Franz Schubert (1797 – 1828) III: “Die Zauberharfe” (1820); “Sakuntala” (1820); “Adrast” (1819-1820)

Decima opera di Franz Schubert, ma seconda e ultima, dopo Die Zwillingsbrüder (I due gemelli) ad essere rappresentata vivente l’autore, Die Zauberharfe (L’arpa magica) fu composta in appena due settimane nell’estate del 1820. Rappresentata per la prima volta al Theater an der Wien di Vienna il 19 agosto 1820, quest’opera-melologo, accolta con scarso entusiasmo dalla critica, che la giudicò disordinata e priva del necessario intuito teatrale, riscattata qua e là da qualche sprazzo di talento, cadde ben presto in un oblio tale che il testo poetico di Georg von Hofmann andò perduto ed è stato ricostruito per le riprese novecentesche grazie agli appunti lasciati da Schubert sulla partitura. Molto probabilmente allo scarso successo contribuì l’assurdità della vicenda che ruota attorno al conflitto tra due maghi, Arnulf e Melinde, prima marito e moglie, che, dopo diverse peripezie e contrasti, finiscono per riconciliarsi. Anche l’originale collocazione dell’ouverture non fu subito chiara, in quanto essa fu inserita tra le musiche di scena di Rosamunde, Fürstin von Zypern quando quest’ultima fu pubblicata postuma nel 1891. Tale errore fu probabilmente determinato dal fatto che Schubert, dovendo scrivere nel 1823 in appena due settimane le musiche di scena per questo lavoro teatrale di Helmina von Chézy, famosa per il libretto dell’Euryanthe di Weber, e non avendo il tempo necessario per comporre una nuova ouverture, decise, allora, di utilizzarne una già scritta in precedenza per un’altra opera, Alfonso und Estrella, non conosciuta dal pubblico, non essendo stata rappresentata. Nel 1891, non sapendo molto probabilmente quale fosse stata l’ouverture eseguita in occasione della prima rappresentazione della Rosamunde, fu inserita  al posto di quella di Alfonso und Estrella, quella dell’Arpa magica. Da ciò deriva la confusione di attribuzione che ha caratterizzato l’esecuzione di questa ouverture anche nel Novecento. Musicalmente l’opera è costituita dall’ouverture e da 13 numeri musicali, di cui sei sono dei melologhi, brani in cui la recitazione viene accompagnata dalla musica; nella partitura di Schubert sono previsti, infatti, soltanto due personaggi che cantano: Palmerin (tenore), figlio dei due maghi, e un cavaliere. La gemma della partitura è costituita dall’ ouverture, aperta da un’introduzione lenta, nella quale appare la grande vena lirica di Schubert, a cui segue l’Allegro vivace in forma-sonata, nel quale a un primo tema gaio e ammiccante, esposto dagli archi, si contrappone il secondo lirico affidato ai legni. L’ouverture si conclude con una trionfale e brillante coda. Tra le pagine più belle dell’opera va segnalato il Finale dell’atto secondo, dove emerge la romanza di Palmerin, Was belebt die schöne Welt (Cosa anima la bella natura), un vero e proprio inno all’amore, accompagnato dall’arpa e dall’oboe, nel quale traspare la vena liederistica di Schubert.

Lo scarso successo conseguito con Die Zauberharfe non scoraggiò Schubert, che, sperando nella possibilità di poter rappresentare una sua nuova opera, nell’autunno del 1820 cominciò a lavorare a Sakuntala su un libretto tratto da Johann Philipp Neumann dall’antico dramma del poeta indiano Kalidasa. Nonostante l’entusiasmo iniziale, il lavoro si arrestò ben presto non si sa bene per quale ragione tanto che l’opera è rimasta incompleta e in una forma di abbozzo. Quando, nella primavera del 2002, Karl Ange Rasmussen, su suggerimento di Antti Sairanen che gli aveva chiesto di completare l’opera con musica da lui composta, ebbe modo analizzare il manoscritto lasciato da Schubert, si trovò di fronte a 400 pagine di musica segnata in una forma abbreviata (solo le parti vocali erano state scritte per esteso, mentre l’accompagnamento e l’orchestrazione  erano solo abbozzate) che coprivano il primo atto e parte del secondo per un totale di 11 numeri. Rasmussen, inoltre, poté osservare che, nonostante mancasse parte del secondo e l’intero terzo atto, le pagine ritrovate costituivano un’unità coesa e coerente e, perciò, decise di modificare l’originale progetto limitandosi a ricostruire le parti lasciate in abbozzo da Schubert. Protagonista è Sakuntala, la figlia adottiva del gran sacerdote Kanna che si innamora, ricambiata, del re Duschmanta, il quale le dona un anello come pegno d’amore. La giovane è, però, colpita dalla maledizione dell’eremita Durwasas, indispettito perché Sakuntala non gli ha testimoniato il dovuto rispetto. L’anello, perduto, è ritrovato da un pescatore e riportato al re, che riacquista la sua memoria, mentre Sakuntala spera che possa coronare il suo sogno d’amore sposando il re.

Di carattere frammentario è anche la musica del Singspiel Adrast, al quale Schubert lavorò probabilmente tra il 1819 e il 1820 utilizzando un libretto approntato dall’amico Johann Mayrhofer, già autore anche di quello di Die Freunde von Salamanka. Come si può intuire dai frammenti del libretto, la trama verteva intorno a un episodio narrato da Erodoto che aveva come protagonista il leggendario re della Lidia e della Mysia, Creso. Questi aveva due figli di cui uno sordo muto e un altro, Atys, da lui prediletto, del quale un sogno profetico aveva predetto la morte con un bastone con la punta d’acciaio. Per questa ragione Creso aveva deciso di farlo sposare giovanissimo e di tenerlo lontano da qualunque azione bellica. Intanto giunge a corte il frigio  Adrast che, messo al bando in seguito all’omicidio del fratello, chiede perdono al re il quale prontamente lo concede. Qualche anno dopo, però, avendo un cinghiale devastato i campi della Mysia, gli abitanti chiedono aiuto al loro re che, inizialmente, recalcitrante, decide, infine, di mandare il proprio figlio pensando che comunque nel sogno non si faceva alcun cenno al cinghiale. Per precauzione, con il compito di proteggerlo, lo fa accompagnare da Adrast che, durante la caccia sulle montagne, lo uccide accidentalmente. Creso capisce che è impossibile opporsi al fato e perdona Adrast che, però, preso dalla disperazione, si uccide sulla tomba di Atys. Dei sette numeri che compongono la partitura rimasta, particolarmente interessante per il suo carattere drammatico è la scena nella quale Creso inizialmente si rifiuta di mandare il proprio figlio per dare la caccia al cinghiale.