Il “Così fan tutte” diretto da Daniel Barenboim al Teatro alla Scala

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
“COSÌ FAN TUTTE OSSIA LA SCUOLA DEGLI AMANTI”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart
Fiordiligi MARIA BENGTSSON
Dorabella KATIJA DRAGOJEVIC
Despina SERENA MALFI
Guglielmo ADAM PLACHETKA
Ferrando ROLANDO VILLAZÓN
Don Alfonso MICHELE PERTUSI
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniel Barenboim
Maestro del coro Bruno Casoni
Maestro al cembalo James Vaughan
Regia Claus Guth
Scene Christian Schmidt
Costumi Anna Sofie Tuma
Luci Marco Filibeck
Nuova produzione basata sullo spettacolo del Festival di Salisburgo
Milano, 30 giugno 2014

La marcata sottolineatura di ritmi e colori umbratili dei violoncelli nella sinfonia dell’opera è già prefigurazione dell’ambiguità complessiva con cui Daniel Barenboim legge il Così fan tutte. E in questo pare smentire il regista dello spettacolo, Claus Guth, che in un’intervista di Andri Hardmeier contenuta nel programma di sala afferma che «è sorprendente in quest’opera quanto testo e musica apparentemente si distanzino per poi ricongiungersi. In quasi tutti i numeri musicali Mozart produce una divaricazione […]. Si canta l’amore, si recita il tradimento». In realtà la sinfonia, e poi tutto il resto, nell’esecuzione di Barenboim non hanno nulla di brillante, di frivolo, e neppure di gioioso. Il timpano è da subito martellante, greve, segna un pericolo forte che incombe sulla vicenda. Tutto questo per sintetizzare, insomma, che il Così fan tutte della Scala è stato avvicinato sia dal regista sia dal direttore in modalità seriosissima, senza alcuna considerazione per lo scherzo, la malizia, il divertimento innegabilmente presenti nella partitura (e, prima ancora, nel dapontiano libretto).
Michele Pertusi è senza dubbio l’artista più “nella parte”, sebbene non tratteggi un Don Alfonso del tutto convincente; è molto bravo nel parodiare il dramma metastasiano, anche se i suoni sono poco rifiniti. Rolando Villazón ha un timbro vocale sempre meno gradevole; con risonanze di gola e colori offuscati, la sua voce risulta anzi quasi più scura di quella del collega baritono. Ma è soprattutto il piglio “verista”, affrettato, spesso gridato, a non funzionare per nulla; i recitativi sono porti con enfasi caricaturale, e in più gravati da fastidiosi portamenti. In parte, la responsabilità di scelte interpretative sbagliate (o fortemente discutibili) si deve anche a Guth, poiché Ferrando e Guglielmo sono immaginati mezzi ubriachi sin dalla scena iniziale, e quindi si muovono e recitano di conseguenza. Mai sentito «Un’aura amorosa» più brutta: la voce tenorile è diseducata, le varie zone del registro sono tutte frammentate e sconnesse, i suoni si aprono e confermano quella rozzezza che ormai è l’unica cifra di un cantante un tempo molto interessante. Le mezze voci, tentate maldestramente, sfociano nella goffaggine, e quindi dell’accorato sentimento dell’amante non resta nulla. La cavatina «Tradito, schernito / dal perfido cor» è tutta urlata, con voce malamente spiegata, perché Villazón non riesce più a modulare un acuto che non sia aperto, dal suono fisso, e soprattutto di gola. Dopo un tale terremoto vocale anche qualche altra nota bene impostata finisce per passare in secondo piano; e infatti pochissimi applausi siglano il numero del II atto. Stilisticamente, Villazón canta Mozart come se affrontasse un’opera del giovane Verdi al solo momento della cabaletta.
Adam Plachetka, nel ruolo di Guglielmo, ha voce piuttosto chiara, e nei recitativi tende troppo al parlato. A pochi minuti dall’ingresso in scena di Maria Bengtsson e Katija Dragojevic, rispettivamente Fiordiligi e Dorabella, l’ascoltatore si rende conto della totale assenza di “personalità vocale”: entrambe voci anonime, scarse di colori, prive di grazia, pesanti. A ciò si aggiunga ancora la pessima pronuncia dell’italiano nell’una e nell’altra. Bengtsson ha note basse debolissime ed emissione stentata (appena decorosi i trilli in «Per pietà, ben mio, perdona», sommersi però da una linea di canto insufficiente, mentre in orchestra i corni di Barenboim producono meraviglie sonore). Eppure riceve un grande applauso da parte del pubblico dopo il rondò del II atto.
Serena Malfi è un’ottima Despina, dalla voce ferma e squillante, e dal fraseggio plausibile (certamente in quanto italofona); è un peccato che la voce si stimbri un poco in corrispondenza degli acuti, ma almeno c’è qualche spruzzolata di colore, di vitalità. La più elegante, a parte il Don Alfonso di Pertusi, è appunto Despina: la freschezza, i movimenti spigliati, l’abito di raso nero e una certa qual somiglianza con Cecilia Bartoli la rendono l’unica interprete plausibilmente mozartiana della compagnia.
A questo punto si potrebbe tentare un giudizio sintetico sui singoli interpreti: Pertusi è la classe dell’artista scaltrito; Villazón è la sguaiataggine; Bengtsson e Dragojevic l’anonimato vocale costruito con suoni intubati e parole incomprensibili; Plachetka, un attore prestato al canto; Melfi la speranza e il brio giovanili. Su tutti domina musicalmente un Barenboim serafico, pensoso, realista, raffinatissimo ma forse non troppo partecipe. Belli, nei numeri d’insieme, gli attacchi a mezza voce: si sente cioè la concertazione del direttore, responsabile di continue rifiniture tra orchestra e palcoscenico.
Nei due interventi previsti, il coro non si affaccia neppure sulla scena, come se il regista non avesse voluto turbare con altri individui la burla privata, intima e ambigua, perché in termini psicoanalitici è sempre bene “lavare i panni sporchi in famiglia”. E così la produzione non solo non è per nulla giocosa (la didascalia di Da Ponte è dunque inutile orpello?), ma è anche del tutto priva di ironia. L’esasperazione – di origine anch’essa metastasiana – del dolore delle donne abbandonate non ha nulla di parodistico, e perciò riesce stucchevole. Se nella regia di Guth non si ravvisa la ricerca di elementi psicoanalitici, bisogna concludere che le idee sono davvero poche.
Ad apertura di sipario è una folla di personaggi immobili, che poi scompaiono per lasciar soli i tre uomini: Don Alfonso in giacca bianca e black tie, in abito nero più sportivo i due giovani. L’interno completamente bianco, con doppio soppalco, è di piattezza disarmante; la pavimentazione sembra quella di un garage di periferia anziché di un salotto che vorrebbe essere pretenzioso. Il travestimento esotico di Ferrando e Guglielmo, poi, si risolve in due abiti bianchi, con camicia e cravatta bianche, e due maschere aborigene che si trovano appese alla parete del salotto (ma perché ne indossa una anche Don Alfonso?). Però le maschere sono ingombranti, e a ogni battuta i cantanti sono costretti a sollevarle e a tenerle davanti a sé (inutile ostacolo).
Gli abiti femminili, monocromi e di tinte fredde (electric blue, verde mare) sono impeccabili, mentre nel taglio degli abiti maschili c’è qualcosa di trasandato. Nella parte finale del I atto la trasandatezza diventa addirittura gusto per la sporcizia e per il sordido, in quanto Ferrando e Guglielmo hanno abiti e volti imbrattati, come se si fossero rotolati nel fango, perché in tal modo possono comparire di fronte alle belle senza più celarsi sotto la maschera: rimedio impacciato a una scelta scenicamente sbagliata. Ma che dire del momento della seduzione? A essere bendate sono ora Fiordiligi e Dorabella, affinché non riconoscano gli amanti; i quali approfittano della loro cecità per vellicarle con una foglia di felce provvidamente fornita da Don Alfonso, e a titillarle con un cubetto di ghiaccio che scivola sulle spalle e sui décolletés, come in un filmetto erotico di terz’ordine … (quanto avrebbe riso, probabilmente, l’autentico libertino Da Ponte, di fronte a tanta dabbenaggine registica! Guth sembra talvolta incapace di individuare la trasgressione e l’ambiguità sessuale al di là dei più triti pregiudizi e giudizi borghesi … tristezza davvero, se si ripensa a ben altri allestimenti scaligeri dell’opera). D’altra parte, che qualcosa di notevole, e di diffuso, non funzioni nella recita, è indice eloquente il fatto che il primo applauso – timidissimo e della durata di pochi nanosecondi – si manifesti soltanto dopo l’aria «Come scoglio immoto resta» (che è il n. 14 della partitura; da notare: nessun applauso neppure dopo la sinfonia, da parte dell’esigente turno A della Scala. Soltanto a conclusione di serata i cantanti riceveranno tutti apprezzabile consenso, e il direttore prolungate acclamazioni).
Anziché contemplare due volti di bellezza turchesca ed esotica, le due protagoniste cercano dunque al buio i seduttori, e ne illuminano con la torcia il volto mascherato. Ecco: a questo punto l’opera giocosa si trasforma in film psicologico, in tentazione psicoanalitica pretestuosa (una punta di inquietudine c’è, ed è fornita dalla bruttezza delle maschere scelte per l’occasione: almeno qui avrebbe potuto intervenire un po’ d’ironia; e invece no: anche il mascheramento per burla di Ferrando e Guglielmo è un altro momento di introspezione seriosa). Per introdurre un pizzico di divertimento, Despina ricorre a brutali punture a danno dei due finti suicidi, anche se così va perduta la finezza della «pietra mesmerica» (una regia intelligente e spiritosa la sostituirebbe almeno con un mirabolante ritrovato medico o tecnologico di oggi). Fortunatamente in orchestra Barenboim provvede a mantenere viva l’atmosfera musicale con un ininterrotto lavoro coloristico e ritmico; il suo Mozart non è certamente frenetico, anzi in taluni passaggi è anche troppo meditativo, ma almeno porge alternanza di sonorità e di cadenze a seconda del procedere dell’intreccio. Il concertato del finale I è uno dei momenti più belli della serata, vibrante per il giusto abbrivio, e appena un po’, com’è giusto, in fine velocior.
Il II atto offre una vista più ampia, perché la scena si apre sul giardino interno della casa di Dorabella e Fiordiligi: alti fusti d’albero (ma dall’aspetto sempre un po’ malato; saranno quelli del Lohengrin inaugurale del dicembre 2012 riciclati per risparmiare?), pareti con scritto a vernice “SI” (senza accento. Perché mai preoccuparsi dell’ortografia, se quel che conta per la regia è il sottointeso psicologico? O forse è il “si” impersonale, il germanico “mondo del Man”, non già il banale “sì” che le sciocche incaute pronunciano ai seduttori). Oltre agli alberelli allampanati, sul proscenio del II atto muschi, terra, erbetta, foglie secche, oltre all’immancabile drink appoggiato sulla balaustra, dimenticato lì dall’atto precedente. In effetti basta sempre poco per costruire un’incongruenza, per creare effetto di eterogeneità; in questo Guth è veramente bravo. Anche nella farsesca scena conclusiva, per esempio, i due uomini riacquistano gli abiti neri dell’inizio ancora prima del riconoscimento da parte delle donne (e allora a che serve l’opposizione abito nero/bianco?).
Per salvare l’allure di “dramma giocoso” non basta far cantare alle interpreti femminili l’intero II atto in sottoveste. Almeno il finale avrebbe potuto essere risolto in modo ironico; e invece no: restando fedele alla chiave interpretativa della coppia eros/thanatos, Guth atteggia i suoi interpreti a persone qualunque, stressate e in procinto di dare sfogo alle peggiori passioni a causa di frustrazioni e della scoperta del tradimento. Gli sguardi di indifferenza, di risentimento, di rabbiosa impotenza che i quattro giovani si scambiano sono terribilmente emblematici e attuali. Probabilmente a qualcuno questa parrà una motivazione positiva, che rende legittime tutte le scelte registiche. Ma – per tornare al dubbio di partenza – sarà questo il modo più efficace e funzionale per rivisitare un “dramma giocoso” (non già un dramma borghese di seconda metà dell’Ottocento)? I musi lunghi sulla scena, anziché preludere a una rassegnata esistenza coniugale in cui l’amore e la passione andranno smorzando, sembrano profetizzare reazioni più violente, irrazionali, come quelle morbosamente descritte nelle pagine di cronaca nera. E forse era naturale che a tale messaggio conclusivo giungesse un regista-psicoanalista come Guth. Ma allora, perché non limitarsi a leggere l’ultimo bel saggio di Massimo Recalcati (“Non è più come prima”. Elogio del perdono nella vita amorosa, Milano 2014), anziché voler proporre proprio un’opera giocosa, che avrebbe dovuto anche divertire il pubblico?