Cremona, Teatro “Ponchielli”: “Rinaldo”

Cremona, Teatro Amilcare Ponchielli, Stagione d’Opera 2018-2019
RINALDO
dramma per musica in tre atti su libretto di Giacomo Rossi, tratto da uno scenario di Aaron Hill.
Musica di Georg Friedrich Händel
Nuova edizione critica a cura di Bernardo Ticci. Revisione drammaturgica a cura di Ottavio Dantone  Rinaldo DELPHINE GALOU
Goffredo RAFFAELE PE
Almirena FRANCESCA ASPROMONTE
Argante LUIGI DE DONATO
Armida ANNA MARIA SARRA
Mago cristiano FEDERICO BENETTI
Una donna ANNA BESSI
Orchestra Accademia Bizantina
Direttore 
 Ottavio Dantone
Regia Jacopo Spirei
Scene Mauro Tinti
Costumi Silvia Aymonino
Luci Marco Alba
Compagnia di danza Déjà Donné
Coreografie Virginia Spallarossa
Nuovo allestimento, coproduzione dei Teatri di OperaLombardia
Cremona, 25 novembre 2018
I teatri di OperaLombardia per questa stagione hanno operato delle scelte oculate e di qualità: inserire nel loro cartellone un’opera di Händel, anche se si tratta del celebre “Rinaldo”, è, almeno sulla carta, il coronamento perfetto di quest’annata; non solo per l’ancora non del tutto riconosciuta grandezza del compositore, vero genio del suo tempo, secondo solo a Bach e per alcuni aspetti nemmeno a lui, ma anche perché l’opera barocca ha spesso dinamiche affini alla nostra contemporaneità, accostate a una semplicità drammaturgica che consente più livelli di fruizione. Eppure, proprio in questa occasione, si è assistito a uno spettacolo discutibilissimo (quando non chiaramente erroneo), sia sotto l’aspetto creativo che sotto quello canoro – ma non musicale, giacché l’Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone è una costante conferma di qualità quasi imperfettibile, qui, peraltro, alla prova con una nuova edizione critica, a cura di Bernardo Ticci, che si basa sulla versione del 1731, ma la integra con ampie pagine dall’originale di vent’anni prima; Dantone è un Maestro dei nostri tempi, e senza alcuna apparente difficoltà coordina complesso orchestrale e scena, per regalarci una direzione fresca e incalzante, che non sfora mai nel larmoyant. Abbiamo parlato altre volte, invece, delle libertà che il regista può prendersi nell’opera, e non ci torneremo: basti solo sapere che Jacopo Spirei e il suo team creativo (Silvia Aymonino ai costumi, Mauro Tinti alle scene) sviliscono il concetto di nobiltà, che l’opera seria non dovrebbe mai dimenticare, tantomeno quella barocca, tantomeno quella di Händel, che di essa fa una vera bandiera. Una resa contemporanea di un’opera barocca (e ne abbiamo viste di bellissime, in passato, beninteso) non può essere l’accozzaglia di citazioni e banalità che vengono messe in scena qui: Armida e le furie uscite da un manga fantasy pornosoft (la sua aiutante, invece, da “Marie Antoinette”), Argante simil-William Wallace, Goffredo maresciallo austro-ungarico, ma soprattutto Rinaldo e Almirena ridotti a impiegatucci ingrigiti, impacciati topi d’ufficio che si innamorano scambiandosi i fermacampioni, in una sinfonia recitata che poteva benissimo restare a sipario calato; ma non è finita: il regno di Armida è un nightclub dominato da una delle “Maman” di Louise Bourgeois (giganteschi ragni in covata), invece il giardino di delizie è uno skatepark invaso di vegetazione, da cui spuntano alberi orizzontali; l’ufficio anni Ottanta di Rinaldo sembra una sorta di Studio di San Girolamo rivisitato, e quando non si sa cosa inventare, ecco una bella parete di eternit a coprire lo sfondo. L’apice del ridicolo si raggiunge con l’aria “Bel piacere è godere”, in cui per far stendere Almirena si fanno entrare due metri quadrati d’erba con un micro alberello sotto cui la povera interprete è pure costretta a rotolarsi e fingere di “godere”, per l’appunto. Nel finale tutti questi elementi vengono letteralmente ammassati in scena, per la gioia dello spettatore ipovedente, e non si tira il sipario (che invece si è tirato fin troppe volte durante la performance). Sebbene ogni singolo oggetto sia pregevole di per sé (i costumi della Aymonino sono efficaci, le scenografie curatissime e ardite), è proprio l’organizzazione di essi, la regia, a dover essere biasimata: c’è davvero bisogno di tutto ciò? Di tutti i gesti muti di gusto quasi farsesco con cui si infarciscono le interpretazioni dei cantanti? E, proprio nel giorno dei diritti delle donne, di far vedere due uomini prendere mazze da baseball e picchiare tre danzatrici per cinque minuti buoni? Il pubblico giustamente rumoreggia, e far rumoreggiare un pubblico generalmente sopito e passivo, come quello del “Ponchielli” di Cremona, è impresa di cui non vantarsi necessariamente. Ad aggravare la situazione si mette anche un cast dalle prove discontinue, che vede solo in Goffredo e Almirena due interpretazioni riuscite appieno: Raffaele Pe (Goffredo) sfoggia  un bel timbro contraltile, intonazione perfetta e cura del fraseggio e dell’emissione. Il suo apice è senz’altro l’aria del terzo atto “Sorge nel petto certo diletto”, che strappa applausi a scena aperta (tributati, altrimenti, soltanto alla celeberrima “Lascia ch’io pianga”), in cui emoziona con splendide messe di voce, e precisissimi abbellimenti e cadenze. Anche Francesca Aspromonte nella parte di Almirena convince per la vocalità omogena e ben timbrata, accostata alla piacevolezza del colore, oltre che per l’interpretazione corretta delle linee melodiche: “Lascia ch’io pianga” è naturalmente il suo punto più alto, e la cantante riesce a conferirle quella nobiltà di cui sopra, sebbene interpretata al bancone di un bar, circondata da prostitute in preda a languori. Due momenti fugaci di piacere regalano anche Anna Bessi (l’aiutante di Armida) e Federico Benetti (il Mago), mentre l’Argante di Luigi De Donato è appare alquanto discontinuo nella resa vocale, talvolta giustamente tonante e ben sostenuto, altre intubato, altre ancora – soprattutto nei recitativi – poco a fuoco. L’Armida di Anna Maria Sarra affascina certamente lo spettatore, grazie ad agilità ben eseguite e picchiettati d’effetto, ma anche qui la voce appare talvolta povera di suono, così come  il fraseggio suona confuso. È comunque una buona interpretazione complessiva, considerato quanto la regia mortifichi il personaggio. Rincresce sinceramente constatare come l’interprete più criticabile (e criticata anche dal pubblico in sala) sia proprio la protagonista, Delphine Galou, che regala un’interpretazione al di sotto delle sue potenzialità: se le agilità sono ben eseguite, sono proprio i momenti più lirici a tradirla, rivelando una voce estesa, ma anche molto limitata nel volume (nel terzo atto, ad esempio, viene coperta dal clavicembalo); il bel timbro vellutato e l’ampia gamma di sfumature cui negli anni la contralto francese ci ha abituato (principalmente su disco…che molto spesso tradisce le reali potenziali vocali del cantante), non emergono, e a poco serve il grande coinvolgimento scenico che la cantante dimostra. C’è da augurarsi che per le repliche bresciane, comasche e pavesi di questa produzione riesca a tornare in forma e a completare positivamente per lo meno il cast di questa produzione a dir poco confusa. Foto Zovadelli & Santambrogio