Bologna, Teatro Comunale: “Macbeth”

Bologna, Teatro Comunale, Stagione Lirica 2013
“MACBETH“
Melodramma in quattro atti, libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei, dall’omonima tragedia di William Shakespeare
Musica di Giuseppe Verdi
Macbeth DARIO SOLARI
Banco RICCARDO ZANELLATO
Lady Macbeth JENNIFER LARMORE
Dama MARIANNA VINCI
Macduff ROBERTO DE BIASIO
Malcom GABRIELE MANGIONE
Il Medico ALESSANDRO SVAB
Un domestico di Macbeth MICHELE CASTAGNARO
Il sicario SANDRO PUCCI
L’araldo LUCA VISANI
Prima apparizione MICHELE CASTAGNARO
Seconda apparizione VALENTINA PUCCI
Terza apparizione ANNALISA TAFFETANI
Duncano GIANLUCA D’AGOSTINO
Fleanzio VALENTINA VANDELLI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Preparatore Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia, scene, coreografia, ideazione luci Robert Wilson
Costumi Jacques Reynaud
Light designer Aj Weissbard
Nuovo allestimento Teatro Comunale di Bologna
in coproduzione con Change Performing Arts
Bologna, 7 febbraio 2013

Che senso ha che nei primi sei mesi del 2013 il Macbeth di Verdi sia programmato nelle città vicine di Genova, Bologna, Trieste, Milano e Firenze in quattro produzioni diverse (senza contare poi Verona nel dicembre 2012)? Che senso ha programmare un’opera che si basa così tanto sull’intensità interpretativa dei due protagonisti quando non si hanno due cantanti all’altezza? Che senso ha scegliere per un dramma che si basa così tanto sullo scavo psicologico dei personaggi un regista “minimal chic” la cui unica preoccupazione è utilizzare i cantanti come manichini per creare degli statici quadretti che verranno molto bene in foto (sempre che qualcuno, a differenza di chi scrive, trovi attraente questa insipida estetica anni ’80)?
L’unico punto di interesse di questa produzione è risultato quindi essere il piacere perverso di ascoltare, nel carismatico ruolo di soprano drammatico di Lady Macbeth, anziché l’annunciata Tatiana Serjan, un famoso mezzosoprano rossiniano, Jennifer Larmore, che ha già debuttato questo ruolo inaspettato (per non dire improbabile) a Ginevra. La performance di Jennifer Larmore può essere valutata secondo diversi punti di vista. Se non fosse già una cantante famosa per un altro tipo di repertorio qualcuno la scritturerebbe mai come Lady Macbeth? Certamente no. Le note richieste dal ruolo ci sono tutte e gli acuti non sono affatto un problema, ma la voce è troppo poco sonora per questo tipo di repertorio. Se fosse una sconosciuta che presenta questo ruolo in un’audizione verrebbe da dirle: “Signorina, ha considerato la possibilità di fare il mezzosoprano rossiniano?”. Chiedersi perché mai a qualche direttore artistico di un teatro lirico sia venuto in mente di scritturarla come Lady sarebbe sciocco. La parte sciocca della domanda ovviamente sta nell’accostamento fra “direttore artistico di un teatro lirico” e “mente”. Ma perché mai un’artista come la Larmore ha voluto cimentarsi in un ruolo al quale non può portare nulla di utile? In questa intervista  alla televisione svizzera francese la cantante afferma che il ruolo è stato scritto da Verdi per una voce proprio come la sua. Dove abbia tratto questa idea, è un mistero. La tecnica della Larmore, infatti, è stata costruita per tanti anni intorno ad una tessitura media e sulla transizione il più impalpabile possibile tra il registo centrale e il registro di petto. Viceversa, il ruolo della Lady è un ruolo di tessitura più elevata e le frequentissime discese in un registro grave sono tanto più emozionanti quanto più il cambio di registro viene enfatizzato, anziché mimetizzato, come decine di veri soprani drammatici hanno brillantemente dimostrato. In sostanza, se si canta la “Gran scena del sonnambulismo” come se fosse “Per lui che adoro” il risultato sarà assai noioso. Le melodie sono certamente belcantistiche, ma il contesto drammatico (allucinazioni tra il sonno e la veglia ispirate dal senso di colpa) ne impone una interpretazione un po’ diversa dalle amorose melodie di Isabella o Rosina. Senza contare ovviamente che, data l’orchestrazione di Verdi, una voce piccola, per mantenersi udibile, non può offrire molti colori. E, sia questo da imputare all’età o alla pesantezza inusitata del ruolo, il vibrato della voce della Larmore, senza assolutamente mai dare l’impressione di una “voce logora”, non è sempre gradevole. (A ciò si aggiunga che la pronuncia della Larmore, sebbene migliorata rispetto alle recite di Ginevra, dalle quali vi offriamo l’ascolto di un paio di estratti, non assomiglia molto all’italiano).Per la cronaca, pare che la Larmore abbia fermamente deciso di continuare su questo tipo di repertorio e ha già annunciato che nella prossima stagione farà Medea di Cherubini, sempre a Ginevra, sempre con la regia della sua “musa” Christof Loy. D’altra parte, a sua difesa, bisogna dire che il contesto nel quale è stata inserita a Bologna, assai differente dalla produzione di Loy di Ginevra, non poteva esserle più sfavorevole. Nulla può impedire ad un cantante di dare vita ad un personaggio più di una regia di Bob Wilson, che è l’esatto contrario del dramma. La regia di Bob Wilson di Macbeth è esattamente identica alla regia di Bob Wilson del Ritorno di Ulisse in patria o di Pélleas et Mélisande o dei sonetti di Shakespeare o di qualsiasi altra cosa, con i suoi neon in proscenio (che puerilmente aumentano di luminosità quando l’orchestra fa qualche fortissimo), i suoi pvc sul fondo con strisce di luce, i movimenti finto-kabuki e un occhio di bue che deve seguire i movimenti (scarsi e lenti) di ciascun cantante per essere costantemente puntato sul suo volto imbiancato. D’altra parte, perché sforzarsi di cimentarsi con questi testi diversi e fare qualcosa di diverso quando critici e direttori artistici ti hanno già proclamato un genio e chiamano la tua pigrizia “inconfondibile cifra stilistica”? Perché mai rischiare di confonderli? Non è forse rassicurante questa eterna ripetizione? Come la musica minimalista cui non a caso il nome di Wilson è per sempre legato, che fa sentire quella generazione senza ideali di yuppies ora 50-60-70enni molto profonda, con un linguaggio che passa per essere raffinato ma che non pone a cimento i suoi limiti intellettuali e che, naturalmente, è lontano anni luce da qualsivoglia impegno politico. Macbeth è un testo veramente rischioso, da questo punto di vista: una coppia che ricerca il potere a tutti i costi e calpesta così i propri sentimenti umani, che tuttavia riafforano sotto forma di follia…. Magari qualcuno del pubblico potrebbe rimanere turbato, perfino personalmente offeso. Ma non c’è da preoccuparsi! Per quanto il soggetto possa essere inquietante sulla carta, nessuna problematicità, nessun sentimento può scampare al trattamento disinfettante e anastetizzante Wilson. Ed ecco che il raffinato melomane può godersi due ore e cinquanta di pura noia, che, come si sa, è tanto culturale.
Infagottati in rigidi costumi e ingessati come bambolotti (ma nei momenti di maggiore intensità possono anche compiere comiche piroette sul posto), ai cantanti è preclusa ogni forma di recitazione. La Larmore ha cercato di interpretare il suo personaggio, facendo “la cattiva” e sporcando la linea vocale, ma senza ottenere nessun effetto, rimanendo nuda con tutte le improbabilità tecniche esposte sopra. Così anche per gli altri membri del cast, che, comunque erano senz’altro più plausibilmente verdiani. Non potendo in alcun modo dare conto dell’interpretazione attoriale, forzatamente assente in questo bolso teatrino del nulla, si dirà qualcosa delle voci.
Sono molto felice di poter cambiare radicalmente la mia opinione del baritono uruguayano Dario Solari, che come Escamillo qualche anno fa a Modena mi era parso sinceramente inascoltabile. Non ha una tecnica infallibile e qua e là qualche suono (non solo gli acuti) è uscito un po’ ingolato, ma in generale, in questa occasione, la voce è apparsa molto bella e sonora e capace di escursione dinamica. Riccardo Zanellato è stato un Banco eccellente e, nonostante nella ricerca dello squillo qualche nota sia schiacciata in una maniera lievemente dilettantisca, Roberto De Biasio ha dato ottima prova di sé come Macduff, guadagnando giustamente i maggiori applausi della serata, dal momento che l’aria “Ah, la paterna mano”, nella sua convenzionalità, è l’unico pezzo di quest’opera che può prestarsi all’impostazione non teatrale dello spettacolo. Tra i comprimari, non eccezionali, si può segnalare il corretto Medico di Alessandro Svab. Le voci bianche che impersonano le apparizioni (come al solito femmine e come al solito lamentose, cosa che in questo contesto può anche stare bene), avrebbero dovuto essere amplificate. La bacchetta di Roberto Abbado ha forzatamente seguito la regia, risultando cioè pesante e noiosa. Il Coro del Comunale di Bologna, ora preparato da Andrea Faidutti, è stato splendido come sempre e, prevedibilmente, “Patria oppressa” ha regalato il momento di maggiore intensità emotiva in questa serata interminabile. “Il sonno per sempre, Glamis, uccidesti!” Ma Bob Wilson ce lo riporta con gli interessi. P.V.Montanari Foto Rocco Casaluci © Teatro Comunale di Bologna