“Das Rheingold” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real, Temporada 2018-2019
“DAS RHEINGOLD”
Prologo in quattro scene del ciclo scenico-sacro Der Ring des Nibelungen
Libretto e musica Richard Wagner
Wotan GREER GRIMSLEY
Donner RAIMUND NOLTE
Froh DAVIS BUTT PHILIP
Loge JOSEPH KAISER
Fasolt ALBERT PESENDORFER
Fafner ALEXANDER TSYMBALYUK
Alberich SAMUEL YOUN
Mime MIKELDI ATXALANDABASO
Fricka SARAH CONNOLLY
Freia SOPHIE BEVAN
Erda RONNITA MILLER
Woglinde ISABELLA GAUDI
Wellgunde MARÍA MIRÓ
Flosshilde CLAUDIA HUCKLE
Orquesta Titular del Teatro Real
Direttore Pablo Heras-Casado
Regia Robert Carsen
Scene e costumi Patrick Kinmonth
Luci Manfred Voss
Produzione Oper Köln
Madrid, 27 gennaio 2019

George Bernard Shaw scrisse nel suo Wagneriano perfetto che per amare sin da subito Das Rheingold bisogna prima nutrire un amore profondo e sincero nei confronti dell’umanità tutta, e saper soffrire per le sue incessanti pene. Diversamente – secondo il corrosivo critico – si spiega la reazione di insofferenza e di fastidio di quegli spettatori che non resistono alle due ore e mezza di rappresentazione, durante le quali devono confrontarsi con scontri dialettici, quesiti filosofici, temi musicali che prendono forma e si intrecciano tra loro per definire i tanti personaggi e il groviglio degli accadimenti. Del resto, perché l’allestimento scenico sia comprensibile ed efficace, è sufficiente rispettare le minuziose indicazioni d’autore, e concepire L’oro del Reno non come vicenda a sé stante, bensì nell’economia della Tetralogia, di cui è Prologo. La versione proposta dal Teatro Real di Madrid presenta più di un motivo d’interesse: la direzione musicale è affidata a Pablo Heras-Casado, principale Direttore ospite, esperto nel repertorio contemporaneo (al Real ha diretto El público di Sotelo e recentemente Die Soldaten; ma nel 2017 si cimentò con Der fliegende Holländer) e fautore della lettura analitica di una partitura; la regia è quella che Robert Carsen produsse per l’Opera di Colonia nel 2000 e che in Spagna è stata ripresa negli anni scorsi al Liceu di Barcellona; adesso, nell’arco di quattro stagioni, sarà presentata anche al Teatro Real. La concertazione molto precisa di Heras-Casado, la buona qualità complessiva della compagnia vocale (quasi tutti specialisti del repertorio wagneriano) e la coerenza dello spettacolo visivo di Carsen garantiscono alla serata un ottimo successo. Il direttore porge un Wagner dalla sonorità massiccia, ma al tempo stesso netta e sgranata in ogni singola nota; soprattutto agli archi dell’Orquesta Titular del Teatro Real richiede un notevole sforzo di precisione, che permette all’ascoltatore di apprezzare i disegni e le trame tematiche. Heras-Casado non cade nella tentazione di voler individuare un colore dominante o una situazione musicale privilegiata, cui far soggiacere il resto dell’esecuzione; al contrario, la sua direzione esalta i molti aspetti della partitura, quello marziale e greve, ma anche quello lirico o ironico, come nel magistrale accompagnamento del resoconto di Loge, con una ricerca variegata di toni e ritmi differenti (è un vero peccato, dunque, che le incudini di Nibelheim da dietro le quinte risuonino in modo un po’ confuso, senza incisività). Samuel Youn è un Alberich squillante, che con la voce riesce a esprimere la volontà di potenza del reprobo; esattamente agli antipodi è la linea di canto, nobile ma viziata da un vibrato troppo largo, di Greer Grimsley, Wotan di grande esperienza, ma dalla voce un poco usurata. Elegante nel porgere, molto corretto nell’emissione e nel fraseggio è il tenore Joseph Kaiser, un Loge particolarmente convincente anche nei momenti più drammatici. Ottimi i due bassi Albert Pesendorfer e Alexander Tsymbalyuk nelle vesti di Fasolt e Fafner. Tra le voci femminili spicca naturalmente quella di Sarah Connolly, una Fricka espressiva ma sempre obbediente a una linea di canto perfetta. Molto corretta la Freia di Sophie Bevan, mentre gli acuti di Woglinde, Wellgunde e Flosshilde (rispettivamente Isabella Gaudi, María Miró e Claudia Huckle) dovrebbero modularsi con meno stridore e più controllo. Lo spettacolo ideato da Carsen ha ormai toccato vent’anni di vita, ed è una delle versioni sceniche della Tetralogia che più ha circolato nei teatri europei; tale fortuna (e longevità, abbastanza rara in un ciclo wagneriano) si deve probabilmente alla semplicità delle forme e alla piena leggibilità del suo intento polemico. Inutile ricordare che secondo il regista canadese il Ring non celebra affatto l’eroismo o la grandezza, insomma non è un racconto epico ed entusiasmante, quanto una rivelazione delle deformità e dei disastri del mondo attuale. A cominciare da quello ambientale: il Reno è un alveo nerastro colmo di rifiuti, ridotto a immondezzaio della buona società occidentale, in cui tre creature sinistre si aggirano come cagne fameliche alla ricerca di cibo. L’oro del Reno, l’elemento primigenio e assoluto, causa di tutte le disgrazie a venire, è conservato nell’acqua che ristagna in un copertone, buttato insieme a lavatrici e altri elettrodomestici dismessi. Le figlie del Reno sono vagabonde vestite di stracci, e al pari dei Nibelunghi fanno parte dei diseredati del mondo; i Giganti sono invece gli operai, i costruttori, i lavoratori al soldo (misero o inesistente) di una ristretta cerchia di aristocratici, gli Dei. Più che dall’ambientazione o dalle scene, sempre immerse nell’oscurità, i contrasti tra i personaggi risaltano grazie ai costumi di Patrick Kinmonth: elegantissimi gli abiti di taglio inglese delle dee, come di Donner e Froh. Wotan è un capo militare, sempre in divisa, sebbene da solo non riesca a imporre a nessuno la propria volontà: deve ricorrere al maggiordomo, Loge, che si muove in impeccabile tight con guanti bianchi. Sarebbe, insomma, la solita commedia del potere e del perpetrarsi di inganni, se al posto dell’acidità non si puntasse sul risvolto squallido e violento delle relazioni tra i gruppi sociali. In ogni caso, la regia di Carsen non demolisce la raffinatezza dei costrutti musicali: anzi, sa aggiungere poesia al racconto o rispecchiarne la delicatezza, come quando, dopo l’uccisione di Fasolt, la liberata Freia si accosta al cadavere dell’energumeno, accarezzandone con tenerezza il capo inerte: seppure intendesse farla sua prigioniera, il gigante era davvero innamorato di lei; e l’eroina, con questo gesto di pietà (quasi di rimpianto) riporta l’attenzione sull’unico affetto amoroso presente nel Rheingold; affetto umiliato e sacrificato dalla cupidigia di tutti gli altri. Nella scena finale, quando già è caduto il primo effetto della maledizione di Alberich, e un morto assassinato giace davanti a tutti, gli dei indossano smoking e abito da sera, come se nulla fosse, apprestandosi a inaugurare la nuova dimora del Walhall con una serata di gala. L’ingresso di truppe armate che li scortano fino all’ingresso della rocca trasforma la maestosa cadenza conclusiva in una marcia militare decisamente inquietante, ritmata dal passo dell’oca dei soldati: non è l’ingresso in un mondo nuovo, ma il definitivo ingresso della violenza nel mondo.   Foto Javier del Real © Teatro Real