Cagliari, Teatro Lirico: “Lo schiavo”

Teatro Lirico di Cagliari, Stagione Lirica e Balletto 2019
LO SCHIAVO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Luigi Paravicini, da un originale di Alfredo d’Escragnolle Taunay.
Musica di Antônio Carlos Gomes.
Il Conte Rodrigo DONGHO KIM
Americo MASSIMILIANO PISAPIA
Ilàra SVETLA VASSILEVA
La Contessa di Boissy ELISA BALBO
Iberè ANDREA BORGHINI
Goitacà DONGHO KIM
Gianfèra DANIELE TERENZI
Lion FRANCESCO MUSINU
Guaruco MARCO PUGGIONI
Tapacoà MICHELANGELO ROMERO
Tupinambà FRANCESCO MUSINU
Orchestra e Coro del Teatro Lirico di Cagliari
Direttore John Neschling
Regia Davide Garattini Raimondi
Scene Tiziano Santi
Costumi Domenico Franchi
Luci Alessandro Verazzi
Coreografie Luigia Frattaroli
Nuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari in coproduzione con il Festival Amazonas de Ópera di Manaus
Cagliari, 1 marzo 2019
Da alcuni anni è tradizione del Teatro Lirico di Cagliari aprire la stagione con un titolo di rara esecuzione, e questa volta è toccato allo Schiavo di Antônio Carlos Gomes, concepito per essere rappresentato a Bologna negli anni ’80 dell’Ottocento, ma, dopo alterne vicende, deviato su Rio de Janeiro (1889) e giunto solo ora alla sua prima rappresentazione in Italia. Il compositore, brasiliano di nascita e di cuore, ma di cultura musicale italiana, voleva con quest’opera affrontare il problema della schiavitù dei neri, che proprio in quegli anni ottennero la libertà civile in Brasile. Tuttavia, il librettista Rodolfo Paravicini spostò la vicenda nel XVI secolo, rendendone protagonisti gli indigeni al tempo della colonizzazione europea del Sud America, e generando alcune incongruenze; nemmeno le più gravi, peraltro, in un testo che, dal punto di vista drammaturgico, presenta più d’un passaggio claudicante, e dal punto di vista poetico è decisamente mediocre. A onor del vero, bisogna aggiungere che forse qualche pecca drammaturgica non la si deve al testo in sé, ma a tagli praticati in sede esecutiva, che, nell’impossibilità di consultare uno spartito, non si possono verificare con precisione (sicuramente è stata espunta la suite di danze del II atto), ma sono consueti nella prassi esecutiva gomesiana (per fare un esempio parallelo, non esiste un’edizione del Guarany che registri l’intera partitura). Dal punto di vista musicale, Gomes si mostra chiaramente – assai più di quanto non accadesse negli antecedenti Guarany e Salvator Rosa alla ricerca di una propria strada che, assorbendo e rielaborando le esperienze del melodramma italiano e francese degli anni precedenti, aprisse orizzonti originali nel teatro d’opera. Questo tentativo conduce a un uso diffuso, e particolarmente marcato nel I atto, del declamato e di forme intermedie tra il “recitativo” e il numero chiuso; ma è un dato di fatto che la partitura si riveli più convincente là dove il compositore si affida alla garanzia delle forme consolidate, e lascia che prenda il volo una melodia più spiccatamente orecchiabile o che si impongano ritmi serrati e travolgenti. Di buona fattura è l’orchestrazione (particolarmente pregevole nell’interludio del IV atto, mini poema sinfonico che descrive un’alba tra foreste e mare); anche se qua e là, ove non rigorosamente domata, rischia di mettere a dura prova le voci.
La produzione cagliaritana è stata affidata alla regia di Davide Garattini Raimondi, visivamente di impianto tradizionale (anche se le scene di Tiziano Santi e i costumi di Domenico Franchi risultano alquanto semplificati, evocativi più che descrittivi di una realtà storica), intesa a sottolineare, quasi con caricatura, le relazioni fondate su sospetto, violenza e disprezzo che intercorrono fra i personaggi e fra i gruppi umani che calcano la scena, da cui si stagliano, per nobiltà d’animo, i tre protagonisti. Il dettaglio più curioso, ma anche il più inutile, erano i figuranti muti in costume di schiavi oppressi in cui gli spettatori si imbattevano nel foyer, al momento dell’ingresso in teatro.Il cast scritturato per l’occasione si è rivelato complessivamente all’altezza delle non esigue richieste gomesiane, e, sia pure senza vere punte di diamante, ha permesso di cogliere con attendibilità i pregi e i limiti della partitura. Il protagonista, lo schiavo Iberè (fiero delle sue origini indigene, ma fedele fino al sacrificio al figlio dell’ex padrone, che lo aveva sottratto a un’umiliazione), è stato interpretato dal baritono Andrea Borghini con soppesato fraseggio, ora dolente ma non rassegnato, ora capace d’incidere la frase energica con piglio eroico. Protagonisti del pari sono Americo e Ilàra. Il primo (colono portoghese, ma vicino alla causa degli indigeni) era appannaggio del tenore Massimiliano Pisapia, il quale ha risolto la serata a fasi alterne, alternando frasi ben sfumate nelle quali ha dato sfoggio di metallo luminoso a momenti in cui il suono si arrochiva e scivolava verso il parlato. La seconda (schiava indigena segretamente fidanzata con Americo, ma costretta a sposare Iberè), affidata al soprano Svetla Vassileva, risultava più à l’aise quando poteva slanciare la voce nel registro acuto, con la drammaticità della lama o la delicatezza della frase sognante sostenuta sul fiato, che ne hanno disegnato una figura di donna passionale; dove la tessitura si tiene grave, come nell’aria del III atto, l’espressione del tormento interiore risultava penalizzata da un suono piuttosto opaco. Almeno altri tre personaggi non possono essere qualificati come comprimari. La Contessa di Boissy (presente nel solo II atto, del quale è però padrona quasi assoluta), aristocratica francese invaghita di Americo, è stata interpretata dal soprano Elisa Balbo, la quale, con la peculiare nota acidula delle sue agilità, vivifica il carattere superficiale della donna, incapace di affrontare la vita senza abbandonarsi a risatine isteriche. Il basso Dongho Kim ha dato voce al crudele Conte Rodrigo (nonché al capo indigeno Goitacà, negli ultimi atti dell’opera) con voce ampia e grave, a tratti appropriatamente ruvida. L’ancor più perfido fattore Gianfèra ha avuto nel baritono Daniele Terenzi un espressivo interprete del suo carattere violento. Più piccoli, ma comunque ben tratteggiati, sono i ruoli affidati a Francesco Musinu (Lion e Tupinambà), Marco Puggioni (Guaruco) e Michelangelo Romero (Tapacoà). Il direttore John Neschling ha garantito una buona tenuta dello spettacolo, scegliendo dinamiche sostenute ma quasi mai soverchiando le voci, e mettendo in risalto i pregi dell’orchestrazione di Gomes; aveva, dalla sua, le ottime compagini sinfonico-corali del Teatro Lirico.