La parola sacra secondo Brahms: “Ein deutsches Requiem” alla RAI di Torino

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2012-2013
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
RIAS Kammerchor Berlin
Maestro del Coro Hans-Christoph Rademann
Direttore Juraj Valčuha
Soprano Julia Kleiter
Baritono James Rutherford 
Johannes Brahms: “Ein deutsches Requiem” (Un Requiem tedesco) op. 45 per soli, coro e orchestra, su testi biblici
Torino, 1 novembre 2012

In determinate circostanze la musica è pensiero religioso autonomo, puro, libero dai vincoli della liturgia. Poiché è di per sé una forma di riflessione religiosa, la musica induce anche il laico e l’agnostico a riflettere sull’intento spirituale dell’arte e sul significato profondo dell’esistenza dell’uomo. A tale classe altissima di composizioni appartiene Ein deutsches Requiem di Johannes Brahms, nato in una dimensione cameristica come forma di personale preghiera, e poi ampliatosi fino a raggiungere l’attuale, imponente struttura.
La sera del 31 ottobre, al Teatro Nuovo “Giovanni da Udine”, appunto in Udine, l’OSN RAI ha presentato il Requiem Tedesco di Brahms, per riprenderlo il giorno dopo a Torino presso la sua sede abituale, e con la stessa compagine sotto la guida di Juraj Valčuha; la concomitanza con le festività che celebrano nel mondo cattolico i santi e i defunti è arricchita dalla base letteraria tutta luterana del Requiem, dal momento che Brahms ha scelto brevi passaggi dall’Antico e dal Nuovo Testamento (in traduzione tedesca, come da titolo), ispiratori della composizione musicale.
Sin dal primo brano, dei sette in cui l’opera si articola, il direttore ha presentato una lettura particolarmente intensa, colma di emozione e di intimo raccoglimento, fondata su di un grande lavoro di resa delle proporzioni, specie tra archi e ottoni: non accade mai che l’una delle due famiglie sovrasti il suono dell’altra, e allo stesso tempo l’ascoltatore percepisce nitidamente le sonorità di ciascun strumento. Al termine del primo brano intervengono le due arpe (un’anticipazione della scelta strumentale con cui il Requiem si conclude), cui il direttore conferisce un rilievo netto, di grande chiarezza espositiva e di luminoso colore.
Appena un’ombra cupa di corni e di tromboni si staglia invece sulla frase che apre il secondo movimento, forse il più suggestivo dell’intera partitura; e quell’ombra accompagna il graduale crescendo che caratterizza la sezione, anche grazie all’inesorabile scansione ritmica dei timpani (bravissimo Stefano Cantarelli, come sempre impeccabile). Valčuha ha realizzato quella «straordinaria calma prosodica» di cui parla Giorgio Pestelli a proposito di più composizioni per coro e orchestra (nel bellissimo libro Canti del destino. Studi su Brahms, Torino 2000). Del resto, il direttore disponeva di un complesso di voci di altissimo livello e di tradizione tutta germanica: quello della RIAS (Radio in the American Sector) di Berlino. Nel secondo movimento il gruppo delle voci maschili è capace di enunciare con leggerezza profetica la frase di avvio (tratta dalla Prima Lettera di Pietro); sembrano cantarla con un solo, interminabile fiato, anche se è lunghissima e terribile (Denn alles Fleisch ist wie Gras und alle Herrlichkeit des Menschen wie des Grases Blumen, “Poiché la carne è come l’erba e ogni gloria umana come i fiori del campo”). L’effetto complessivo è semplicemente sublime, in quanto alla delicatezza delle voci si abbina il ritmo di marcia prescritto da Brahms; Valčuha – e non solo in questo brano – stacca tempi particolarmente felici e convincenti, senza mai cedere alla tentazione di accelerare, di imprimere una velocità che non si adatterebbe alla pagina, ma anche senza compiacersi troppo di un’eccessiva lentezza. E questo, in particolare, è un grande merito del giovane direttore: aver compreso che il Requiem di Brahms viva di un continuo respiro naturale, e che la sua cifra non sia la solennità (da raggiungere appunto con un incedere lento e ieratico) bensì la leggerezza, fatta di suono nitido ma pacato, e di voce sussurrata.
Il terzo movimento si apre con il baritono che enuncia una preghiera dei Salmi (“Insegnami, Signore, che io devo avere una fine”); la voce di James Rutherford è sicura, dotata delle giuste risonanze, con un timbro chiaro che si adatta molto bene al ruolo, e per di più all’impostazione del direttore; talvolta il cantante rivela un vibrato largo che si accentua nella zona acuta (e sempre nella parte alta della tessitura la voce si stimbra un poco), ma è certamente molto a suo agio nella parte (tornerà a duettare con il coro nel sesto movimento, per rendere la commozione in vista del Giorno del Giudizio). La frase fugata che conclude il brano (“Le anime dei giusti sono in mano del Signore”) ripete quel capolavoro di armonia tra le sezioni dell’orchestra e le voci del coro che in più momenti della serata ha incantato l’ascoltatore: tutto si integra in un ordine perfetto, dal rullare di fondo dei timpani alle voci tenorili e sopranili del coro agli squilli degli ottoni alle finezze degli archi.
Quasi una cerniera tra le due metà dell’opera, il movimento centrale esordisce con un sussurro del coro, e prosegue con un paesaggio sonoro non ancora udito, in cui a primeggiare sono i legni e poi i corni; Valčuha è riuscito, anche a questo punto, a rendere molto bene una serie di corrispondenze, di dialoghi brevi e vivissimi, tra l’oboe e il coro, tra il clarinetto e le voci, tra i corni e gli archi. Pur nella sua brevità il quarto numero resta impresso nella mente dell’ascoltatore per la capacità evocativa: davvero sono rappresentati in musica le dimore, i vestiboli del Signore, la casa di gioia eterna, tutti evocati dal Salmo 84.
Il quinto movimento è l’unico in cui interviene il soprano; Brahms ha certamente voluto differenziare dal coro una voce che fosse di consolazione (“Voi siete ora nella tristezza; ma io vi vedrò di nuovo”, secondo le parole di Giovanni), e ha scelto il registro femminile più alto per la parte di solista. Julia Kleiter assolve perfettamente a questa delicata funzione: ha voce calda e imponente, note acute sicure, emissione molto ferma e sostenuta; tratti indispensabili per dipanare le volute di frasi allungate a dismisura dall’intonazione di Brahms. E il versetto finale della sezione, tratto da Isaia, fa intendere ancora meglio tale dilatazione del tempo nell’incanto della voce femminile: “Io vi consolerò come una madre consola suo figlio”.
Il Requiem si conclude con un testo brevissimo alla base del settimo movimento: appena un versetto dell’Apocalisse, a ricordo delle opere che seguono i morti nel nome del Signore. La qualità musicale è finalizzata appunto ad accompagnare l’ascoltatore in un paradiso di pace e di serenità, appena venato da qualche nota dei corni, più scura del resto, in cui acquisiscono ruolo sempre più importante il flauto (Dante Milozzi) e il primo violino (Alessandro Milani). A coronamento della sua direzione, Valčuha esalta in modo straordinario il dialogo tra orchestra e coro, che insieme smorzano le rispettive sonorità oppure le innalzano di pari livello, fino agli ultimi accordi in cui tornano protagoniste le due arpe, come nel finale del primo movimento. L’opera si spegne in un’aura sublime e rarefatta anche grazie alla loro ultima frase ascendente, su un pedale di archi e di fiati. Al termine dell’ultimo accordo seguono quegli interminabili secondi di silenzio, che nessuno ha il coraggio di infrangere: è quello spazio-tempo sonoro in cui la musica si prolunga, vivendo non più della vibrazione di corde o del fiato di strumenti o dei colpi di percussioni, ma della sostanza imponderabile che è l’emozione di tutti i presenti. L’incanto non può durare a lungo, e qualcuno inizia giustamente ad applaudire; e allora le acclamazioni per il direttore, i cantanti, il coro, l’orchestra si protraggono con tante chiamate alla ribalta e grida di entusiasmo. D’altra parte, è l’unica modalità immediata per ringraziare gli artisti di una meraviglia durata 75 minuti, eppure trascorsa rapida e leggerissima.