Genova, Teatro Carlo Felice: “Don Pasquale”

Genova, Teatro Carlo Felice – Stagione d’Opera 2018-19
DON PASQUALE
Opera comica in tre atti di Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti
Musica di Gaetano Donizetti
Don Pasquale GIOVANNI ROMEO
Ernesto JUAN FRANCISCO GATELL
Dottor Malatesta ELIA FABBIAN
Norina DESIRÉE RANCATORE
Un Notaro ROBERTO CONTI
Mimi CRISTINA BANCHETTI, BORIS VECCHIO, LUCA ALBERTI
Orchestra e Coro del Teatro Carlo Felice di Genova
Direttore 
Alvise Casellati
Maestro del Coro Francesco Aliberti
Regia, Scene e Costumi Barbe & Doucet
Luci Guy Simard
Allestimento della Scottish Opera
Genova, 08 marzo 2019
Cominciamo questa recensione dalla fine, per poi risalire all’origine di ciò che potremmo dire: il “Don Pasquale” in scena al Carlo Felice di Genova è una buona produzione, godibile e generalmente ben cantata. La regia è stata giustamente costruita basandosi sulla partitura, e si inserisce nel filone, ultimamente in voga, di ambientazione negli anni della Ricostruzione e del Boom delle opere leggere, giacché in quegli anni si forma la “comicità all’italiana”, con le sue radici piantate nella comicità classica, resa borghese, dolciastra, digeribile a tutti. Le scene, semplici ma di sicura funzionalità, hanno un buon impatto sul pubblico, le luci curate da Guy Simard sono ben congeniate e suggestive nei punti giusti, i costumi coerenti. Partendo da questa premessa, che poi è la conclusione, possiamo anche permetterci di abbandonare l’astigmatismo nazionalpopolare e piantarci sul naso le lenti – antipatiche, forse, quanto necessarie – del critico teatrale e musicale: mettendo più a fuoco ogni singolo aspetto di questa produzione si arriva a notare che molto poco di quanto vediamo si avvicina in qualche modo alla perfezione, a partire proprio dall’assetto scenico. Il duo creativo radical kitsch Barbe et Doucet – già distintisi in piazze europee per produzioni di gusto quanto meno opinabile – sbarca in Italia cercando di frenare il suo proverbiale amore per gommapiuma, colori fluo e recitazione bambolesca, e pretendendo di ricostruire il Belpaese degli Anni Sessanta, riuscendoci solo in parte, vuoi per l’estraneità al luogo, vuoi per quella al periodo. Ne emerge un’ambientazione piuttosto convenzionale, lontana dagli intenti, ma comunque fruibile: si usa la sinfonia dell’opera per proiettare un “fotoromanzo” (tra virgolette, giacché non ha molto dei fotoromanzi italiani del periodo, a dirla tutta, ma glissons) il cui intento è, fondamentalmente, quello di spiegare l’idea registica di un Don Pasquale amante dei gatti e di una Norina “felina” – peccato non veniale, giacché ogni opera d’arte dovrebbe spiegarsi da sé, ma questo forse è ipercriticicsmo. Per il resto è la pochade a dominare, com’è giusto che sia, con uno spiccatissimo gusto del grottesco che tocca le corde del comico solamente grazie ai bravi mimi (Cristina Banchetti, Boris Vecchio e Luca Alberti, che interpretano i tre attempati domestici di Don Pasquale) e alla verve scenica di Desirée Rancatore, apertamente ispirata alla Catwoman di Eartha Kitt. I costumi, sempre ad opera B&D, rimandano a dimensioni fumettistiche, dai colori lisergici e le fogge quasi sempre in linea con l’ambientazione – a parte per il Dottor Malatesta, inspiegabilmente vestito da studente Anni Novanta, con maglioncino girocollo e k-way; ed è sempre Norina che emerge come grande protagonista del progetto estetico, con la sua irresistibile mise animalière, a cavallo tra “Colazione da Tiffany” e Andy Warhol, maculata, cotonata, ingioiellata. L’apparato musicale, invece, è quello che durante la serata ha riservato più dettagli da rivedere, soprattutto per quanto riguarda la direzione del Maestro Alvise Casellati: se la coesione orchestrale è perfetta, e anche i ritmi della direzione si inseriscono in una inattaccabile tradizione di rubati, talvolta languidi, altrove concitati, è il rapporto con la scena il problema, con tutti gli interpreti almeno una volta vistosamente in ritardo, e/o in affanno respiratorio. C’è da chiedersi se, per ottenere un risultato migliore, non fosse stato meglio adattare alle possibilità interpretative dei cantanti l’orchestrazione: sentire una grande professionista come la Rancatore rimanere a fiato corto sul finale del secondo atto (per citare l’esempio più eclatante), non è un risultato auspicabile né per l’artista né per la performance più in generale. Nonostante ciò, è proprio Desirée Rancatore la mattatrice della serata: la coloratura magistrale, il fraseggio ben caratterizzato e le venature giustamente liriche del ruolo ne riconfermano l’indiscutibile talento belcantistico. Spicca accanto a lei anche il tenore argentino Juan Francisco Gatell: il suo Ernesto è ricco di sfumature, il bel colore timbrico unito alla sicurezza dell’emissione e della linea di canto (in particolare del legato), fanno rientrare perfettamente Gatell nella categoria dei tenori  “di grazia”. Spiccano la serenata notturno del terzo atto (“Com’è gentil”) e  il “Tornami a dir che m’ami”, in duetto con Norina, da considerarsi tra i momenti più godibili della recita. Più alterni, pur dando buona prova di carattere, sono il Dottor Malatesta e Don Pasquale: Elia Fabbian, nel primo ruolo, si muove con sicurezza, la voce, chiara, è gradevole, la linea di canto non sempre inappuntabile. Nel complesso, una prova corretta. Giovanni Romeo, invece, viene “promosso” nel primo cast per sostituire Kristopher Irmiter, indisposto, e l’emozione si fa sentire sul piano della tenuta e proiezione vocale. Nonostante ciò Romeo è un cantante intelligente e non va a compensare le limitazioni con inutili forzature comiche, mostra sempre un fraseggio brillante e accurato unito a una recitazione disinvolta ma senza eccessi caricaturali. Corretto l’apporto del Notaio di Roberto Conti. Ottima, invece, come sempre, la prova del coro, diretto dal Maestro Francesco Aliberti: pur in una parte risicata, si presta con grande ironia ai giochi della regia, strappando più di un sorriso. Si è detto all’inizio come quanto qui riportato possa essere considerato una serie di meri dettagli, ma è chiaro dalla risposta della sala che non siano dettagli trascurabili: gli applausi a scena aperta sono deboli quanto quelli a fine spettacolo, il pubblico in foyer borbotta e si lascia sfuggire più di mezza parola di disappunto, soprattutto sulle scelte creative. Pose blasé da pubblico di première
? D’annunzio, che di pose era intenditore, avrebbe risposto: “forse che sì, forse che no”. Foto Marcello Orselli