Felice Romani e i suoi melodrammi: “I due Figaro o sia il soggetto di una commedia” di Michele Carafa

Nato a Napoli il 28 novembre 1787 e secondogenito di Giovanni Carafa, principe di Colobrano e duca di Alvito, Michele Enrico Francesco Vincenzo Aloisio Paolo Carafa de Colobrano è ricordato nella storia della musica più per la sua amicizia con Rossini, con il quale collaborò nella stesura di almeno metà dello Stabat Mater, che per le sue indiscusse qualità di compositore evidenti nella sua copiosa produzione operistica apprezzata dai contemporanei ma quasi del tutto sconosciuta al largo pubblico eccezion fatta per le riprese moderne di alcune sue opere. Pur essendo stato avviato dal padre alla carriera militare che, comunque, seguì con alterne vicende, Michele Carafa non trascurò mai la sua vocazione musicale sin dalla giovinezza trascorsa nella città partenopea dove, nel teatro del patrigno, il principe di Caramanico, fece rappresentare nel 1805 la sua prima opera, Il fantasma, composta 3 anni prima quando aveva appena 15 anni. Nel 1806 si trasferì a Parigi dove, oltre a continuare i suoi studi musicali con Luigi Cherubini, per quanto riguarda la composizione, e con Friedrich Kalkbrenner per il pianoforte, si entusiasmò per gli ideali napoleonici al punto da sostenere la cacciata dei Borboni da Napoli e diventare l’aiutante di campo del futuro re Gioacchino Murat che segui anche nella disastrosa campagna di Russia durante la quale fu ferito. Ciò gli valse la Legion d’Onore e il titolo di Barone del Regno d’Italia conferitigli da Napoleone, ma fu anche la causa del declino delle fortune della sua famiglia che, con il rientro dei Borboni, fu messa ai margini della vita politica del Regno delle due Sicilie. Congedatosi dall’esercito e libero dagli impegni militari, Carafa poté dedicarsi completamente alla musica e nel 1816, con l’opera Gabriella di Vergy, rappresentata al Teatro del Fondo di Napoli, ottenne un successo pari a quello arriso all’Otello di Rossini rappresentato nello stesso teatro in quell’anno. Un altro successo fu proprio l’opera I due Figaro rappresentata il 6 giugno 1820 alla Scala di Milano con l’interpretazione di due autentiche star dell’epoca: il tenore Gaetano Crivelli e il basso Filippo Galli. Due anni dopo il compositore italiano si trasferì a Parigi dove, in virtù della sua ottima conoscenza della lingua francese, poté affermarsi come compositore nel genere dell’opéra-comique. L’evoluzione delle forme melodrammatiche, che in Italia avrebbero dato vita all’opera romantica e in Francia al grand-opéra, generi nei quali Carafa non volle o forse non seppe cimentarsi, lo spinse ad allontanarsi dal teatro per dedicarsi all’insegnamento come docente di composizione al Conservatorio di Parigi dal 1848 al 1858. Colpito da paralisi nel 1867, morì nella capitale francese nel 1872 alla veneranda età di 85 anni non prima di aver lasciato alla Biblioteca del Conservatorio di Napoli, ormai diventata una città del neonato Regno d’Italia, molti dei suoi manoscritti, tra cui quello dei Due Figaro o sia il soggetto di una Commedia. Il soggetto dell’opera fu suggerito a Romani molto probabilmente dallo stesso Carafa il quale, in occasione del suo primo soggiorno parigino, aveva assistito ad una rappresentazione di Les deux Figaro di Honoré-François Richaud, detto Martelly, che, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1790, era stata ripresa più volte nei teatri della capitale francese per oltre 23 anni fino al 1813. Concepita come una continuazione di Le marriage de Figaro, la commedia di Martelly, che risentiva degli ideali della Rivoluzione Francese che sembravano sconfitti nell’Europa della Restaurazione, registrava l’ascesa al potere della borghesia contro la nobiltà, rappresentata da un Conte d’Almaviva, ridicolizzato e in balia non solo del vecchio Figaro, ma anche del borghese Cherubino il quale si presenta a corte sotto le mentite spoglie di un secondo Figaro. Nell’Europa della Restaurazione questo soggetto, che poneva in contrasto la nobiltà e la borghesia, diventava foriero di un messaggio non solo liberale, condiviso dallo stesso Romani nostalgico dell’ideale di libertà della Repubblica di Genova, ma soprattutto eversivo. Carafa e Romani furono, dunque, gli artefici di un sottile ed estremamente raffinato atto politico di ribellione nei confronti della Restaurazione, i cui ultimi atti legislativi erano stati i deliberati di Karlsbad nel 1819 e che aveva ispirato l’azione di Metternich all’interno dei domini asburgici di cui il Lombardo-Veneto faceva parte. Per fortuna di Carafa e di Romani il carattere eversivo del libretto sfuggì alla rigida censura austriaca che diede il consenso alla rappresentazione dell’opera alla Scala. Ciò appare sorprendente, ma le ragioni dell’atteggiamento permissivo della censura forse vanno ricercate nel modo estremamente raffinato con cui Romani trattò il soggetto; egli, infatti, non scrisse un semplice adattamento del modello francese, ma una nuova pièce all’interno della quale è possibile trovare alcune sostanziali modifiche. La più rilevante, dal punto di vista drammaturgico, riguarda il personaggio di Plagio, un poeta teatrale, nel quale confluiscono i caratteri di due personaggi tipici della commedia francese del Settecento, il commediografo e il tragediografo; questo personaggio, che ricorda la figura del poeta del Turco in Italia di Rossini, discute con Figaro non solo di questioni teatrali ma anche di un soggetto d’opera che l’astuto barbiere dovrebbe fornire, con la sua condotta, al librettista. Un’altra modifica riguarda l’inserimento di alcuni importanti richiami alle Nozze di Figaro di Mozart, opera che, rappresentata nel 1816 alla Scala, era stata ritenuta un capolavoro indiscusso e nei confronti della quale il libretto di Romani si poneva come una continuazione; con questa astuta manovra il librettista genovese agirò i possibili appunti della censura la quale non poté mettere in discussione un’opera che si inseriva nel fortunato filone inaugurato dal capolavoro mozartiano tanto apprezzato a Milano.

L’opera
Ouverture
L’influenza di Rossini appare evidente nella struttura formale dell’ouverture, aperta da un’introduzione lenta e maestosa, a cui segue, dopo un a solo del flauto, un Allegro in forma-sonata, caratterizzato da due temi brillanti non in contrasto tra loro. Elementi rossiniani sono evidenti nella sezione modulante, nei crescendi e nella travolgente stretta conclusiva.

Atto primo
Nel parco del Castello del Conte d’Almaviva i suoi vassalli, nel tradizionale e idillico coro introduttivo (Compagni, al suon de’ pifferi), manifestano la loro gioia per il ritorno della Contessa, di Susanna e di Inez, la figlia del Conte, promessa sposa al ricco borghese Don Alvaro. Questi, in realtà, un semplice stalliere che vorrebbe dividere con l’astuto barbiere metà della ricca dote di Inez a nozze celebrate, si trova già lì insieme a Plagio al quale Figaro ha dato appuntamento con la promessa di fornirgli un buon soggetto per un libretto. Giunge Figaro che in Oh fantasia di Figaro svela le sue trame: far sposare la figlia del Conte con uno stalliere, facendolo passare per un ricco borghese, e dividere con lui la dote che gli permetterebbe di congedarsi dal Conte e liberarsi di sua moglie Susanna. Nel successivo recitativo secco, Figaro, dopo aver congedato Don Alvaro, al quale nel frattempo ha rivelato che fingerà di opporsi al matrimonio, espone nei dettagli il suo piano a Plagio. In questo passo sembra che Romani ci abbia voluto rappresentare un Figaro molto simile allo Pseudolus, il servo astuto dell’omonima commedia plautina, che non solo è il grande burattinaio ma anche il vero poeta teatrale capace di inventare trame ed intrighi. Dopo una lunga introduzione orchestrale, nella quale si nota la facilità con cui Carafa scriveva le sue melodie, fa il suo ingresso il Conte d’Almaviva che, nel recitativo accompagnato (Ho risoluto alfin), manifesta qualche dubbio sulla possibilità che la figlia possa opporsi allo sposo che egli ha scelto per lei, subito fugato nel cinico e, anche questo rossiniano, cantabile della cavatina (Che mai giova al nostro amor) nel quale si afferma che presto o tardi estingue Imene / dell’amore il primo ardor. Nella cabaletta O dolci trasporti il Conte si abbondona ad un’amara riflessione affermando che sarebbe meglio non provare mai i dolci trasporti dell’amore che si dileguano rapidamente nell’anima. Subito dopo Figaro finge, invano, di dissuadere il Conte dal proposito di far sposare Inez con Don Alvaro in quanto i difetti da lui elencati diventano dei pregi agli occhi del conte.

Un coro dà il benvenuto a Susanna, alla Contessa e ad Inez che, consapevoli delle decisioni prese dal Conte, oltre a riflettere, nel brillante terzetto Esser tratte nel castello, sulla loro condizione di pecore al macello lusingate dai ipocriti complimenti, si mostrano risolute ad opporsi ai piani di Almaviva. Come si apprende nel tempo di mezzo del terzetto, Inez è, infatti, innamorata di Cherubino, il giovane paggio che ormai si è coperto di gloria militare. Figaro, dopo aver tentato di riverire con un inchino le donne appena arrivate che si mostrano fredde nei suoi confronti, manifesta loro la sua contrarietà a questo matrimonio e in quel momento arriva il Conte che, ascoltate le lamentele di Inez per queste nozze combinate, si mostra sempre risoluto nel suo proposito. Nel frattempo al cancello di quello stesso parco, teatro dell’ultimo atto delle Nozze mozartiane alle quali Romani, con una certa astuzia fa riferimento, fa la sua apparizione uno sconosciuto che, come si apprende dalle parole delle donne, altri non è se non Cherubino. Questi si presenta al Conte sotto le mentite spoglie di Figaro e con una falsa lettera di Cherubino nella quale lo prega di prenderlo a servizio (Cavatina: Un gentile colonnello).
Cherubino, felice di non essere stato riconosciuto da nessuno anche perché le sue fattezze fisiche sono ormai mutate nei dodici anni trascorsi lontano dalla corte del Conte, rimane solo con Inez che manifesta al suo amante le preoccupazioni sul loro futuro. Nel duetto, di cui sono protagonisti i due personaggi (Sei troppo facile a spaventarti), Cherubino cerca di rassicurare la fanciulla che appare ancor più preoccupata quando si accorge che la loro conversazione è stata spiata da Figaro, un nemico che certamente sarebbe corso ad avvertire il Conte. Cherubino, con una certa astuzia, finge di rimproverare Inez (quartetto: No, signora: chiaro e tondo) dicendole che non l’avrebbe mai aiutata ad opporsi ai disegni del padre suscitando la soddisfazione del Conte che, accorso insieme con Figaro, lo rimprovera per avergli detto delle ennesime bestialità. Mentre nello splendido cantabile (Non saprei fra questo e quello) Cherubino/Figaro II si prende gioco di Figaro e del Conte caduti nella sua trappola, Almaviva, sempre più infuriato con Figaro, afferma, nel tempo di mezzo (Se delle cabale) di fidarsi soltanto di Cherubino/Figaro II. Il quartetto si conclude con una rossiniana cabaletta (Io so le astuzie) nella quale i personaggi esprimono i loro commenti sugli avvenimenti.
Figaro, rimasto solo, appare disorientato (recitativo secco: Figaro, ti risveglia) e, pur comprendendo che Cherubino, alias Figaro II, è l’emissario di qualcuno, non riesce a immaginare chi sia l’artefice dell’inganno di cui è vittima; i suoi sospetti sono confermati da una conversazione con Plagio che, da parte sua, trae nuova ispirazione per il suo libretto.
Nel giardino del Castello, in una scena che ricorda il Finale delle Nozze di Figaro di Mozart, si incontrano Inez e Susanna che si nascondono per cedere la scena al Conte e a Figaro deciso a convincere il suo padrone del carattere infido di Figaro II. I due si ritirano in un nascondiglio, quando giungono Susanna e Cherubino che si prendono gioco dei loro antagonisti; il loro disegno sembra, però, scoperto quando il Conte, uscito dal nascondiglio, ordina ai suoi di arrestare Cherubino il quale, con un nuovo atto di furbizia, si confessa colpevole di essere l’amante di Susanna che, con un atteggiamento confuso, conferma le parole dell’uomo. Figaro doppiamente gabbato sia perché si è sbagliato sul conto della relazione tra Cherubino e Inez, sia perché apparentemente tradito dalla moglie, è oggetto della derisione degli altri personaggi (cantabile: Come dal fulmine). Su invito di Cherubino e del Conte, Figaro è infine costretto a perdonare Susanna e tutti nella cabaletta Seppellita sia la cosa decidono di tenere nascosto quanto avvenuto.
Atto secondo
Nel parco del castello, un coro di villanelle e paesani (L’avventura è singolare) spettegola sui recenti avvenimenti e sull’identità di Cherubino/Figaro II, chiamato l’amante travestito, mentre Plagio è in agguato alla ricerca di qualche possibile situazione scenica. Nel successivo recitativo secco Figaro litiga con Susanna, anche perché ha compreso che dietro alla presunta, quanto falsa, tresca con l’altro Figaro, c’è in realtà un intrigo i cui caratteri gli sfuggono. Nel duetto In quegli occhi, o bricconcella, Figaro incalza la moglie affinché gli riveli la verità dell’intrigo; ne nasce un alterco tra i due che viene interrotto da Plagio il quale fa infuriare Figaro che, avendo compreso ormai che la situazione gli è sfuggita di mano, non ha più interesse alla stesura della commedia.

La scena si sposta nella stanza di Susanna dove Romani ricrea una situazione scenica molto simile a quella delle Nozze di Figaro con la porta che viene chiusa a chiave; nella stanza si danno convegno Inez, Susanna e Cherubino ma per i due amanti non c’è pace, in quanto poco dopo bussa alla porta con una certa veemenza Figaro. Fatto entrare, l’uomo vorrebbe prendere dall’armadio, al cui interno si sono nascosti Inez e Cherubino, il suo mantello perché deve andare di corsa a chiamare il notaio per la redazione del contratto di nozze; la situazione precipita quando Figaro scopre all’interno dell’armadio i due amanti nell’imbarazzo e nello stupore generale al quale partecipano anche il Conte e la Contessa sopraggiunti (cantabile del sestetto: Apro gli occhi finalmente). Il Conte, infuriato, caccia via sia Cherubico che Susanna (tempo di mezzo: Temerario! Chi sei?) producendo una grande soddisfazione in Figaro liberato dalla moglie ma anche una confusione generale che si esprime nella travolgente cabaletta Fra l’incudine e il martello. Il Conte, allora, dopo aver restituito tutta la sua stima a Figaro, gli impone di correre dal notaio; intanto Susanna, consapevole della mai sopita passione del Conte per lei, con finta umiltà, chiede perdono ad Almaviva (cantabile del duetto: Tu lo volesti, ingrata), il quale, commosso, alla fine acconsente che la donna resti al castello purché diventi la sua amante (cabaletta: Sì rimani, e sia per ora).
Sostenuto da un accompagnamento orchestrale ironicamente solenne, un coro di Paesani (Signore, si accomodi) introduce lo sposo che Inez si rifiuta di sposare (rondò: Se generoso e nobile). Nel frattempo Figaro ha accompagnato il notaio, il cui posto viene preso da Plagio che racconta al Conte del progetto della commedia; quest’ultimo si riconosce nel nobile gabbato della commedia, ma comprende che è vittima di un intrigo di Figaro soltanto quando Cherubino, apparso nelle sue vere vesti, rivela, proprio mentre si sta redigendo il contratto di nozze, che Don Alvaro altri non è se non il suo stalliere Torribio. Il Conte, quindi, caccia via Figaro, reo dell’inganno ordito ai suoi danni, il quale, per una volta, viene gabbato proprio grazie a quell’astuzia che è stata la sua arma principale, e ricongiunge i due amanti, mentre Plagio rassicura tutti, affermando, in modo metateatrale, che è stata solo una recita.