Ferrara, Teatro Comunale: “La Bohème”

Teatro Comunale “Claudio Abbado” – Stagione Lirica 2013/2014
“LA BOHÈME”
Dramma lirico in quattro quadri
Libretto di Luigi Illica e salvatore Giacosa
Da Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger
Musica di Giacomo Puccini
Mimì NOZUKO TETO
Musetta RUTZAN MANTASHYAN
Rodolfo, poeta MATTEO LIPPI
Marcello, pittore BYONG ICK CHO
Schaunard, musicista PAOLO INGRASCIOTTA
Colline, filosofo FRANCESCO MILANESE
Alcindoro/Benoît MIRKO QUARELLO
Orchestra Regionale Filarmonica Veneta
Direttore Francesco Lanzillotta
Coro Lirico Amadeus (M° del coro: Giuliano Fracasso)
Coro di voci bianche Associazione Musicale Manzato (M° del coro Livia Rado)
Regia, scene e costumi Ivan Stefanutti
Cooproduzione Teatro Comunale di Bolzano, Teatro dell’Aquila di Fermo, Fondazione Teatro Comunale di Treviso, Fondazione Teatro Comunale di Ferrara, in collaborazione con Regione Veneto
Allestimento di Comune di Bassano / Operafestival, Comunae di Padova, Comune di Rovigo / Teatro Sociale
Ferrara, 4 Aprile 2014

Il teatro non più semplicemente “comunale” ma ora “Claudio Abbado” di Ferrara chiude la propria stagione lirica all’insegna del repertorio più consolidato. Per il titolo pucciniano la direzione del teatro ripropone, in parte, un format della “Luisa Miller”, presentando in palcoscenico un cast composto dai vincitori di un prestigioso concorso di canto italiano guidati da un direttore esperto. Se nel caso della Miller inaugurale constatammo la debolezza dell’esperimento in ragione delle rigorose esigenze della musica verdiana, qui con il debutto dei vincitori del concorso “Toti Dal Monte” il binomio nuovi talenti-direzione si rivela nel complesso assai soddisfacente e il cast adeguato al cimento. Il quartetto maschile di protagonisti dipinge con scrupolo, grazie ad un buon affiatamento sulla scena, il ritratto degli artisti squattrinati. Seppure dal punto di vista attoriale ciascuno sia a suo modo ancora piuttosto acerbo, questi “ragazzi” traggono la loro forza scenica (con la complicità dell’attenzione del regista) dalla coesione del gruppo, sicché i momenti migliori risultino quelli delle prime scene del primo atto e del terzo. Dal punto di vista vocale però i distinguo sembrano doverosi.
Il Rodolfo di Matteo Lippi non avrà forse ancora maturato il pieno peso vocale necessario ad una completa resa drammatica del ruolo, ma canta con grande generosità e partecipata musicalità. La timbrica chiara della voce si lascia apprezzare fin dall’attacco di “Nei cieli bigi”: ed è proprio da lì che si intravedono i pregi di una vocalità lirica cristallina raffinata ma ancora affinabile. Lippi regge, occorre sottolinearlo, l’impatto vocale ed emotivo delle due romanze «Che gelida manina» e «O Mimì tu più non torni» e anche se la prima lo prova decisamente di più della seconda, l’espressività risulta la chiave vincente di entrambi. Da migliorare nello specifico la coesione fra i registri e in particolare la regione dell’acuto, dove i suoni tendono ad assottigliarsi. Marcello appare nelle corde di Byong Ick Cho che ha dalla sua una già più che sapientemente maturata sensibilità verso la lingua italiana e una vocalità baritonale assai tonante e generosa specie nei centri, seppure dalla timbrica invero non eccessivamente seducente. In ombra lo Schaunard di Paolo Ingrasciotta mentre eccessivamente artefatta appare la vocalità del Colline di Francesco Milanese.
Il versante femminile riserva, però, le sorprese più gradevoli. Seppure la carnagione e la fisicità di Nozuko Teto siano poco adatti a dipingere quel ritratto veritiero di una giovane tisica che i puristi del realismo potrebbero pretendere, la sua Mimì ha una personalità forte (forse perfino troppo), lotta tenacemente perché in lei la vita prevalga sulla morte. La voce colpisce per la tavolozza cromatica e l’espressività, entrambe ben spese al servizio della causa pucciniana. Regala al pubblico una «Mi chiamano Mimì» trasudante di dolcezza con oltretutto uno spavaldo slancio nel registro acuto; positiva impressione che sarà confermata anche nel terzo atto durante «D’onde lieta uscì». La Musetta di Rutzan Mantashyan è la migliore del cast, sia scenicamente (assai spigliata nel dipingere il ritratto della civettuola tutto pepe) sia vocalmente, dove alterna al temperamento dell’esordio momenti di grande sensibilità: vertici in questo senso il suo “valzer” (del quale la bacchetta di Lanzillotta dilata sensibilmente i tempi per sottrarlo ad ogni convenzionalità) e il quartetto del III atto, dove trova felicemente la via di un fraseggio accurato. Di Mirko Quarello, impegnato nel doppio ruolo di Benoît e Alcindoro, si dirà che è molto meglio nel secondo cimento piuttosto che nel primo, dove la voce per piegarsi all’inflessione comica e attempata richiesta dell’età del personaggio perde sul piano dell’articolazione della parola e del volume: così la gustosa scena della riscossione dell’affitto, che regge buona parte del suo effetto teatrale sul racconto del «padron di casa», viene diluita nel mare magnum della musica pucciniana.
Veniamo ora alla parte visiva. L’allestimento di Ivan Stefanutti non è certo una novità dell’ultima ora (gira l’Italia ormai da diversi anni, raccogliendo plausi e approvazioni) ma è sicuramente intelligente e soprattutto coerente. Nell’idea del regista, Bohème non è un’opera policroma, dove la varietà degli accadimenti si intreccia alla varietà dei sentimenti umani. L’accadimento è uno solo: la morte della protagonista, contrapposta quasi grottescamente all’estrema vitalità e vivacità del quartetto maschile; uno è anche il sentimento predominante: l’amore ricambiato di Rodolfo, che sembra alleggerire l’anima e la mente di Mimì oppressa soltanto dal giogo della sua imminente fine. Per perseguire questa estetica, Stefanutti crea un allestimento sostanzialmente “bicromo”: sposta l’azione agli anni ’30, nella Parigi di Picasso e Cocteau, si aggrappa all’estetica del film in bianco e nero (rifacendosi specialmente a Marcel Carné e Jean Vigo). In questa Bohème non trova quindi spazio quella vitale cromia che rende ogni istante dell’esistenza distinguibile dal successivo e dai precedenti, dominano solo gli opposti vita/bianco morte/nero; nel mezzo c’è solo il triste grigiore dei parigini, mossi dalla frenesia della vita mondana e dello shopping, mentre attorno a loro si consuma, nell’indifferenza, il dramma di un’esistenza. Perfino il rosa della cuffietta di Mimì non è tale, ma solo una delle tante tonalità di grigio, sia perché prodotto di quella stessa società alla quale ella vorrebbe appartenere, sia perché in lei ogni colore si mischia con il nero di quella «terribil tosse che il petto le scuote». Le bellissime e glaciali luci vengono usate a fini drammatici per sottolineare la tensione scenica o il repentino mutamento di situazione: particolarmente suggestive quelle all’inizio del quatto atto, quando la frizzante e divertita vita del quartetto viene bruscamente uccisa dall’ingresso di Musetta che annuncia l’arrivo di Mimì. La regia segue, molto spesso, l’estetica filmica; un solo esempio: il motivo del valzer di Musetta diventa musica di livello interno, tutelata dalla presenza sulla scena di un suonatore ambulante di fisarmonica che invita al ballo i parigini ancora prima che Musetta inizi il brano. In questo modo il suo canto risulta giustificato dal motivo del valzer che lei stessa sente sulla scena. Si apprezza anche la gestione dello spazio nel secondo atto, dove al fianco della consolidata bipartizione verticale della scena (si stampo zeffirelliano) Stefanutti affianca una bipartizione orizzontale tutelata dal Caffè Momus: sul lato sinistro la massa dei parigini, sul lato destro, in prossimità di un lampione, le prostitute, coloro che proprio da quella massa vengono escluse; con loro Marcello si intratterrà nel tentativo di far ingelosire la sopraggiunta Musetta. Meno funzionale alla drammaturgia, invece, l’abuso dell’elemento scenico della poltrona nella mansarda, specie nel primo atto e in particolare durante le romanze dei due protagonisti: vedere Rodolfo che intona comodamente seduto la seconda parte della sua «gelida manina» e sempre seduto ascolta la risposta della fioraia gracchia con il trasporto di sentimento sbalzato dalla musica pucciniana. Un espediente visivo che tiene fisicamente distanti i due protagonisti, che dovrebbero invece sentirsi sempre più attratti fra loro e che, a ben guardare, dipinge come eccessivamente temperamentoso e forte il carattere di una Mimì che dovrebbe fare dell’insicurezza e della precarietà al sua cifra drammatica.
Quanto alla direzione di Francesco Lanzillotta alla guida di un’Orchestra Regionale Filarmonica Veneta in pregevole spolvero, è stata semplicemente affascinante. Raramente è capitato di sentire una versione del titolo pucciniano così avaro di colori e al contempo così vario e articolato nella dinamica. Lanzillotta cioè si pone in piena sintonia con la bicromia proposta da Stefanutti e asciuga all’essenziale i colori della partitura. Se in alcuni punti finisce per smarrirsi l’ardore passionale insito nel disegno orchestrale (specie nel terzo atto), la linea interpretativa alla lunga appare vincente, non solo perché regala una unitarietà di intenti con il disegno registico a che lo spettacolo risulti nel complesso coerente, ma anche perché lascia maturare nello spettatore la piena consapevolezza di un uso drammaticamente teso della dinamica nella musica del compositore toscano. Assai valido l’apporto del Coro Lirico Amadeus e del Coro di Voci Bianche “Associazione Musicale Manzato” rispettivamente diretti da Giuliano Fracasso e Livia Rado. Al termine, successo incandescente unito al rammarico per la chiusura di una stagione lirica nel complesso estremamente convincente. Foto Piccinni – Treviso