Christoph Willibald Gluck: “Alceste”

Christoph Willibald Gluck (Erasback, Alto Palatinato 1714 – Vienna 1787)
Alceste” rappresenta uno snodo fondamentale nella storia dell’opera europea, il titolo con cui il progetto di riforma portato avanti da Gluck e De Calzabigi raggiunge il punto più alto di codificazione formale, verrebbe da dire ideologica per il rigore con cui questa è portata avanti, rappresentando quindi uno snodo fondamentale nella piena affermazione di un’estetica neoclassica in campo musicale anche se il rigore con cui questa è portata avanti doveva inevitabilmente stemperarsi nella realtà della vita teatrale.
L’opera andò in scena per la prima volta al Burgtheater di Vienna il 26 dicembre 1767 con un cast di altissimo livello e già particolare nella scelta delle tipologie vocali, in nome della naturalezza espressiva non sono qui presenti parti per castrato – scelta che lo stesso Gluck abbandonerà già dal successivo “Paride ed Elena” – ma si ha una suddivisione dei ruoli principalmente fra soprani e tenori con una precisa corrispondenza di genere fra il personaggio e la voce chiamata ad incarnarlo mentre fra gli interpreti proviamo collaborati abituali di Gluck come Antonia Wagele-Bernasconi (Alceste) e Giuseppe Luigi Tibaldi (Admeto) che spesso furono al fianco del compositore condividendone l’impostazione estetica e ideologica.
Alceste” è nota soprattutto per la lettera di introduzione che Gluck aggiunse, con dedicata a sua Maestà Imperiale l’Arciduca Pietro Leopoldo in occasione della pubblicazione a stampa della partitura nel 1769. La lettera pur riportando il nome di Gluck è in realtà verosimilmente opera di De Calzabigi e rappresenta un autentico manifesto programmatico della nuova opera riformata secondo una serie di rigorosi principi teorici che si richiamano direttamente a quando già esposto nel 1755 da Francesco Algarotti nel suo “Saggio sopra l’opera in musica” e che rappresentano la più compiuta definizione dei principi musicali e teatrali secondo le posizioni più avanzata della riflessione illuminista finalizzati ad un’esposizione più diretta dei sentimenti, al superamento della dicotomia fra aria e recitativo all’interno di grandi blocchi teatrali, la revisione della funzione e della struttura dell’aria con il definitivo superamento della forma tripartita a scapito di un modello strofico meno artificioso, la prevalenza assoluta del valore espressivo di musica e poesia cui andavano sacrificati i vari desiderata dei cantanti con conseguente drastica riduzione dei passaggi di coloratura. Per la sua importanza storica si riporta in seguito il testo integrale della prefazione.
Come questa rigorosa viene applicata alla realtà teatrale? Prendendo spunto dall’accurata analisi fatta da P. Petrobelli nel 1998 (“La musica nel teatro. Saggi su Verdi e altri compositori”, Torino 1998) si può procedere a guardare più da vicino come funziona la macchina musicale messa in opera da Gluck.
La Intrada – come viene definita l’ouverture – deve introdurre al clima dell’opera e se non si può ovviamente ancora parlare di motivi conduttori e innegabile che in essa già si respiri il clima generale dell’opera. Con l’attacco del coro “Ah di questo afflitto regno” ha inizio il primo blocco tematico che coincide di fatto con tutta la prima parte dell’atto all’interno del quale i vari numeri si succedono collegandosi uno con l’altro all’interno di una struttura ciclica e dove tutto procede per riprese progressivamente variate, spesso in modo minimo all’interno di una raffinatissima struttura armonica su cui si regge l’unità del blocco che termina solo con il coro che segue l’aria di Alceste “Io non chiedo, eterni Dei”. Già da subito si riconosce quindi un linguaggio musicale estremamente rigoroso, quasi scarno nella sua essenzialità che procede come già accennato per variazioni minime spesso limitate ad alcuni elementi – in linea di massima tende a rimanere costante la scansione ritmica mentre viene progressivamente modificato l’andamento armonico – e spesso con riprese tematiche anche distanziate fra loro in modo da mantenere la compattezza dell’insieme. L’intera opera è organizzata su questi blocchi tematico-musicali fra loro collegati da precisi elementi di richiamo che ritornano stabilmente nel corso di tutta la partitura.
Questa rinuncia a qualunque concessione edonistica impone una cura assoluta della scrittura tanto orchestrale quanto vocale divenendo ogni minimo elemento essenziale per la resa espressiva dell’insieme e per evitare il rischio che l’impostazione sostanzialmente omofonica di molti momenti possa facilmente far perdere l’attenzione allo spettatore specie considerando che il pubblico del XVIII secolo pur dotato di un’alta cultura musicale era sicuramente più abituato ad una ben diversa concezione della musica.
Sul piano della vocalità la rinuncia al virtuosismo porta in primo piano la parola e il suo valore espressivo, il canto anche nelle arie risulta sempre prossimo ad una declamazione melodica in cui la comprensione del testo risulta dato essenziale per l’apprezzamento stesso della musica; una concezione quindi prevalentemente retorica finalizzata ad un’espressività aulica e sofferta che nella volontà dell’autore avrebbe dovuto far rivivere l’essenza della tragedia antica riprendendo quel sogno che fra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo aveva portato alle ricerche della Camerata de Bardi e alla nascita stessa dell’opera lirica. Proprio il richiamo alla tragedia classica spiega la centralità che in quest’opera caratterizza i cori la cui quantità e qualità non ha praticamente confronti nell’opera del XVIII secolo e che richiama piuttosto alla tradizione dell’oratorio tanto che “Alceste” può quasi definirsi un oratorio pagano tanta vicina è al genere sia per l’elemento del ruolo corale tanto per lo stesso contesto morale ed emotivo, per il suo valore di archetipo morale che l’avvicina a certe connotazioni dell’oratorio e che rientra pienamente nel valore didattico ed educativo che la cultura illuminista attribuiva al teatro.
La prefazione alla prima edizione a stampa dell’opera (1769)
« Altezza Reale, quando mi accinsi a scrivere la musica per Alceste, risolsi di rinunziare a tutti quegli abusi, dovuti od a una malintesa vanità dei cantanti od a una troppo docile remissività dei compositori, che hanno per troppo tempo deformato l’opera italiana e reso ridicolo e seccante quello che era il più splendido degli spettacoli. Mi sono sforzato di ricondurre la musica al suo vero compito di servire la poesia per mezzo della sua espressione, e di seguire le situazioni dell’intreccio, senza interrompere l’azione o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti. Ritenni che ciò si poteva realizzare nello stesso modo in cui i colori violenti influenzano un disegno corretto e armonicamente disposto con un contrasto ben assortito di luce e di ombra, il quale vale ad animare le figure senza alterarne i contorni. Così mi guardai dal fermare un attore nella più grande foga di un dialogo per cedere il posto ad un seccante ritornello; né mi compiacqui prolungare la sua voce nel bel mezzo di una parola unicamente per sfruttare una vocale favorevole alla sua gola; non mi lasciai indurre a mettere in mostra la sua agilità di canto con un passaggio tirato in lungo; né mai volli imporre una pausa all’orchestra affine di permettere al cantante di accumulare il respiro per una cadenza.
Non mi permisi di trascurare la seconda parte di un’aria le cui parole sono forse le più appassionate ed importanti, affine di ripetere, secondo la regola, quattro volte quelle della prima parte o di finire un’aria quando il testo non risulta ancora concluso allo scopo di indulgere al cantante che desidera sfoggiare quanto capricciosamente sa variare il passaggio in diverse guise. In breve, ho cercato di abolire tutti gli abusi contro i quali buon senso e ragione hanno fin qui protestato invano. Ho ritenuto che la overtura doveva apprendere allo spettatore la natura dell’azione drammatica e condensare, per così dire, la sua trama; che gli strumenti concertati dovevano essere introdotti proporzionalmente all’interesse ed alla intensità delle parole e non creare stridente contrasto tra l’aria e il recitativo; che non si doveva spezzare irragionevolmente un periodo né sconsideratamente intaccare la forza ed il calore dell’azione. Inoltre volli che la mia più grande attenzione fosse diretta alla ricerca di una bella semplicità, ed ho evitato di fare sfoggio di difficoltà a scapito della chiarezza; né mi parve lodevole di andare alla ricerca del nuovo quando ciò non fosse suggerito dalla situazione e dalla espressione, e non vi è regola che io non abbia messo spregiudicatamente da parte per lo scopo di raggiungere un logico effetto. Tali sono i miei principii.
Per buona fortuna le mie concezioni furono meravigliosamente realizzate dal libretto nel quale il celebre autore, mirando ad un nuovo schema drammatico, ha sostituito alle descrizioni ridondanti, ai paragoni sforzati e pedanti la rigida moralità, il linguaggio accorato, le forti passioni, le situazioni interessanti ed uno spettacolo senza fine variato. Il successo del lavoro ha giustificato le mie massime e l’approvazione concorde di una città così illuminata ha chiaramente consacrato che semplicità, verità e naturalezza sono i supremi principii estetici in tutte le manifestazioni artistiche. Per tutto ciò, benché parecchie persone insistessero perché io mi decidessi a dare alle stampe questa mia opera, io non mi nascondevo il pericolo di attaccare così decisamente e profondamente i pregiudizi radicati. Volli perciò rafforzarmi con la potentissima protezione di Vostra Altezza Reale il cui nome augusto, che raccoglie gli omaggi dell’Europa colta, prego mi concediate di mettere come intestazione. Il grande protettore delle arti belle il quale regna su di una nazione che ebbe la gloria di farle nuovamente sorgere dalla universale oppressione e che ne ha dati sublimi esemplari, in una città che fu sempre la prima a scuotere il giogo dei pregiudizi volgari ed a preparare la via alla perfezione, può lui solo intraprendere la riforma di quel nobile spettacolo nel quale tutte le arti belle hanno un compito così importante. Se ciò riuscirà, la gloria di avere rimosso la prima pietra (della vecchia costruzione) toccherà a me, e con questa pubblica testimonianza dell’appoggio concessomi da Vostra Altezza Reale ho l’onore di sottoscrivermi con umilissimo rispetto, di Vostra Altezza Reale umilissimo, devotissimo e obbligatissimo servo Cristoforo Gluck ».
La trama
Atto I
Quadro I: Sulla terrazza del palazzo reale di Fere, in Tessaglia, il popolo prega per la guarigione del re Admeto (“Ah di questo afflitto regno”), fra la folla avanza la regina Alceste accompagnata dai figli, profondamente sofferente per la sorte dello sposo promette di recarsi al tempio di Apollo per offrire sacrifici ed invocare la pietà del Dio (“Io non chiedo, eterni dèi”).
Quadro II, nel tempio di Apollo il gran sacerdote invoca il Dio, all’improvviso il tempio è scosso dall’infuriare la bufera e l’altare principale si incendia, segni della presenza del Dio nel tempio mentre si ode la voce di un oracolo che annuncia che il re dovrà morire se nessuno prenderà il suo posto nella morte. Rimasta sola a pregare Alceste è combattuta fra l’amore per i figli e quello per lo sposo ma rotti gli indugi decide di offrire la sua vita per la salvezza di Admeto (“Ombre, larve, compagne di morte”).
Atto II
Quadro I. In un’oscura selva lungo la strada che porta all’ingresso degli Infero Alceste avanza accompagnata dall’amica Ismene che cerca invano di dissuaderla dal suo proposito di morte (“Parto… Ma senti… Oh dio!”); allontanata la giovane Alceste entra in contatto con gli spiriti infernali cui propone lo scambio della sua vita in cambio di quella di Admeto, incredule le ombre cercano anch’esse di convincerla a non gettare la sua vita (“E vuoi morire, o misera”) ma di fronte all’irremovibile decisione della donna cedono alfine alle sue richieste. Alceste domanda solo alcune ore per vedere ancora una volta i figli e il marito giurando che si manterrà fedele alla parola data (“E vuoi morire, o misera”) e le divinità consentono anche a quest’ultima richiesta.
Quadro II. Nel palazzo reale Evandro e i cortigiani gioiscono per la guarigione di Admeto; il re raggiunge gli amici colmo di gioia per la guarigione e desideroso di rivedere l’amato sposa, in quel momento Alceste rientra nella reggia ma la sua profonda tristezza colpisce tutti gli astanti. Invano Admeto cerca di convincere la donna a spiegare le cause del dolore che così evidentemente l’opprime, alla fine di fronte alla pressione dell’uomo Alceste racconta quanto accaduto ed il patto con le divinità infere. Admeto promette di fare ogni cosa per poterla salvare ma è ormai conscio dell’ineluttabilità della tragedia che sta per compiersi (“No, crudel! Non posso vivere”). Alceste saluta le ancelle e quindi si reca a dare l’ultimo addio ai figli cui ricorda ancora tutto l’amore che prova per loro e li affida alle cure del padre (“Figli, diletti figli! Oh dio! Pur troppo”) prima di allontanarsi con loro per un’ultima volta.
Atto III
Vestibolo del palazzo di Admeto. L’inevitabile morte di Alceste ha immerso il palazzo nella tristezza, Admeto sfoga il suo dolore con l’amico Evandro (“Misero! E che farò!”) che invano cerca di consolarlo. Alceste porge l’ultimo addio allo sposo ma ormai i suoi ultimi momenti si avvicinano, più volte viene a mancare finché alle insistenze degli spiriti infernali cessa di combattere e muore. La reggia e la città intera piombano nella disperazione (“Piangi o patria, o Tessaglia! Alceste è morta”) mentre Evandro cerca vanamente di distogliere Admeto dal proposito di suicidarsi per ricongiungersi con Alceste. Prima che il re compia l’atto fatale il palazzo si inonda di luce e si ode la voce di Apollo che commosso da tante prove d’amore decide di restituire Alceste alla vita. L’opera si chiude nella gioia generale per il ritorno della regina.
L’incisione
Opera in tre atti di Ranieri de Calzabigi da Euripide
Prima rappresentazione: Vienna, Burggtheater 26 dicembre 1767
Admeto, re di Fere in Tessaglia Justin Lavender
Alceste, sposa d’Admeto Teresa Ringholz
Eumelo e Aspasia, figli di Alceste ed Admeto Adam Gierz, Emelie Clausen
Evandro, confidente d’Admeto Jonas Degerfeldt
Ismene, confidente d’Alceste Miriam Treichl
Gran sacerdote / Apollo Lars Martinsson
Un araldo Matthias Nilsson
L’oracolo Johan Lilja
Drottningholm Theater orchestra and chorus
Direttore Arnold Östman
Registrazione: Drottningholm Theater 10-15 agosto 1998
Costruito nel 1766 il teatrino del castello di Drottningholm è un gioiello barocco che ha miracolosamente conservato anche le macchine sceniche dell’epoca ed è sede di un piccolo ma interessante festival di musica del XVIII secolo che seppur con mezzi limitati propone produzioni di notevole interesse e di buona qualità complessiva.
Sono proprio i complessi del festival ad essere protagonisti di questa incisione di “Alceste” realizzata nel 1998 per la Naxos. Guidata da Arnold Östman per anni direttore stabile del festival svedese; l’orchestra suona con estrema puntualità e precisione, conscio di avere a disposizione cantanti preparati e volenterosi ma non autentici fuoriclasse Östman pone estrema attenzione ad accompagnare e a sorreggere il canto mantenendo un colore orchestrale terso e luminoso perfettamente in sintonia con la natura sostanzialmente lirica dei cantanti a disposizione. Si nota un’estrema cura a tutti i dettagli – da segnalare l’ottimo lavoro sulla dizione che si riscontra in quasi tutti i cantanti – che permette di dare dell’opera una lettura precisa e stilisticamente attendibile.
Come detto la compagnia di canto non conta di nomi altisonanti ma di un insieme di buona volontà e nel complesso ben preparato. Alle prese con la temibile parte di Alceste troviamo il soprano Teresa Ringholz voce sostanzialmente lirica di bel colore e grande musicalità canta tutta la parte con gusto impeccabile e riesce a darne un’idea convincente pur senza esserne l’interprete ideale. Quello che manca alla Ringholz sono la capacità di dar giusta forza ai grandi declamati così che pagine come “Popoli di Tessaglia” (Atto I, scena II) perdono parte della loro forza espressiva ed il colpo d’ala dell’autentica tragedienne che in più di un momento il personaggio sembrerebbe richiedere. Sul piano vocale la parte è comunque ben sostenuta fatta salva qualche difficoltà in momenti più scopertamente drammatici come “Ah per questo già stanco mio core” (atto II, scena VI) che spingono al limite le sue possibilità vocali mentre sul piano espressivo la cantante conscia delle sue caratteristiche sceglie di evidenziare il lato materno e dolente del ruolo anziché puntare si quello più scopertamente tragico.
Ben assortita la coppia dei tenori, entrambi molto puntuali sul piano stilistico e dalla pronuncia italiana più che convincente ma timbricamente nettamente distinti. L’Admeto di Justin Lavender pur partendo da una natura lirica non manca di spessore e di una buona tenuta drammatica che gli permettono di risolvere con competenza brani come “Misero! E che farò!” (atto III, scena I) riuscendo a dare una certa consistenza ad un personaggio sempre al limite di perdersi in una vita di solo riflesso nei confronti della moglie. Timbro più chiaro e vocalità più leggera presenta l’Evandro di Jonas Degerfeldt garantendo nei lunghi recitativi a due una chiara differenziazione fra le due voci tenorili, anche nel suo caso riscontriamo una pronuncia molto corretta e una linea di canto pulita ed elegante.
Fra le numerose parti di fianco si apprezza l’Ismene di Miriam Treichl soprano lirico dalla voce morbida e luminosa ed espressivamente efficacie nel ruolo della dolente ancella di Alceste cantando con grande eleganza l’aria “Parto… Ma senti… Oh dio!” (Atto II, scena I) e gli importanti interventi durante i lamenti funebri del terzo atto.
Buona le prove delle voci bianche Adam Gierz e Emelie Clausen nei ruoli dei figli di Alceste ed Admeto mentre qualche problema in più si riscontra nelle voci gravi Lars Martinsson nel doppio ruolo e Apollo e del Gran Sacerdote manca di autorità per i rispettivi ruoli e soprattutto per il secondo la voce è anche decisamente troppo chiaro così come sostanzialmente anonimo l’araldo di Matthias Nilsson, completa il cast la solida voce di Johan Lilja come Oracolo.