George Frideric Handel (1685-1759): “Saul” (1739)

Oratorio in tre atti su libretto di Charles Jennens. Christopher Purves (Saul, Apparition of Samuel), Iestyn Davis (David), Lucy Crowe (Merab), Sophie Bevan (Michel), Paul Appleby (Jonathan), Benjamin Hullet (Higt Priest, Abner, Amalekite, Doeg), John  Graham-Hall (Witch of Endor). Barrie Kosky (regia), Katrin Lea Tag (scene e costume), Otto Pichler (coreografie), Orchestra of the Age of Enlightenment, Ivor Bolton (direttore), The Glyndebourne Chorus, Jeremy Bines (maestro del coro). Registrazione: Glyndebourne Opera Festival, agosto 2015. T.Time: 185′. 1 DVD Opus Arte OA BD7205 D

Handel – e per di più uno dei grandi oratori sacri – affidato a Barrie Kosky suscita a primo acchito più di un timore. Il regista australiano, direttore della Komische Oper di Berlino, è uno degli esponenti delle posizioni più estreme del teatro di regia spesso dominate da un gusto della provocazione fine a se stesso e per certi aspetti fastidioso; questa volta però bisogna ricredersi e il lavoro del regista è innegabilmente efficace sul piano drammaturgico, fornendo uno spettacolo che non è certo convenzionale. Ma in fondo può esistere un modo convenzionale di allestire lavori non pensati per la scena? Non interessato all’aspetto religioso, Kosky  vede “Saul” come una tragedia di potere e follia. Il tema non era per altro ignoto a Handel che qui ritorna dopo la parentesi catartica di “Orlando” a quel tragico intreccio senza via di uscita che nell’ormai lontano 1724 aveva caratterizzato la figura di Bajazet nel “Tamerlano” ma portato ora a un livello di profondità e intensità prima sconosciute. “Saul” come una sorta di tragedia shakespeariana, come un Lear del XVIII secolo questa sembra l’idea di Kosky per questa messa in scena. La vicenda è ambientata al tempo di Handel, i costumi e il trucco rimandano a un Settecento caricaturale e deformato che affonda le sue radici nella caricaturista del tempo e nell’opera di William Hogarth spesso palesemente evocata. Abiti di taglio più moderno caratterizzano solo David quasi a simboleggiare la sua estraneità al mondo circostante.
L’opera si apre con i festeggiamenti per la morte di Golia; dominano tavoli colmi di trionfi di frutta e di cibi che si rifanno alla tradizione delle nature morte olandesi del secolo precedente ma come deformate da uno sviluppo ipertrofico mentre tragica e allucinata la testa mozza di Golia tiene desta l’attenzione sull’inevitabile sviluppo tragico; di grande effetto la seconda scena con Saul ormai preda della follia, dove viene evocato un altro luogo palesemente hogartiano: il manicomio di Bedlam dove al tempo di Haendel era possibile pagare un biglietto per assistere allo “spettacolo della follia”. Qui vediamo in scena il re folle sprofondato come in un solco e attorno il pubblico-coro elegantemente vestito che assiste e commenta il triste spettacolo.
Nella seconda parte i brillanti colori della prima cedono a un mondo sempre più scuro, dominato da grigi e neri su cui accendono solo poche macchie bianche. Vediamo uno spazio buio illuminato da un tappeto di candele accese fra cui si muovono i personaggi-candele, che scompariranno anch’esse con lo sprofondare sempre più verso l’abisso della mentre del re. La scena della strega di Ensor è l’incubo di una mente folle: in una landa desolata la testa della strega compare sorgendo da terra, come le visioni che parlano a Macbeth, per rivelarsi un androgino deforme dalla testa barbuta e dal corpo femmineo con i grandi seni cadenti, personificazione di una livida follia che attosca con il suo latte venefico la mente di Saul. Alla morte del re il popolo torna a occupare lo spazio vuoto, desolato, con un rigore ora giustamente oratoriale che accompagna il climax emotivo della partitura cui nuocciono solo le coreografie piuttosto invasive di  Otto Pichler.
Uno spettacolo quindi non sicuramente convenzionale ma decisamente meritevole di essere conosciuto.
Sul versante musicale l’Orchestra of the Age of Enlightenment suona splendidamente. Sontuosa è anche la prova del The Glyndebourne Chorus che si conferma una delle migliori compagini a livello europeo specie per la musica del XVIII secolo. La direzione di Ivor Bolton è valida, di grande chiarezza e pulizia, molto musicale ma forse manca della forza visionaria che caratterizza lo spettacolo e che avrebbe richiesto una concertazione più tesa e nervosa di quella offerta da Bolton. I cantanti sono nomi che possono dire poco al pubblico italiano ma è difficile immaginare una compagnia più omogenea tanto sul piano vocale quanto su quello interpretativo. Christopher Purves è un Saul di soggiogante forza espressiva. Vocalmente ragguardevole, regge senza difficoltà la non facile scrittura del ruolo ma a emergere è soprattutto l’aspetto interpretativo: il suo Saul feroce e distrutto è di statura veramente shakespeariana e la mente non può non correre inevitabilmente alla figura di Lear. Il fraseggio è sempre vario, ricco, pertinente; non una sfumatura del personaggio sfugge a Purves cui si può solo appuntare un’espressività forse più operistica che oratoriale, quasi pre-romantica più che barocca che, tuttavia, non compromette in nulla la splendida prestazione. Inoltre Purves è attore fenomenale non solo durante il canto ma anche nelle controscene – e si sa quanto sia difficile per un cantante mantenere viva l’attenzione scenica in questi frangenti – così che il personaggio non può non fissarsi interamente nella mente dello spettatore.
Alla forza interpretativa del Saul di Purves si contrappone il David del controtenore Iestyn Davis, tutto risolto nelle ragioni di un canto perfetto e musicalissimo, sostenuto da un timbro molto piacevole e da una ricchezza di fraseggio meno evidente per esplicita scelta espressiva ma non meno curata all’interno di una precisa contrapposizione fra le due figure principali. Paul Appleby (Jonathan) è un tenore dalla voce un po’ flebile ma molto educata e musicale e dalla linea di canto perfettamente curata; il gran sacerdote è trasformato dalla regia in un buffone deforme, incarnazione di quel Fou così importante nell’immaginario shakespeariano e viene affrontato con grande brillantezza da Benjamin Hulett, tenore leggero dalla voce agile e precisa e attore di grande efficacia nel tratteggiare il suo grottesco personaggio. Completa la parte maschile del cast John Graham-Hall che affronta con solida professionalità il ruolo della strega di Ensor. Sul versante femminile lo spettacolo è incentrato sulla contrapposizione fra la luminosa Merab di Lucy Crowe e l’oscura Michal di Sophie Bevan. Bionda e angelica la prima, bruna e diabolica la seconda con una contrapposizione anche vocale fra il canto morbido, levigato ma un po’ zuccheroso della Crowe e quello più un po’ più aspro – con qualche sentore di fissità – ma più intenso ed espressivo della Bevan. Contrapposizione che funziona molto bene sia sul piano teatrale che su quello musicale dando una personalità fortemente distinta alle due principesse.