La “Norma” di Epidauro

Tempo fa ho acquistato una serie di articoli originali dell’anno 1960, molti di questi dedicati all’inaugurazione della Scala di Milano il 7 dicembre 1960 con il Poliuto di Donizetti. Ma grande e’ stata la sorpresa di trovare anche un articolo di Alberto Arbasino, scrittore e saggista che sulle pagine di “Settimo Giorno” del 8 agosto 1960 dedica alcune pagine al ritorno di Maria Callas in Grecia per le rappresentazioni di Norma.
Si avvicina l’estate del 1960 e Alberto Arbasino è indeciso tra due strade, entrambe molto invitanti: rimanere a Roma, dove quell’anno si terranno le Olimpiadi, oppure partire per la Grecia. L’esito della scelta è così incerto da restare tale anche dopo che una decisione è stata presa: se infatti sfogliamo le edizioni del ’76 e del ’93 di Fratelli d’Italia, opera ampiamente autobiografica dello scrittore lombardo nonché uno dei grandi libri del ‘900, scopriamo che in un caso i personaggi del romanzo restano a Roma («fuochi artificiali grandiosissimi per tutta la sera, su questi colli della povera Roma vecchi e nuovi; e un ricevimento per quindicimila persone quasi tutti zozzoni al Pincio bloccato dal traffico») mentre nell’altro prendono il traghetto («scioccamente siamo fuggiti a Olimpia prevedendo Roma invasa dai peggiori turisti in gruppo»). Un lento sdoganamento, insomma, ma l’esitazione, con tutta evidenza, è indizio di impulsi contrastanti. Sospetto confermato dalla sensazione che la Grecia sia relativamente estranea agli itinerari arbasiniani, ritenuta non particolarmente attraente sia perché sguarnita di succulenti festival, vernici e «prime», sia perché troppo vicina per essere considerata una meta esotica.
Nel 1960 però un’esca mondana c’era, e di che calibro: Maria Callas avrebbe cantato per la prima volta la Norma in Argolide, ad Epidauro. Chiunque in Europa ne avesse la possibilità «aveva giurato da mesi di non perdersela, questa occasione di assistere a uno dei più grandi sortilegi del mondo moderno: in un remoto angolo della Grecia piena di sassi, una notte di luna appare una maga, e in una cerimonia di stregoneria rotocalchesca commuove i popoli». Una volta arrivati lì, se ne approfitterà per veder recitare Eschilo ed Euripide in greco, visitare il Partenone e Olimpia, navigare verso le bianche isole delle Cicladi e infine approdare ad una Turchia che senza darlo a vedere, quasi senza pathos, farà vacillare ogni convinzione.
Una grande Callas nel teatro di Epidauro
Di Alberto Arbasino
Epidauro, agosto

Dopo la tempesta di Epidauro siamo ormai completamente disposti a credere alla magia, alla negromanzia, al sortilegio, al vaticinio, alla fattura, a tutto; e non per scherzo. Nel paese più arido del mondo, l’Argolide sitibonda, dove per più di metà dell’anno non vien mai giù una goccia d’acqua e si sono sempre avuti anche in questi giorni non meno di quaranta gradi di calore secco, il temporale improvviso all’ora e sul luogo della prima della “norma” – e non uno scroscio di mezz’ora e poi basta, ma proprio una grande pioggia durata ore intere – è stato un avvenimento davvero incredibile, che non si spiega se non facendo l’ipotesi degli sforzi congiunti di tutte le soprano del mondo, dei sovrintendenti delusi, dei coniugi offesi , e magari anche della città di Ostenda (dove, qualche giorno prima, la Divina doveva cantare e all’ultimo momento non cantò, e che per una mezza giornata pareva trasferita qui, col suo mare del Nord grigio, il suo cielo nebbioso, la sua pioggia insistente); e tanto più si è nettamente avuta l’impressione di un intervento del Sovrannaturale, in quando fin dopo mezzogiorno il tempo era stato molto bello, aveva cominciato ad annuvolarsi a metà del pomeriggio, e solo mezz’ora prima dello spettacolo si era messo a diluviare decisamente (alle dieci di sera, naturalmente, c’erano già fuori le stelle…).
Quindi una fila lunghissima di macchine era partita da Atene per tutto il giorno ( il tragitto è di centottanta chilometri, su un fondo stradale abbastanza malandato), ed erano quasi tutte Mercedes piena di gente seminuda per il gran sole, con l’abito appeso alla stampella sopra i finestrini di dietro, e le radio che trasmettevano sempre “Mustafà” o “I ragazzi del Pireo” e le solite canzonette greco-napoletane di Peppino di Capri. La sosta di quasi tutti, dopo la traversata di un interminabile territorio senza ristoranti e senza neanche un grappolo d’uva, è stata al grande albergo Anfitrione di Nauplion, che si apriva proprio lo stesso giorno, con la sua piscina, e che si è presto riempito fino alla pazzia di gente in mutande, gente in camicia, gente in giarrettiere o reggipetto che sudando orribilmente si abbigliava per la serata nelle cabine e nei corridoi, girando con cravatte e guepieres in mano, gridando”chi ha preso il sapone?”, si buttava in piscina, consultava gli oracoli, riallacciava antiche amicizie smarrite per anni, e qualunque cosa chiedesse da mangiare veniva nutrita a forza di anguria e frittate.
Poco più tardi, tutti vestiti, profumati, lisciati, rimessi in moto e arrivati sul luogo del sacrificio, appena lì si assisteva a questo cataclisma storico tipo terremoto di Messina o maremoto di Cantorino. Tanta gente piangeva davvero e si è molto spaventata. In un posto aperto, in mezzo ad una campagna deserta, dove per decine di chilometri non c’è neanche una capanna di caprai ( che, fra l’altro, non conoscono affatto Eschilo a memoria, come pretendono i rozzi turisti, non sanno neanche chi è, e c’è solo uno chalet che funziona da Casa del Passeggero e un minuscolo museo (del resto chiuso, ci poteva stare solo il maestro Serafin, tra le metope e i triglifi), il temporale si abbatteva su quindicimila persone perse e senza riparo, senza neanche un ombrello o un berrettino di plastica; per di più veniva buoi subito e non ci si ritrovava più; e in mezzo agli urli, alla calca, agli spintoni, succedeva di tutto. Trasportate dalla folla, si vedevano galleggiare le stupende donne venute apposta da Parigi o da Londra, con i loro meravigliosi abiti inzuppati e rovinati per sempre, le meches d’oro e d’argento che si scioglievano lungo le rughe della fronte e del collo; gli organizzatori di comitive si sgolavano in tutte le direzioni, con i megafoni; parecchie comparse venivano rapite senza vergogna dietro i cespugli, e i gendarmi erano assaliti dai soliti profittatori di situazioni, maleducatissimi; una signora romana, ridotta in sottoveste da urti talmente violenti che le avevano portato via il suo bolerino a fiori, gridava felice”mi sento tanto Aichè Nanà al Villaggio Mancuso” a enormi giornalisti settentrionali che gemevano disperati: “E noi abbiamo già telefonato gli articoli, che cominciano tutti con l’incanto del cielo stellato e il sublime trionfo di lei!”.
Una comitiva di industriali e architetti di Milano, che aveva rimandato apposta la partenza, facendo molti telegrammi a casa e in ufficio, incominciava la scena dei rinfacci e del “l’avo detto, io!”. Un insigne narratore italo-americano si serrava addosso a una bellissima fanciulla inglese,estremamente snob, minacciando il suicidio se lei non gli avesse concesso affetto; ma lei badava solo a domandare notizie sui remoti matrimoni Visconti-Arrivabene a un folto gruppo di “social climbers” lombardo-romani che le erano capitati carichi di spugne e ciniglie che erano servite sulla spiaggia neanche due ore prima; mentre il grande scrittore veniva congratulato dal padrone del più noto locale perduto di Parigi, che vibrando il baffetto diceva: “Vous avez un air tres beaux cheveaux longs” (cioè: “Che aria da artista ci danno la sciarpa e i capelli lunghi”: ma lui non gradiva affatto).
Le gentildonne musicali di Milano poi, che non mancano mai queste occasioni a nessun costo e che arrivano all’ultimo momento (perciò erano state messe a dormire in una stanza senza finestre), raccontavano di essersi dovute alzare prima delle cinque perché non si respirava più, e avevano passato l’alba a Micene, dormicchiando in tombe di Atridi molto più comode del loro letto d’albergo.
La Callas, che va e viene sempre già truccata e vestita direttamente dal palcoscenico al panfilo “Cristina”, soffriva già li pronta e avrebbe voluto cantare ad ogni costo, ma naturalmente si è dovuto rimandare lo spettacolo. Noi però ci eravamo già vista bene la prova generale, due giorni prima, e quindi siamo in grado di raccontare tutto lo stesso.
Bisogna dir subito che in questa brutta capitale, in questo calore feroce, l’aspettativa per l’apparizione della Divina era stata veramente pazzesca; e al bar del grande albergo descritto con qualche generosità da Peyrefitte le chiacchere e le sciocchezze che correvano i giorni scorsi erano tantissime. Canta? Non canta? Ha ancora la voce? Non l’ha? Che grossa carta gioca! Dunque farà di tutto per cantare ad ogni costo: questa nuova partenza da Epidauro, tutta impostata sulla terra patria e sul nazionalismo alla Onassis, senz’altro deve essere il grande ritorno che prepara nuove incredibili imprese: magari poche interpretazioni all’anno, pochissime, ma straordinarie, e non più come i quegli anni meravigliosi quando faceva sei o sette opere per ogni stagione alla Scala… Però scherzi a parte, erano tutti già d’accordo: anche se lei non facesse mai più niente, ha fatto comunque delle cose talmente indimenticabili, come non se ne vedranno mai più, e basterebbero a renderla la più rande di tutti i tempi.”Basterebbe che comparisse in scena – le dicevano poco tempo fa – e accennasse soltanto, qualunque cosa: la suggestione sarebbe comunque tanto grande, che anche senza voce sarebbe già enorme lo spettacolo”. “Ma ci vuole anche la voce”, pare che abbia risposto lei.
I manifestini neri col suo ritratto in classico peplo e in espressione terribile erano diffusi in molte migliaia, e pendono in tutti gli angoli della città e della campagna, in ogni locale pubblico e in ogni villaggio perduto sotto il sole e sotto le mosche, senza un albero, senza un frutto nelle botteghe, senza una risorsa al mondo se non un mucchio di ghiaia con su scritto “Messene” o “Tirino”, e dove probabilmente tutta la popolazione messa insieme non guadagna in un mese le diecimila lire che si dovevano spendere per un buon posto alla “Norma” di Epidauro. Da tutte le parti d’Europa, però, chi era riuscito a mettere insieme quella somma, e non si lasciava mettere paura da un caldo che può buttare a terrale peggiori bestiacce, aveva giurato da mesi di non perdersela, questa occasione di assistere ad uno dei più grandi sortilegi del mondo moderno: in un remoto angolo della Grecia piena di sassi, una notte appare una maga, che è uno dei personaggi del secolo, e in una cerimonia di stregoneria commuove i popoli.
Era, per di più, la prima volta che in uno dei santuari del dramma greco entra a bandiere spiegate il melodramma italiano; e si sa bene che la “Norma”, come la Medea”, fra tutte le nostre opere è quella che si avvicina di più alla tragedia classica, con quei due personaggi monumentali – le due donne- che provocano solo passioni titaniche e purissime , e però anche un altro personaggio che se non è in mano ad un carattere eroico come il magnifico Del Monaco appare subito per quello che è in realtà: il solito ufficialetto italiano con gli stivali lucidi e la buffetteria anche troppo in ordine, tanta brillantina sui capelli, che sta dietro alle sottane come un galletto di Brancati (e forse non è un caso che anche Bellini, che capisce tutto , sia di Catania…); e quando viene messo di fronte alle conseguenze di tutti i pasticci che ha combinato, si rifugia dietro a smorfie e occhini tipo Alberto Sordi. La straordinaria suggestione dell’opera è che nell’eterno dramma dell’occupazione militare (Pollione potrebbe essere un italiano in Grecia, o un tedesco in Italia) si mescolano il classicismo ambivalente di Leopardi e i trasalimenti romantici più rapiti (si svolge tutta di notte, fra orride selve, terrori superstiziosi, incantesimi mortali…); si sentono echi risorgimentali a ventate, come quando Norma e Adalgisa intonano serrandosi le bracciali “Si fino all’ore estreme” sull’aria del “Daghela avanti un passo” lombardo e quarantottesco, o quando nelle ultime frasi del tenore il “Sublime donna- io t’ho perduta” naturalmente suona come l’ “Illustre Martire” del Fucinato; e si sentono insieme delle levitazioni sonore beethoveniane addirittura grandiose, nel finale. E non importa se certo Epidauro non è mai un posto di incantesimi, con la sua Pizia e i suoi Misteri, ed era in realtà una “ville d’eau” tipo Salsomaggiore o Montecatini, dove Esculapio teneva le sue cliniche, e non essendoci altri divertimenti tutto intorno aveva fatto fare questo teatro di quindicimila posti per intrattenere la clientela di sera: stavolta, l’abbiamo visto tutti, la sua magia doveva esserci; e c’è stata.
Il posto, si sa, è stupendo: e pare anche più bello perché di solito ci si arriva dopo questi centottanta chilometri orribili da Atene, attraversando la regione più secca del mondo, che probabilmente sarà anche stata una volta una specie di Toscana con qualche vite e qualche ulivo, ma adesso è talmente piena di sassi e di polvere da far star male e desiderare di non tornarci mai più. Quindi il bel teatro e i pochi alberghi di Epidauro paiono anche più miracolosi dopo la traversata dell’Argolide, con la sua maledizione degli Atridi e la sua panne di macchina sempre; si comincia a star bene solo quando si rivede il mare e si fa questo bagno a Nauplion, l’unico posto della regione con qualche pianta e qualche cosa da mangiare, sotto il castello veneziano che fa subito venire in mente l'”Otello” e l'”Esultate”, e come sarebbe bello rappresentare l’opera là in alto, e che grande intuizione avevano Shakespeare e Verdi, che non sono mai stati qui eppure sapevano tutto. Da Nauplion in poi si sta proprio bene. Sono trenta chilometri, e finalmente si arriva. E’ l’ora del sacrificio, e si va dentro, passando fra centinai a di gendarmi di montagna impazziti e le gambe delle comparse che sono altissime. L’emiciclo è messo a posto in maniera cretese o micenaica, nobile, con i suoi grandi massi in fondo, giustamente e in mezzo un obelisco di via della Conciliazione a Roma, col suo scudo di Irminsul attaccato d’avanti. Naturalmente è l’ora del crepuscolo, col suo cielo che trascolora e aiuta tantissimo la suggestione, come in piazza del Duomo a Spoleto quando si fa la Messa di chiusura del Festival.
Serafin, vecchissimo e vispissimo, dirige con piccoli gesti, e alla prova generale diceva delle massime indimenticabili all’orchestra: “Aspettare un po’ non fa mai male a nessuno” “Quando c’è troppo buoi sulla scena, il pubblico si addormenta”,”mai dimenticare che voi cantate per farvi battere le mani”, “Bisogna studiare la musica, e bisogna anche volerle bene”, e , a questo punto bacia due o tre volte il libretto della “Norma”, mentre gli orchestrali, a ogni frase gli fanno un minuscolo applauso. Il regista Minotis, bravo attore di prosa, con la sua camicia rossa americana, saltella in alto sui cuscini dell’anfiteatro. Onassis, piccolissimo e vestito di bianco, va in giro con le sue scarpette bianche e nere con la mascherina, il suo ricciolone, il suo occhiale nero. C’è pieno di signore greche sofisticate con la camicia nera, il calzone bianco aderente e il capello decolorato, di belle vecchie in foulard rosa e tacco di sughero, di anziani ex-tenori greci e bulgari che cantarono con Toscanini a Buenos Aires o a Bucarest con la Galli Curci, in farfallino celeste, gabardine oliva, scarpa di tela, bastone con pomo d’avorio, e il loro occhialino al collo. Entra in fine un vecchio cieco con le sue due donne che lo sostengono. Poi si accendono delle faci rosse, comincia lenta e smorta la sinfonia, e sembra subito la Banda dell’Aeronautica al Pincio, il Grande Italia in Galleria a Milano, il Caffè Berardo in Galleria a Roma.
Forse facevano meglio a mettere dieci suonatori in più in orchestra e a risparmiare qualche decina di comparse in palcoscenico: perché appena cominciano ad entrare, si vede subito l’ambizione di fare l’Arena di Verona in poco spazio; e del resto, ogni gruppo che vien dentro, si vede arriva da un’opera diversa. Qualcuno, anzi, da qualche film. Ci sono troiani dell’Iliade e gladiatori del Quo Vadis, marinai fenici reziari del Circo, guerrieri egizi dell’Aida; il gruppo della Figlia di Iorio, con le sue prefiche ululanti in scialle nero, e quello della Gioconda, che fa anche un po’ Fornaretto di Venezia, perche Oroveso e i suoi sono puro Tintoretto, i dogi cattivi della Sala del Maggior Consiglio , con brbe finte, mantelli bizantini, e in testa corone da Re Magi, Re del Lohengrin, Re delle carte da gioco. Passano scontrandosi sullo sfondo, come a Modena e a Reggio, gli armigeri del Trovatore, con le loro alabarde, e le incrociano come per non lasciar venir fuori Azucena, che sarà lì dietro. E anche la sua Carmelitana, oramai, nel teatro lirico c’è dappertutto.
Sarebbe dunque una baracconata tipo Arena di Verona trent’anni fa: in palcoscenico suonano accenti bolognesi e toscani, e il tenore è puro settecento; ma poi entra lei, grande, bella, superba, regina, in rosa; e allora si è ben contenti di lasciarsi ripigliare subito dal vecchio incanto. Il “Casta Diva”, specialmente per lei, viene sempre troppo presto,e qui scenicamente è impostato come una rustica Domenica delle Palme. Lascia ancora un po’ sospesi, ma in fondo non è mai stato uno dei suoi grandi momenti. La voce pare sottile, un po’ incerta, un po’ diversa,e lei forse meno sicura di una volta: si sa bene d’altra parte, che i suoi primi atti, quando l’organo non si è ancora avviato, hanno spesso avuto il oro momenti dubbi, e sono stati sempre meno soddisfacenti di tutto il resto dell’opera. Infatti, come è sempre capitato, se trema un po’all’inizio, fa presto a migliorare. E allora lei tira fuori il suo leggendario coraggio, nell’affrontare difficoltà pazzesche e sopracuti che in fondo potrebbe evitare benissimo, pur di vince e clamorosamente. E se ogni tanto, è vero, oltre che sottile la voce, pare un po’ roca, si vela appena, o sembra che balli un po’, non importa niente.
Adalgisa ha una vociona bella, ma è un po’ rozza. E’ una greca esordiente, molto giovane con una grossa faccia, truccata da contadina. E la scena tra le due donne è sempre un momento straordinario; ma quello che fa la Callas qui è una delle cose più alte dell’opera. Da principio lei è cosi sicura, tranquilla, sorridente, un po’ scettica, come chi ascolta le confidenze della cameriera o di una poveretta. Il suo sorriso durante tutta la scena fa perdere la testa: e lo stesso di quelle statue classiche ironiche… E la rivelazione diventa naturalmente un momento immenso, che lei butta su grandi passi da leonessa ricattatrice davanti agli altri due che non esistono più, come due stracci.
Passi, occhi, gesti, mani: da questo momento si ritrova la grande Maria delle grandi serate alla Scala; e allora è brava come prima e anzi più di prima, non è mai stata così grande. Il resto dello spettacolo. Si diceva, è a un livello abbastanza provinciale. La regia è banale, e per di più con parecchi errori: i movimenti delle masse in palcoscenico sono quasi sempre sbagliati, paiono ordinati da un sordo, perché non tengono conto di ciò che sta facendo l’orchestra nello stesso momento. E anche i cori sono disuguali: fanno bene il grande coro all’inizio dell’ultimo atto, ma il loro “guerra guerra” invece di suonare scatenato e selvaggio pare piuttosto un “zitti zitti piano paiano”.
Gli altri cantanti sono un po’ guitti. Adalgisa volenterosa, e basta. Il tenore, un disastro da vedere, non proprio male di voce, ma con un portamento così assurdo – manine sui fianchi tipo “Baruffe Chiozzotte”, occhi roteanti in maniera insensata, sbuffar d’impazienza e tamburellar di nocche come aspettando il treno in ritardo – che ne viene falsata del tutto l’impostazione dell’opera. Come ognuno sa, la grandiosità del rifiuto e del sacrificio di Norma si basa sul presupposto di trovarsi di fronte a un antagonista che almeno verso la fine deve tenter di levarsi a una pari dimensione tragica. Altrimenti, con uno che apparentemente al momento più tremendo, quello del rogo, le sta cantando “Funesta ca lucive” all’orecchio, come se si fosse tutti al ristorante col nostro prosciutto e melone davanti, non sta più in piedi niente. E dopo tutto, il rogo stesso, qui era una faccenda ben modesta: quattro fascine, due paletti, e basta.
Però naturalmente, c’è il teatro di Epidauro; e soprattutto c’è lei. Nel terzo atto dove riappare il rosso-Medea, tutte le ombre sono scomparse, e lei è in ogni momento grandissima. I cedimenti di coscienza del personaggio sono resi con lo strazio più maestoso; nel secondo duetto con Adalgisa ha pudori e tenerezze da adolescente, delicatissimi. Nel finale, poi, trova accenti di una fierezza da spaccare il cuore. Il crescendo del furore è di una terribilità indimenticabile. La cosa più grande del mondo è quel suo pianto per l’amar disperazione di morire sola, incompresa, non amata: è all’altezza, come momento, solo dell’addio di Melibea a suo padre, dall’alto della torre, alla fine della “Celestina”; e lei, definitivamente, è più brava di prima.