Intervista doppia ad Amakheru Duo: Francesco Santoli (tenore) e Simone Di Crescenzo (pianista)

Da sn Francesco Santoli (tenore) e Simone Di Crescenzo (pianoforte)

All’ultima edizione del Festival Pergolesi Spontini di Jesi, nello scorso settembre, si è esibito in due concerti un duo di nuova formazione e di nuovissimi propositi artistici; Amakheru Duo rappresenta infatti una forma assai rara in Italia, di integrazione tra una voce di tenore solista (Francesco Santoli = F) e di un pianista (Simone Di Crescenzo = S), che non cooperano in modo episodico e saltuario, come accade per lo più in occasione dei recital vocali dei cantanti d’opera, ma hanno avviato un progetto culturale di ampia portata, interamente dedicato allo studio e al recupero del repertorio cameristico vocale italiano tra XVIII e XX secolo. La letteratura da ripercorrere è tanto vasta quanto poco frequentata o, peggio, dimenticata; a Jesi i due artisti hanno presentato un concerto dedicato all’ultima produzione vocale di Spontini e uno di carattere più tematico, centrato sul vino e sulle sue effervescenze musicali. Abbiamo incontrato i due giovani musicisti perché potessero condividere i loro progetti con i lettori di “GBopera”, formulando entrambi le risposte alle nostre sollecitazioni.

Dopo aver tentato di anagrammare i vostri nome e cognome, e aver pensato a occulte connessioni con il repertorio della romanza da camera italiana, molto probabilmente i lettori si chiederanno che cosa significhi il nome del vostro duo: Amakheru.
S: Amakheru è un nome da noi coniato di derivazione egiziana che esprime lo spirito che ci ha condotto fin dall’inizio in questo progetto: ovvero un viaggio nell’archeologia musicale in cui l’uso della voce è strettamente legato alla parola cantata, non solo come mezzo espressivo, ma anche tecnico. “Kheru” indica “voce”; “Maat”, parola di genere femminile che rappresenta l’ordine cosmico, si esprime al maschile con “Maa”, che anagrammato diventa “Ama”, dunque: Amakheru.
F: L’idea della parola Amakheru ci è stata suggerita in primis dal termine egiziano “Kheru” che ha il significato letterale di “voce”. In realtà la connessione importante è riferita all’antica dea Maat, figura emblematica dell’equilibrio e dell’armonia del cosmo. Essendo per me la voce umana uno strumento di armonia e di connessione con il mondo spirituale, ho pensato insieme a Simone che nel nostro nome potesse essere racchiuso questo concetto. Invitiamo i lettori più curiosi, che volessero approfondire le origini del nostro nome e delle ragioni che hanno motivato la nostra scelta, a leggere comunque la presentazione del Duo sul nostro sito internet (www.amakheruduo.com/ita/chi-siamo/).
Com’è nata l’idea di fondare un duo di voce e strumento specificamente dedito al repertorio vocale italiano, e soprattutto come si sono incontrate le vostre esperienze artistiche?
S: Abbiamo riflettuto sul fatto che il repertorio cameristico italiano è sempre stato ingiustamente messo un po’ in disparte rispetto alla liederistica tedesca o al repertorio francese e russo. Abbiamo pensato di dedicare a questo corpus musicale la nostra attenzione ed il nostro studio, poiché crediamo profondamente nel suo valore musicale e riteniamo che ci sia tanto da riscoprire e far apprezzare, anche al grande pubblico e non solo a quello di settore. Le nostre esperienze si sono incontrate poiché nella mente di noi due il progetto già viveva da molto tempo: aspettavamo solo la persona giusta con cui poterlo attuare.
F: Trovo il repertorio vocale da camera di grande interesse artistico e penso che sia fondamentale per un cantante per la formazione della voce e della sua espressività. Grazie allo stretto legame fra testo e musica, non necessariamente orientato ad un’azione drammatica, l’attenzione dell’esecutore è tutta concentrata sulla forza delle parole e sull’intensità poetica della musica. Con Simone ho avuto la possibilità di potermi dedicare completamente a ciò che più mi piaceva, poiché era un desiderio che ci accomunava da tempo. In quanto italiano sento profondamente di dover contribuire alla riscoperta e alla divulgazione di questi tesori del Belcanto.
La serata spontiniana nella Galleria degli Stucchi di Palazzo Pianetti a Jesi, nel settembre 2015, con il ritratto di Spontini lì presente e le sue ultime lettere parigine lette da Gabriele Marchesini tra un brano musicale e l’altro, ha suggerito al pubblico che quando preparate un concerto avete una ben precisa idea del momento performativo, e degli accorgimenti filologici da adottare. Quali sono le principali difficoltà nel riproporre la romanza italiana nelle sale e presso il pubblico di oggi?
S: La difficoltà maggiore che incontro è creare fin dall’inizio l’atmosfera giusta: ovvero il silenzio.
Per silenzio intendo quel giusto raccoglimento e la giusta predisposizione all’ascolto che in questo genere musicale sono fondamentali. Il repertorio vocale da camera è molto delicato, sofisticato, e per essere goduto pienamente, ha bisogno di concentrazione da parte di chi esegue e anche di chi ascolta. Nel mondo di oggi siamo continuamente catturati da continui stimoli acustici, ma per predisporre animo ed orecchio al Belcanto c’è bisogno di fare un bel respiro, chiudere gli occhi ed ascoltare con il cuore.
F: È molto difficile combinare le giuste condizioni acustiche in relazione al tipo di programma che presentiamo. Ogni progetto a cui ci dedichiamo ha delle peculiarità filologiche ed esecutive, e quindi è molto importante per noi far musica in ambienti in cui si possano cogliere con chiarezza tutte le sfumature a cui dedichiamo molto approfondimento. Oltre all’attenzione per gli elementi che concorrono ad una buona esecuzione, è importante sapere che per eseguire comodamente questo repertorio è necessario un diapason adeguato nell’accordatura del pianoforte presente in sala. Penso che il pubblico di oggi sia un po’ disabituato ad un genere di canto, come questo, più intimo e meno plateale, ma dalle nostre esperienze non credo che in generale il canto da camera sia di fatto un’espressione artistica troppo di nicchia.
I lettori di “GBopera” sono autentici melomani, ossia studiosi e appassionati dell’arte vocale, e quindi accoglieranno con interesse la notizia che i vostri modelli interpretativi risalgono alle voci italiane del primo Novecento. Quali ricerche avete svolto e a quali conclusioni siete giunti in merito alla tecnica vocale?
S: Abbiamo ricercato e studiato in ambito teorico e riflettuto sull’ascolto e abbiamo cercato di mettere in pratica le nostre acquisizioni, confrontandole con le mie competenze pregresse e con il riscontro diretto di grandi artisti. Il bagaglio tecnico e stilistico del Belcanto ottocentesco è testimoniato ancora oggi da preziosissime registrazioni dei primi anni del Novecento, che ci lasciano intravedere la meraviglia del canto dell’antica scuola italiana. Il percorso all’interno della tecnica vocale è lungo e complesso, ma ciò che posso dire ora con certezza è che “Belcanto” non indica solo un repertorio, ma anche il modo di usare la voce. Occorre una grande disciplina, non solo nello studio, ma anche nello stile di vita e soprattutto nella gestione delle emozioni.
F: All’inizio del nostro percorso avevamo ben chiara l’idea che la vocalità del Belcanto italiano fosse molto più vicina, rispetto ad oggi, ad un’emissione in cui la parola era chiaramente comprensibile. Questo ideale di canto lo abbiamo riscontrato soprattutto nelle prime incisioni effettuate dai cantanti nei primi anni del XX secolo, molti dei quali di chiara scuola ottocentesca. Partendo da questi riferimenti mi sono accorto che, nel mio percorso di formazione vocale, mancavano alcuni elementi necessari a sostenere le difficoltà di un repertorio da concerto in cui la voce è protagonista della performance, ancor più che nell’Opera. Fortunatamente, incontrando Simone e condividendo pienamente la sua idea di canto, ho potuto riprendere insieme a lui gli studi tecnici con una nuova ottica, in cui la voce si modella sull’articolazione della parola e non solo sull’emissione del suono cantato.
Simone alludeva a registrazioni fonografiche d’inizio Novecento: suggeriteci qualche ascolto significativo.
S: Sul versante delle voci femminili di scuola ottocentesca mi sento di segnalare Celestina Boninsegna, “Ernani involami” da Ernani, oppure “Bel raggio lusinghier” da Semiramide, entrambe incise nel 1910 per la Columbia; le incisioni del 1905-1906 di Regina Pacini, “Ah, vieni al Tempio” da I Puritani oppure le Variazioni di Proch; Maria Barrientos, la scena della pazzia da Lucia di Lammermoor oppure “Qui la voce sua soave” da I Puritani; Giannina Russ, “Casta diva… Ah bello a me ritorna!” da Norma, incisa nel 1906 e “Spunta l’aurora pallida” da Mefistofele; Amelita Galli Curci, “Come per me sereno… Sovra il sen” da La Sonnambula incisa nel 1920 e “Dite alla giovine” da La Traviata del 1927, con Giuseppe de Luca; Toti dal Monte, “Una voce poco fa” da Il Barbiere di Siviglia live del 1930, Variazioni sopra il Carnevale di Venezia incisa nel 1924 e “Caro nome” da Rigoletto; concludo con il contralto Armida Parsi Pettinella in “O mio Fernando” da La Favorita e “Condotta ell’era in ceppi” da Il Trovatore.
F: Tra le registrazioni che mi sento di suggerire ci sono i seguenti titoli: Tito Schipa, “Una furtiva lagrima” da L’Elisir d’Amore del 1929 e “Tornami a dir che m’ami” da Don Pasquale con Amelita Galli Curci, “Amaro sol per te” da Tosca, con Giuseppina Baldassare Tedeschi; Enzo De Muro Lomanto, “Spirto gentil” da La Favorita del 1928. A questi ascolti si possono aggiungere alcune interpretazioni di Giacomo Lauri-Volpi, Beniamino Gigli e, fra i baritoni, Giuseppe De Luca.
Lo scorso 18 ottobre siete stati protagonisti del concerto in occasione del Gala  del Premio “Tiberini” a Pesaro. Le arie da camera che avete proposto andavano da Sarti, Pergolesi, Spontini, Cimarosa, fino a Rossini, Donizetti, Verdi; qual è il fil rouge che vi piace rintracciare quando costruite un programma lirico così marcatamente diacronico? E quale riscontro vi aspettate dal pubblico rispetto ai concerti di carattere più “monografico”, con musiche di un solo autore o di un solo periodo?
S: Molto spesso il filo conduttore dei programmi che abbracciano un ampio spazio temporale è il genere musicale, che può essere la Romanza da camera, l’Aria classica, la Romance e via dicendo. Nei concerti monografici invece, dedicati ad un singolo autore oppure ad uno specifico argomento c’è un’atmosfera tutta particolare in cui si cerca di far rivivere il clima e le suggestioni legate al tema trattato.
F: Fissare una linea diacronica in un programma da concerto per me è molto importante, in quanto si dà l’opportunità alla voce di seguire un naturale sviluppo dovuto alle peculiarità della scrittura musicale dei vari autori eseguiti. Abbiamo però anche eseguito concerti monografici dedicati ad un solo compositore come nel caso di “Note da Parigi” su musiche di Gaspare Spontini, che è stato accolto dal pubblico con grande attenzione ed interesse.
Sapendo dei vostri prossimi impegni i lettori di “GBopera” potranno venire a conoscervi e ascoltarvi dal vivo.
S: Fra i nostri prossimi impegni vi sono alcuni debutti in Europa ed una tournée nei paesi asiatici, oltre alla presenza in alcuni Festival italiani, soprattutto in estate. Pubblicheremo online il nostro futuro calendario artistico.
F: Invitiamo i lettori di a seguire la nostra attività artistica e le novità proposte per il 2016 sul nostro sito e sulle pagine Facebook e Twitter di Amakheru Duo.   Foto Nicola Allegri, Luigi Angelucci