la quale, giusto per porre un esempio, il compositore decise di posticipare la sua operazione al cuore, per finir di comporre l’opera. Sarebbe errore grave, infatti, il soffermarsi esclusivamente all’evidenza della componente che fa riferimento all’invaghimento di Aschenbach nei confronti del giovane Tadzio, senza valutare l’aspetto mentale che incarna questo conflitto, ben udibile nella musica di Britten.
Ed è quello che il regista britannico, sembra proprio aver fatto. Le diciassette scene, presenti nel libretto, infatti, avrebbero forse dovuto rappresentare quasi un cammino interiore, come delle tappe, che il protagonista compie prima di arrivare al culmine della perdita di senno. Vick, invece, le elimina tutte, senza pietà, spiegando che tale scelta è utile al fine di evitare i cambi di scena. Delle diciassette scene sta di fatto che ne resta una sola, con un unico filo conduttore, l’invaghimento dei sensi e nulla più. Il tutto rimane fermo in una dimensione mentale, perché è solo nella mente dello spettatore che la vicenda può prendere campo.
Sullo sfondo, il tutto sia apre con il funerale di Aschenbach, come presagio forse di quel che verrà, come se lui stesso stesse assistendo al suo funerale in sogno o in una visione. Quando invece originariamente la scena iniziale avviene in un cimitero tedesco e non per la morte del protagonista.
Anche il giovane Tadzio non sembra incarnare i classici ideali grechi di bellezza, ma piuttosto appare come un ragazzo smilzo e non dalla spiccata presenza scenica. I noti giochi di Apollo del settimo quadro, sembrano tramutarsi in un incontro di karate piuttosto che in un pentathlon.
Donald Runnicles, invece, ha dimostrato proprio tutto il suo amore e la sua ammirazione per la musica di Britten, riproposta da lui con estrema fedeltà. Commovente nel finale, nostalgico ma non triste, come una sorta di tranquilla accettazione dell’inevitabile. Runnicles in questo Britten si è concentrato sui colori, sul bianco e nero sintetizzato nei recitativi di Achenbach, in contrapposizione con l’orchestra e con i suoni orientaleggianti del vibrafono, cogliendo la vera essenza di questa musica, in una sola parola: ammaliante.
Ottima anche la scelta degli interpreti.  La parte del protagonista, come è assai noto, fu composta da Britten tenendo in considerazione le caratteristiche vocali del suo compagno di vita , ossia il tenore Peter Pears, all’epoca non più giovanissimo, motivo per il quale il compositore predilesse il registro medio acuto, ma più cauto sull’acuto, ed il recitativo accompagnato dal pianoforte solo. Paul Nilon, possiede quella maturità scenica ideale per il ruolo di Aschenbach, non è né troppo giovane né troppo vecchio, la sua voce è matura, non particolarmente grande,  ma tecnicamente corretta. Probabilmente sarebbe difficile per questo ruolo trovare un cinquantaseienne come lui, e la sua “inglesitudine” gioca tutta a suo favore. Molto bravo il basso baritono Seth Carico ( la voce di Dioniso, il gondoliere, il viaggiatore sconosciuto, il vecchio bellimbusto e  il barbiere) dalla voce sufficientemente duttile e dall’eccellente presenza scenica, ha letteralmente conquistato il pubblico del Deutsche Oper. Bravo anche il controtenore Tai Oney ( il dio Apollo), dalla vocalità raffinata. Poco gradevole, invece, la venditrice di fragole, Alexandra Hutton. Ha mostrato, invece, tutta la sua bravura il coro del Deutsche Oper, che, in un’opera come questa è stato in parte anche un po’ protagonista, dimostrando di esser composto da cantanti validi e dalla spiccata presenza scenica. Bizzarro però, il finale proposto da Vick, ossia, la morte di Tadzio, ucciso dai suoi amici per errore durante il gioco, e Aschenbach che non muore. Uno scambio di ruoli del quale non si comprende bene il significato, ed è anche probabilmente per questo che il pubblico del Deutsche Oper, la sera della prima, non ha esitato nel mostrare il proprio dissenso con più fischi che applausi. Certamente Death in Venice però rimane un capolavoro, e il ritorno in Germania della musica di Britten è sempre ben gradito. Foto Marcus Lieberanz