“Giovanna d’Arco” al Teatro alla Scala

Giovanna d'Arco, Anna Netrebko

Teatro alla Scala, Stagione d’opera e balletto 2015-2016
“GIOVANNA D’ARCO”
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Temistocle Solera, tratto da Die Jungfrau von Orléans di Friedrich Schiller
Musica Giuseppe Verdi
Giovanna ANNA NETREBKO
Carlo VII FRANCESCO MELI
Giacomo CARLOS ÁLVAREZ
Talbot DMITRY BELOSELSKIY
Delil MICHELE MAURO
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia Moshe Leiser e Patrice Caurier
Scene Christian Fenouillat
Costumi Agostino Cavalca
Luci Christophe Forey
Video Étienne Guiol
Movimenti coreografici Leah Hausman
Nuova produzione Teatro alla Scala
Milano, 21 dicembre 2015

Grande spettacolo musicale di rara sintonia e di formidabile coerenza: così potrebbe essere spiegato lo straordinario successo della Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi quale titolo inaugurale della stagione 2015-2016 del Teatro alla Scala. Oltre alle ragioni di una ripresa “storica”, a centocinquant’anni di distanza dalle ultime recite milanesi, oltre alla qualità dell’esecuzione (forse non si sentiva più un Verdi diretto e cantato così bene da quando lo stesso Chailly aveva aperto la stagione 2005-2006 con Aida), oltre al piacere della riscoperta delle bellezze musicali della partitura, la ragione più forte del gradimento del pubblico consiste nell’affinità d’interpretazione e di intenti espressivi tra direzione d’orchestra e regia. Tutti e tre gli artisti, Riccardo Chailly e il duo registico di Moshe Leiser e Patrice Caurier, concordano nel ritenere Giovanna d’Arco un’opera metafisica, una vicenda che può racchiudersi nelle visioni di una mente esaltata; lo spettacolo parla di storia, di amor di patria, di guerra, di religione, e dunque di tanta letteratura compresa almeno tra Shakespeare e Schiller, tra Medioevo francese e Sturm und Drang tedesco, tra Romanticismo e Risorgimento (non va dimenticato che la composizione risale all’inverno 1844-1845). Eppure, a leggere bene il libretto di Temistocle Solera e il suo tentativo di ridurre a trama d’opera una vicenda dai risvolti mitologici e religiosi così complessi, il melodramma verdiano è analizzabile anche come ambizione personale di una fanciulla che crede di essere Giovanna d’Arco, che vuole riviverne l’epopea e la gloria, che segue passo passo il modello, identificandosi in esso fino a morire. Il direttore parla di «opera soprattutto metafisica, irreale», i registi dicono che ci troviamo «all’interno di una nevrosi, e la nevrosi non può essere logica». Tali convinzioni, anziché tradursi in un approccio soggettivo e bizzarro, producono al contrario un allestimento di pregevolissima compattezza.
Prima di tutto, e di gran lunga, sul piano musicale, perché la lettura di Chailly procede in una continua alternanza di oscurità e di luce: il tremulo degli archi che apre la rutilante ouverture lascia spazio all’enunciazione del primo vero tema tra i vari strumenti a fiato, con un passaggio alternato di fiamma e di buio, di trasparenza del suono (il flauto) e di torbidezze dell’impasto complessivo (archi e fagotti). Ma la vera culminazione della sinfonia è ovviamente dopo, in un moto di progressiva liberazione, che ricorda quella beethoveniana di Egmont o quella wagneriana di Rienzi; sempre, grandi fantasmi della storia e del mito. Chi sostiene che la Giovanna d’Arco sia “l’opera più brutta di Verdi” (ma il suo autore, in una lettera a Piave, sosteneva l’esatto opposto «senza eccezione e senza dubbio») potrà forse ritenere che tale illuminazione sia declinata con movenze un poco provinciali, ma non importa. Grazie alla direzione di Chailly si comprende come ogni possibile goffaggine o effetto di rozzezza musicale siano esito di una cattiva esecuzione, più che di una scrittura poco accurata; il merito principale del direttore è infatti di insistere molto più sull’agogica interna a ogni pagina che non sugli accenti ritmici; questo permette prima di tutto all’orchestra di respirare in modo naturale, con passione o con affanno, senza alcuna prevedibile ripetitività (mai si percepisce la discesa verso la Un-ta-ta-musik). In secondo luogo fa sì che ogni ripresa sia connotata da colore e intensità nuovi: i “da capo” delle cabalette di Carlo e di Giacomo sono sostenuti da un’orchestra che si gonfia progressivamente con un’onda sonora ricchissima, e traduce in pathos tutta l’enfasi di tali numeri musicali. Vivacità e respiro agganciano anche segmenti separati dell’opera: straordinaria, per esempio, la continuità tra I e II atto, quando il direttore sceglie di non interporre neppure una battuta vuota, ma attacca subito la concitata scena corale «Ai lari!… Alla patria». L’afflato con cui Chailly affronta l’opera è quello che giustamente direttori come Gavazzeni applicavano ai titoli dei cosiddetti e famigerati “anni di galera”. L’unico modo pienamente convincente per valorizzarli è affrontare la partitura con impeto, senza concedere nulla di scontato alle enunciazioni strumentali, ossia senza un attimo di rilassamento; e per conseguire tale risultato non c’è frase in cui il direttore non faccia spiccare un elemento (o meglio un gruppo di elementi) di rilievo: ora una vibrazione degli archi, ora un effetto delle percussioni, ora un contrasto di ritmi all’interno dello stesso numero, ora un’enfasi ai fiati dell’orchestra, ora le strappate dei contrabbassi (peraltro molto frequenti, di gusto grandguignolesco). Uno dei punti deboli della drammaturgia originaria (le suture tra i vari atti) è quindi trasformato in risorsa autenticamente drammatica: dato che anche la realizzazione scenica ricorre a tale strategia, il momento più felice dell’azione è l’irrompere dei guerrieri in battaglia in corrispondenza del mancato entracte tra I e II atto, quando il coro militare sfonda le paratie perimetrali e conquista tutta la scena. Nella traduzione visiva dell’esperienza mentale di Giovanna, è esattamente quando i suoi sogni si popolano di eroismo e di violenza. Dal palco di barcaccia anche il gesto direttoriale è uno spettacolo di calibrata misura, come se nessun accordo dovesse eccedere rispetto a un limite di moderazione armonica sonora che Chailly ha ben fisso in mente. E poi c’è la gran quantità di segnali musicali di guerra e di azione bellica in cui tale gesto può esprimere l’autentico “suono verdiano”, con marce, fanfare, ritmi enopli, cori angelici e diabolici, duetti, concertati, fino alla grande chiusa glorificante.
Bravissimo il Coro del Teatro alla Scala preparato da Bruno Casoni, specialmente quando deve dar voce alle congreghe infernali: alcune voci femminili atteggiano l’emissione a stridulo scherno, mentre in orchestra Chailly rende gli effetti delle percussioni in modo molto discreto. A onor del vero, è difficile trattenersi da un rimbrotto contro Solera, e forse anche contro lo stesso Verdi, che si è prestato a musicare versi come «Quando agli anta / l’ora canta / pur ti vanta / di virtù» sulla labbra degli spiriti malvagi: una serie di sei quartine di quaternari piani o tronchi, invero piuttosto grotteschi, anche se musicalmente efficaci. In altre circostanze le scelte del librettista permettono a Verdi soluzioni molto più interessanti, come nel finale I, costruito sulla giustapposizione di canto lirico e appassionato di Carlo, terrore di Giovanna e ridda infernale degli spiriti malvagi che credono di avere la fanciulla ormai in pugno; tutto nasce infatti dalla contrapposizione ritmica della poesia, in cui si oppongono due strutture metriche (gli ottonari dei due solisti e i senari doppi del coro infernale). Ed è appunto il coro «Vittoria, vittoria!… Plaudiamo a Satàna», con la sua cadenza anapestica e martellante, a fornire a Verdi un contrasto emotivo perfetto per il punto centrale di tutta l’opera.
Re Carlo VII è Francesco Meli: l’ingresso vocale del protagonista maschile è degno della nitida personalità vocale di questo tenore; il fraseggio è dolente, smarrito, rilassato e mesto (Carlo si presenta agli astanti praticamente nell’atto di abdicare). Il timbro è caldo, uniforme, bello; l’emissione manca all’inizio di squillo, ma si tratta di un accorgimento espressivo, perché Meli lo recupera nel corso dell’aria «Sotto una quercia parvemi», e lo fa sfavillare nella cabaletta «Pondo è, letal martiro». Nel duetto dell’atto II (che è già il secondo con il soprano) sfrutta tutta la sua capacità di alleggerire il porgere e di legare le frasi (un capolavoro il distico «È puro l’aere – limpido è il cielo / siccome il velo – di nostra fé», cantato tutto d’un fiato). La dolcezza dell’innamorato è in «Vieni al tempio e ti consola» che chiude il I atto, mentre la disperazione dell’amante deluso nel sovrano costretto ad abbandonare Giovanna dopo la denuncia di Giacomo. Molto applaudito dal pubblico, il personaggio di Carlo non potrebbe avere in effetti interprete migliore di Meli.
Anna Netrebko, protagonista assoluta dell’opera, esordisce con l’aria «Sempre all’alba ed alla sera» cantando molto bene: l’emissione è vellutata e carezzevole, il canto sul fiato intenso, quasi aggressivo negli acuti della frase (drammaticamente capitale) «oh se un dì m’avessi il dono / d’una spada e d’un cimier». Se nel corso della prima recita, a voler essere molto pignoli, il colore vocale non si sbiancava, ma impallidiva appena nella zona del passaggio, ora ogni escursione nel registro (la tessitura di Giovanna oscilla tra il re sovracuto e il do sotto il rigo) è molto morbida e del tutto controllata. Quando nell’atto I canta «O fatidica foresta» la voce scivola sul fiato con totale facilità, l’intonazione è impeccabile, e il volume della voce veramente impressionante. Si mantiene tale fino all’apoteosi tragica del concertato e finale III, quando Giovanna è condannata come empia e sacrilega. Nel IV atto, quello del martirio e dell’immediata canonizzazione, il soprano cambia ancora la voce, riservando una posizione in maschera e un porgere di speciale dolcezza al colloquio con il coro angelico, per la riconciliazione definitiva. La Giovanna della Netrebko è insomma decisamente volitiva: non è la fanciulla inerme assorta in estatiche visioni, ma colei che persegue accanitamente i fantasmi della propria mente fino a renderli reali e concreti, fino a morire per essi. Alla fine dell’opera il pubblico scaligero non si stanca di acclamarla, di richiamarla alla ribalta e di festeggiarla, incantato da tutte le sue doti canore e attoriali. Carlos Álvarez è reduce da una bronchite assai forte, che gli aveva impedito di cantare nella serata inaugurale del 7 dicembre, allorché fu sostituito da David Cecconi. Quando attacca il suo momento più impegnativo, «Franco son io, ma in core», la voce scorre con disinvoltura e raggiunge bene la zona acuta, sostenendo un ritmo che nel suo altalenare gli impedisce forse di concentrarsi sul fraseggio e sui colori delle singole espressioni. Per questo riesce meglio la cabaletta «So che per via di triboli», costruita su un ritmo appena più vivace. Dove deve per forza sottolineare il valore della parola (per esempio, «È memoria d’una figlia») il suono è un po’ schiacciato verso l’alto, ma la voce è bella, di timbro chiaro, dall’emissione molto corretta. Rispetto a Meli e a Netrebko il baritono manca certamente di squillo e di vibrato, e appare emotivamente meno coinvolto nel personaggio, perché la folle disperazione del padre che non ha compreso nulla della propria figlia non emerge abbastanza; ma la sua interpretazione complessiva è comunque molto apprezzata. Nelle due parti minori di Talbot e di Delil due grandi professionisti affiancano i ruoli principali: il basso Dmitry Beloselskiy e il tenore Michele Mauro, entrambi all’altezza dell’occasione.
Moshe Leiser e Patrice Caurier dispongono un progetto registico che recupera l’ossessione del Medioevo a partire dall’età di Verdi e di Solera; in altre parole, la loro Giovanna non è la vera Giovanna d’Arco della storia di Francia, ma una donna affetta da isteria, immedesimata nel personaggio storico al punto da farlo rivivere nelle circostanze capitali di quella leggenda. La scena si apre su di un vasto stanzone, in cui un padre veglia sul sonno tormentato della propria figlia. È l’epoca in cui il neurologo Jean-Martin Charcot studia molti casi di isteria all’ospedale della Salpetrière di Parigi, ma non per questo si può concludere che la scena rappresenti soltanto un ospedale, un manicomio, una sacrestia o altro luogo ben definito; il palcoscenico della Scala diventa anzi un luogo mentale, meglio ancora lo schermo su cui si proiettano le fantasie di Giovanna, dalla consolazione degli angeli alle tentazioni del demonio. Per questo, all’inizio il coro è fisicamente assente; se ne intuisce la presenza dietro alla sobria boiserie della camera; ma quando assume una precisa identità (di sogno o di incubo), allora irrompe sulla scena con violenza, in forma di guerrieri, di diavoli, di popolo francese, di esercito nemico inglese, per assalire una fanciulla tanto determinata nel ritagliarsi un cantuccio nella Storia quanto suggestionabile nelle sue relazioni con il mondo. Anche il suo eroe terreno, Carlo, è un prodotto assolutamente ideale, di sogno fiabesco; bene fanno i registi a rivestirlo tutto d’oro, sull’armatura, sul volto, sulla capigliatura, non come nobile uomo di carne e ossa, bensì quale principe di un mondo favoloso e lontano, pur nella sua debolezza tutta terrena. Per fortuna la regia non monta alcuna impalcatura psicoanalitica, perché contano piuttosto gli oggetti simbolo (come la statuetta della Madonna, che resta al centro del proscenio per tutto lo spettacolo, attorniata dalla corona aurea di Carlo VII) o le presenze di forte impatto (i diavoli che tentano Giovanna, sedotta sul suo lettuccio da un intraprendente sovrano già invaghitosi di lei) o ancora le suggestioni più tipiche del mito giovanneo (le fiamme del rogo costituiscono una delle proiezioni più belle, all’inizio del IV atto). C’è la grande storia dell’Europa cristiana, sullo sfondo di questa regia – che non è tradizionale o moderna, ma – puramente intelligente: ed è la massiccia facciata della cattedrale di San Dionigi a Reims, con il suo rosone illuminato come un caleidoscopio; nel III atto, in corrispondenza di tale apparizione, che è la vittoria dell’idea di Dio sul mondo, riappare Giovanna rivestita di un’armatura interamente dorata: è il completamento della metamorfosi nel personaggio eroico dei suoi sogni, perché nell’aspetto diventa un’emula di Carlo VII; crede di aver esaudito ogni suo desiderio, e invece precipita dall’estasi all’abisso proprio in quel momento. Quando Giacomo denuncia la presunta eresia di Giovanna, la facciata della cattedrale sprofonda, rabbuiandosi e illuminandosi poi di bagliori rossastri e diabolici. Mai, però, si può parlare di semplice visione onirica: per tutto lo sviluppo dalla vicenda restano visibili sulla scena gli elementi di arredo della camera da letto Cristo stesso consegna a Giovanna la croce alla quale viene legata nel finale III, e con cui si realizza il suo martirio, ma appunto a partire da tale momento la protagonista appare assente: non c’è più alcuno scambio di sguardo tra lei e il padre o tra lei e il re, come se Giovanna assistesse da sveglia a quello che accade alla sua identità onirica, in uno sdoppiamento che però non evita la morte finale. Lo spettacolo è molto curato in ogni ambito dell’allestimento: dalle scene funzionali di Christian Fenouillat (con bellissimi effetti di scorcio prospettico dati dagli spuntoni di lancia, come nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, secondo le suggestioni di un Medioevo bellicoso e affollatissimo), ai costumi semplici e al tempo stesso sofisticati di Agostino Cavalca (che giustamente li differenzia al massimo per i vari gruppi corali), ai video evocativi e precisi, pur senza essere didascalici, di Étienne Guiol. La storia di Giovanna d’Arco riletta da Leiser e Caurier attraverso Solera e Verdi non è più un mito cristiano, e tanto meno una vicenda di redenzione, ma un viaggio senza ritorno nei turbamenti mentali della donna che rinnega la sessualità per raggiungere Dio, della donna umile come Tamar ma desiderosa di collaborare al progetto divino della storia umana. Purtroppo tale donna è soltanto una visionaria fanciulla, destinata a non essere compresa neppure dal proprio padre. Dio, amore, vittoria in guerra, obbedienza, si rivelano tutte idee troppo potenti per essere conciliate nella sua mente; o peggio, si rivelano idee il cui inverarsi non fa altro che accentuare la sua umana fragilità.   Foto © Teatro alla Scala