“Der fliegende Holländer” al Teatro Real di Madrid

Madrid, Teatro Real – Temporada 2016-2017
“DER FLIEGENDE HOLLÄNDER”
Opera romantica in tre atti
Libretto e Musica di Richard Wagner
Daland DIMITRY IVASHCHENKO
Senta RICARDA MERBETH
Erik BENJAMIN BRUNS
Mary PILAR VÁZQUEZ
Der Steuermann Dalands ROGER PADULLÉS
Der Holländer SAMUEL YOUN
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore Pablo Heras-Casado
Maestro del Coro Andrés Máspero
Regia Àlex Ollé (La Fura dels Baus)
Scene Alfons Flores
Costumi Josep Abril
Luci Urs Schönebaum
Video Franc Aleu
Produzione dell’Opéra National de Lyon, in coproduzione con Bergen Nasjonale Opera, Opera Australia, Opéra de Lille
Madrid, 18 dicembre 2016
Di tutte le opere wagneriane che godono del sigillo di Bayreuth, Der fliegende Holländer è senza dubbio quella che più avvince tutto il pubblico per linearità del racconto, per pienezza narrativa con cui ogni scena si svolge e per radicale carica rivoluzionaria che l’atto unico genera nello spettatore. Se poi l’allestimento scenico è spettacolare, ben calibrato, cangiante nel corso dei tre segmenti, la riuscita della rappresentazione sarà ancora più vivida; ed è precisamente quanto accade al Teatro Real di Madrid, che in questi giorni riprende a conclusione dell’anno una produzione francese caratterizzata dalla forte presenza de La Fura dels Baus. Non si può che dare ragione al regista Àlex Ollé (uno dei sei direttori artistici della compagnia), quando nel programma di sala avverte: «Wagner è sempre Wagner, ossia un creatore polemico, un ideologo radicale, un rivoluzionario dell’estetica». Più impegnativo seguirlo quando spiega che per mettere in scena L’Olandese volante e risolvere il problema della rappresentazione marina la prima e immediata idea venutagli in mente sia stata quella del porto di Chittagong, in Bangladesh, tristemente famoso come “il luogo più infelice del mondo” o “l’inferno sulla terra”. Si tratta di un cimitero di gigantesche navi mercantili, abbandonate e ammassate le une contro le altre, a ridosso di una città di svariati milioni di abitanti, sofferente per gravissimi problemi di inquinamento. A detta della Fura dels Baus questo sarebbe l’unico luogo reale dove la vicenda del Fliegende potrebbe plausibilmente svolgersi. Di qui, la rappresentazione di un fondale marino disseccato, improvvisamente prosciugato al termine della sinfonia, con la rugginosa chiglia di una nave da cui fuoriescono, come demoni che dall’inferno risalgono sulla terra, migliaia di creature spettrali e tentacolari, agitate come formiche rosse, oceanica ciurma dell’Olandese. Quest’ultimo è in parte uno spettro col volto coperto di biacca, in parte uno zombie tornato in vita per tormentare gli umani, ma destinato a perdersi per sempre tra i flutti in un finale rovesciato rispetto alle indicazioni del libretto. Senta, una sorta di privilegiata che sovrintende a uno stuolo di lavoratrici schiavizzate sulla squallida spiaggia di Chittagong, è donna invasata che alla fine si sacrifica, imbrattandosi il volto di biacca come per trasfigurarsi nei tratti dell’Olandese. Ma la salvezza non c’è: l’uomo scompare tra i flutti, mentre la donna ritorna sul palcoscenico, illuminata ma non redentrice.
Il pubblico ha ragione di liberare un lungo e intenso applauso al termine dell’esecuzione, senza soluzione della continuità, e segnare un grande successo per l’allestimento e per gli artisti vocali, che nel complesso si disimpegnano abbastanza bene. La vera protagonista della recita è la Senta di Ricarda Merbeth, sia per il canto sia per le capacità attoriali: voce decisamente drammatica e impetuosa, percorsa a volte da un lieve vibrato, ha timbro affascinante, come risulta sin dalla celebre ballata che apre il II atto. La Senta della Merbeth è volitiva, enfatica, addirittura fanatica dell’idea di redimere e salvare l’Olandese: il suo canto spiegato lo manifesta senza posa. Samuel Youn, invece, è un basso-baritono dalla voce un poco fibrosa, con emissione fissa e per lo più eccessiva, povera di armonici e non sempre impeccabile nell’intonazione. Se dovesse interpretare un personaggio nobile e galante sarebbe una catastrofe; la sua prova piace invece al pubblico di Madrid perché questo Olandese deve risultare un personaggio infido e ignobile, non meritevole della salvezza finale. Il tenore tedesco Benjamin Bruns (già nel ruolo del Timoniere a Bayreuth) è un ottimo Erik: non solo ha voce dal registro omogeneo e squillante, ma è anche l’unico della compagnia capace di alleggerire il suono e indulgere a un fraseggio elegiaco, misurato, nobile (peccato, quindi, che il costume di Josep Abril vesta questo cacciatore come un militare d’assalto, con mitragliatrice, giubbotto multitasking e cartucciera a più livelli). Corretti e apprezzabili il Daland di Dimitry Ivashchenko e la Mary di Pilar Vázquez; corretto anche lo Steuermann del tenore catalano Roger Padullés, anche se le sue note acute non sono sempre bene coperte. Ottimo il Coro del Teatro Real, istruito come sempre da Andrés Máspero, in particolare il gruppo maschile, capace di muoversi, danzare, correre con disinvoltura nella prima parte del III atto. È la terza volta che il giovane Pablo Heras-Casado dirige un’opera nelle ultime due stagioni del Real: dopo El público (in cui fu straordinario) e I due Foscari (in cui fu pessimo) con il Fliegende Holländer porge una prestazione molto buona, basata sull’enunciazione dei temi con accentuato brio, alla ricerca di un suono pastoso e bene amalgamato (che non sempre riesce del tutto convincente). Il pregio maggiore della sua direzione consiste comunque nella concertazione: quando deve accompagnare le sequenze solistiche, i duetti e i terzetti vocali, Heras-Casado propone una lettura estremamente corretta e rispettosa della partitura e delle esigenze dei cantanti, ma senza alcun inutile indugio; quando invece affronta i momenti corali o sinfonici può risultare un poco aggressivo.
Tutto quanto lo spettacolo, nella parte musicale e in quella visivo-registica, va progressivamente crescendo: i cantanti raggiungono un buon livello di sicurezza soltanto a metà del II atto, quando anche la regia perde la staticità che inevitabilmente caratterizza la prima parte. L’allestimento, del resto, funziona bene nelle sue principali articolazioni, a patto di aver letto la nota introduttiva del regista, che spiega contesto e ragioni geografico-sociali, senza però riuscire a lanciare una denuncia forte o un messaggio di protesta. È il solito atteggiamento un po’ pedante della Fura dels Baus: a voler essere per forza geniali, innovatori e iper-tecnologici si rischia sempre di ammassare farragine e didascalie, che alla lunga stancano, risultano inutili, o – peggio ancora – creano danno agli artisti (sia l’Olandese sia Erik, più di una volta, incespicano nell’accidentata superficie del fondale marino, rischiando di cadere mentre cantano). Per la maggior parte del pubblico questo Fliegende è un bel trascolorare di tinte, con luci curatissime, costumi e trucchi rifiniti nel dettaglio; soltanto sullo sfondo c’è un esercito di lavoranti e manovali di bassa forza, di entrambi i sessi, comunque contrapposti al nugolo di spettri che fuoriescono dalla nave dell’Olandese a metà del I e al principio del III atto. E il mare? A parte i sapienti effetti video della sinfonia e del finale, nel resto dell’opera l’acqua lascia spazio alla sabbia, alla ruggine e all’aridità, atrofizzandosi completamente: come la vicenda romantica che sorregge il libretto originale.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid