Gioachino Rossini 150: “Le siège de Corinthe” (1827)

Tragédie-lyrique in quattro atti su libretto di Alexandre Soumet e Luigi Balocchi. Luciana Serra (Pamyra), Maurizio Comencini (Néoclès), Marcello Lippi (Mahomet II), Dano Raffanti (Cléomène), Arnando Caforio (Hiéros), Francesco Facini (Omar), Francesca Provvisionato (Ismène), Vito Martino (Adraste). Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice di Genova, Gianfranco Cosmi (maestro del coro), Paolo Olmi (direttore), Attilio Colonnello (regia, scene e costumi). Registrazione: Genova, Teatro Carlo Felice 2 giugno 1992. 1 DVD Hardy Classics 2018

Le siège de Corinthe rappresenta uno di quei rifacimenti di opere precedenti spesso utilizzati dai compositori italiani alle loro prime esperienze parigine, lavori che riadattavano materiale di sicuro successo alle richieste e ai gusti particolari del pubblico della capitale francese. Il punto di partenza in questo caso è il “Maometto II” ma rispetto ad altri casi qui le trasformazioni sono più radicali. Vengono infatti aggiunte o interamente modificate intere scene, completamente cambiante alcune tessiture; il Calbo contralto napoletano diventa qui il tenore Néoclès e la parte di Anna Erisso (Pamyra nella versione francese) abbandona il carattere ibrido pensato per la voce della Colbran per assumere tratti di autentico soprano lirico d’agilità mentre la trasformazione dei veneziani in greci risente probabilmente dell’attualità che la questione greca aveva assunto negli anni trascorsi specie a Parigi. Come valutare queste trasformazioni? Sul piano musicale la nuova musica di Rossini è di qualità straordinaria – la grande scena corale del III atto è degna dei momenti più alti del “Moise et Pharaon” – ma nell’insieme il lavoro risulta più convenzionale soprattutto sul piano drammaturgico. Si confrontino i finali: grandioso ma in fondo più prevedibile quello francese – e anche un po’ precipitoso nel momento della morte di Pamyra – tutto il contrario dell’intensa, dilatata  e strutturalmente rivoluzionaria scena di Anna Erisso nella versione italiana. Quasi due opere distinte – seppur nate da una radice comune – ciascuna con le proprie qualità e specificità.
L’edizione genovese del 1992 ha una sua importanza storica in quanto prima esecuzione italiana dell’originale francese dell’opera in forma integrale in luogo della versione italiana curata da Callisto Bassi e autorizzata da Rossini che però recuperava numerosi brani e stilemi dal “Maometto II” napoletano a cominciare dal riadattamento per contralto della parte di Neocle. L’importanza storica non va però di pari passo con la qualità esecutiva. Sontuoso ma statico e antiteatrale l’allestimento di Attilio Colonnello. L’ambientazione è sostanzialmente atemporale, ancora molto barocca come concezione, in quanto si vedono prospetti di colonnati classici aperti su fondali piranesiani, gradinate teatrali, il tutto di un sapore ellenistico o romano ma totalmente inappropriato all’epoca dei fatti narrati. Fortemente arcaizzanti i costumi dei greci con qualche tocco fin troppo surreale (gli spallacci in plastica colorata sagomati a testa di leone) mentre più in sintonia con la vicenda i costumi turcheschi. L’aspetto filologico del recupero dei bozzetti del Sanquirico dà all’insieme un interesse di filologia quasi archeologica ma resta uno spettacolo molto datato, precedente a quell’affermarsi di una concezione storicistica che sarà la grande conquista degli anni successivi. Di regia è praticamente impossibile parlare mancando qualunque narrazione della vicenda e riducendosi il tutto a gesti convenzionali dei singoli cantanti.
Decisamente meglio la direzione di Paolo Olmi che dell’insieme è forse la componente migliore. La sua è una lettura decisamente proiettata in avanti, che esalta le componenti pre-romantiche della scrittura rossiniana, a volte spingendo anche troppo in quella direzione con sonorità quasi verdiane, ma sempre teatrale, intensa, espressiva. I complessi del Carlo Felice si disimpegnano con onesta professionalità ma nulla di più. L’elemento migliore del cast è di gran lunga la Pamyra di Luciana Serra, anche lei non è esente da pecche. Facilità straordinaria nel canto di coloratura, perfetto controllo del fiato, naturale propensione al canto patetico che si esalta nei momenti più lirici come “Du séjour de la lumière” . Queste qualità non nascondo però un timbro aspro e spesso poco piacevole e acuti fissi e faticosi che specie nella tensione drammatica del terzetto del II atto risultano fin troppo problematici. Dano Raffanti si era affermato nel 1983 con uno strepitoso Rodrigo ne “La donna del lago” a Pesaro, ma purtroppo i non troppi anni trascorsi hanno lasciato pesanti tracce così che il suo Cléomène è affetto da un canto duro, faticoso, monocorde e noioso nella sua assenza di modulazioni. Se almeno Raffanti mantiene una certa presenza vocale, ancora più debole è la prova di Maurizio Comencini come Néoclès. Voce piacevole per timbro e colore ma totalmente fuori parte, priva di quell’aulicità che il ruolo richiede ad ogni passo e troppo povero nel fraseggio e nel gioco dei colori. Inoltre il settore acuto è tutt’altro che sicuro con suoni oscillanti e ricorso fin troppo frequente al falsettone. Totalmente estraneo alla vocalità del ruolo, rozzo, sgraziato senza attenuanti il Mahomet di Marcello Lippi in grossa difficoltà nel canto di coloratura – “Chef d’un peuple” è “Duce di tanti eroi” semplicemente tradotta ma con le stesse difficoltà sul piano vocale – legnoso nel settore acuto e gutturale nei gravi. Armando Caforio manca della sacralità richiesta dalla profezia di Hiéros. Funzionali le parti di fianco.