“La traviata” al Teatro Goldoni di Livorno

Teatro Carlo Goldoni – Stagione Lirica 2015/2016
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry  SILVIA PANTANI
Flora Bervoix  EMANUELA GRASSI
Annina  SELENE FIASCHI
Alfredo Gérmont  ANGELO FIORE
Giorgio Gérmont  RA HYUN KYU
Gastone  FEDERICO BULLETTI
Il Barone Douphol  ALESSANDRO CALAMAI
Il Marchese d’Obigny  ALESSANDRO MARTINELLO
Il dottor Grenvil  VEIO TORCIGLIANI
Giuseppe  FEDERICO BULLETTI
Un domestico  ANTONIO CANDIA
Il commissario  ALESSANDRO MARTINELLO
Un domestico  ANDREA MARMUGI
Danzatori  DILETTA CENTONZE, IVAN CIGNETTI
Orchestra della Toscana
Coro della Toscana
Direttore Carlomoreno Volpini
Maestro del coro  Maurizio Preziosi
Regia  Renato Bonajuto
Scene  Sergio Seghettini
Costumi  Matteo Zambito
Coreografia  Eva Kosa
Luci  Franco Micieli
Nuovo allestimento del Teatro Goldoni
Progetto drammaturgico e produzione Teatro Goldoni
Livorno, 7 novembre 2015

La traviata del mistero”.  Con tale epiteto era nota fra i melomani toscani fino a qualche giorno questa produzione del capolavoro verdiano scelto come titolo inaugurale della stagione 2015/16 del Teatro Goldoni di Livorno, dal momento che soltanto pochissimi giorni prima del debutto la direzione artistica sì è decisa a rivelare i nomi della compagnia di canto.  il sito del teatro riportava soltanto quelli del direttore e del regista, e numerose e giustificate erano le lamentele di coloro che non ritenevano giusto dover comprare biglietti o abbonamenti senza conoscere, diciamolo pure, chi sarebbe stata la protagonista, la cui identità era tenuta segreta come si trattasse di un affare di stato.  Finalmente qualche giorno fa l’informazione è stata declassificata, e si è capito che il Teatro, intenzionato a dare una grande opportunità ad un giovane soprano di area livornese, voleva esser completamente sicuro che questa cantante fosse del tutto all’altezza di un ruolo fra i più difficili ed iconici dell’intero repertorio operistico.  È quindi con enorme piacere e sollievo che riferisco che tanta fiducia è stata alla fin fine ben riposta.  Il soprano in questione si chiama Silvia Pantani, la quale, se non può dirsi possedere un timbro particolarmente seducente o di quelli che si riconoscono all’istante, è dotata però di una tecnica abbastanza raffinata per rendere giustizia a quello che Verdi le richiede.  Ha offerto una Violetta incantevolmente fragile nel primo atto: i passi di agilità erano più che competenti, ed è stata in grado di esprimere l’avventatezza, se non proprio la neurosi, insita in “Sempre libera”.  Il registro acuto è piuttosto sicuro; l’unica cosa insolita è che mentre i do sono stati lanciati con grande facilità e disinvoltura, i re bemolle, quantunque accettabili, erano cauti e guardinghi. Dato che, nonostante a me personalmente non interessi affatto, tutti sembrano sempre voler sapere se il fatidico mi bemolle ci sia stato o no, dico subito che la Pantani ha saggiamente deciso di non eseguirlo.  La voce del soprano non aveva se non parzialmente il corpo ed il calore per il duetto con Gérmont, ma lo ha interpretato con grande eloquenza.  Un esempio della sua abilità di recitare con la voce si è avuto in “Dite all giovane”, fraseggiato in maniera molto commovente, con dignitoso dolore.  In “Amami, Alfredo”, nonostante cercasse visibilmente di ricorrere a tutta l’energia di cui disponeva, ha dovuto lottare con un direttore che, generalmente molto discreto e attento a non coprire i cantanti, ha invece in quel punto fatto la voce grossa.  Nell’ultimo atto ha mostrato grande eleganza, esprimendo infinita disperazione senza indulgere in volgarità e neanche in eccessivo realismo, ma questo, come vedremo, è dovuto anche a una deliberata decisione registica.  “Addio del passato”, eseguito per fortuna integralmente, è stato il vertice della sua prestazione: il soprano ha cesellato l’aria con un abile gioco di chiaroscuri e delicati pianissimi,con una bella messa di voce sull’ultimo la naturale di “finì”.  È la seconda volta in pochi mesi che mi è concesso di ascoltare Angelo Fiore nel ruolo di Alfredo, e dato che il mio giudizio non è cambiato, non posso che ripetere verbatim quanto scritto in quell’occasione: è un tenore tecnicamente assai scaltro, il cui maggior pregio – e che pregio! – è rappresentato da un immascheramento completo del suono grazie al quale riesce a produrre un registro acuto ricchissimo di armonici; come molti tenori dalle simili caratteristiche, il timbro, benché gradevole, non è molto caldo, ma il canto sul fiato gli consente di eseguire una vasta gamma di dinamiche, e quindi riesce comunque ad esprimere il lato sognatore, romantico ed amoroso di Alfredo grazie all’uso esperto delle mezzevoci e dei pianissimi mai falsettanti. Non è frequente di questi tempi sentire “Un dì felice eterea”, per non parlare di “Parigi o cara”, eseguiti a fior di labbra, galleggianti, senza segno alcuno di frizione di gola.  Buona, pur dentro i limiti di una rispettabile routine, la prova del baritono Ra Hyun Kyu, che raffigura un Gérmont tradizionalmente inamidato, inflessibile, a volte anche un pochino più sprezzante del solito nei confronti di Violetta : la voce non colpisce per particolari preziosità timbriche, ma è usata con correttezza e competenza tecnica, e il pubblico lo ha premiato con uno degli applausi più lunghi e calorosi dopo “Di Provenza”.  Di buon livello il comprimariato formato per lo più da artisti molto attivi sui palcoscenici toscani: si facevano ammirare la lunga esperienza di Alessandro Calamai (Douphol) e Veio Torcigliani (Grenvil). la verve scenica di Emanuela Grassi (Flora) e di Selene Fiaschi (Annina), l’insolita scapestratezza del Marchese d’Obigny di Alessandro Martinello (interprete anche del ruolo del commissario), mentre il debuttante Federico Bulletti si è fatto notare per il bel timbro nel doppio ruolo di Gastone e Giuseppe.  Completavano il cast più che onorabilmente Antonio Candia e Andrea Marmugi (i due domestici), ma a rubare la scena è stato un adorabilissimo cane maltese che ha dato prova di grande disciplina nella prima scena del secondo atto, seguendo ovunque Annina senza concedersi distrazione alcuna.  Davvero ottimo il Coro della Toscana diretto per la prima volta da quel grande musicista che è Maurizio Preziosi, così come la sempre affidabilissima Orchestra della Toscana.   La lettura del direttore Carlomoreno Volpini tendeva fortunatamente ad uscire dai binari di una comoda routine con alcune decisioni forse un pochino controverse ma che non possono lasciare indifferenti nella loro coerenza e originalità.  Suoni suggestivamente scarni, uniti a tempi relativamente veloci e ad uno scarso interesse a sottolineare colori orchestrali sgargianti hanno dato una vita – in un espressionismo quasi in bianco e nero – ad un quadro di intensa tragedia, pervaso da una sorta di tetro fatalismo.  La sua Traviata riproduceva una società che, lungi dal divertirsi, piomba in vuoto opprimente, una società senza speranza alcuna di redimersi; nel Preludio, gli svolazzi dei violini e il borbottare dei fiati, ritratto musicale della società pettegola e giudicante, quasi soffocavano il motivo dominante della passione (intesa anche nel senso etimologico del termine) di Violetta; l’incessante martellare dei violini durante la festa di Flora si trasformava in una vera e propria danza macabra.  Ecco perché, nonostante il dichiarato intento di volersi rifare alla lettura toscaniniana, assente era la febbricitante, nevrotica smania di vita che arde in così tante Violette: la festa del primo atto era caratterizzata solo da fragilità e debolezza, sopraffatta da un’implacabile inesorabilità.  Questa visione pareva condivisa dalla regia di Renato Bonajuto il quale, in collaborazione con lo scenografo Sergio Seghettini, ha collocato la vicenda negli anni ’60 del secolo scorso; il primo atto ha luogo in una grande sala gelidamente lussuosa, dai pavimenti di marmo screziato, con ampie porte che si aprono su una terrazza affacciantesi sul Teatro Goldoni di Livorno; Silvia Pantani, ragazza molto attraente, dalla bella chioma rosso tiziano, indossa con grande stile e disinvoltura gli aderenti e cortissimi abiti d’epoca disegnati da Matteo Zambito.  Nel secondo atto ci troviamo davanti a una piscina di una villa signorile, presumibilmente di Montenero o Antignano.  L’abitazione di Flora ci porta in un ambiente più volgare, sempre in linea con le feste, o meglio, i festini “felliniani”, con tanto di semi-spogliarelli durante la danza dei matador, e se si avesse voluto o potuto osare di più, sarebbe stato interessante portare in scena, per esempio, il famigerato episodio di Aiché Nanà, nonostante questo risalisse a una decina d’anni prima. Cambio di rotta a 360 gradi per il terzo atto, in cui scompare ogni parvenza di realismo:  Violetta, adagiata su un letto in una stanza che non riporta a nessun periodo storico particolare, rimane completamente sola: infatti gli altri personaggi, vestiti di scuro, vere e proprie presenze spettrali che si muovono in modo ieratico, lento, quasi robotico, non stringono contatto con la protagonista e si mantengono al di fuori del cono di luce soffusa che avvolge soltanto lei.  Violetta muore da sola.  In genere mi infurio quando vengono tagliati gli interventi degli altri personaggio dopo la sua morte (“È spenta!”, “O rio/mio dolor!”), ma in questo caso, pur rimanendo convinto che niente che abbia scritto il compositore debba esser alterato, devo mio malgrado ammettere che il silenzio degli altri, che stavano già lentamente abbandonando il palcoscenico, aveva una sua precisa ragione teatrale. È quindi un allestimento (fra l’altro, come sottolineato dal nuovo direttore generale, Marco Leone, prodotto esclusivamente con le forze del Teatro Goldoni) di significante impatto, fresco, niente affatto scontato, che riesce ad offrire – e non è poco – spunti nuovi di riflessione su una storia raccontata milioni di volte: un allestimento che il numerosissimo pubblico ha accolto con grande entusiasmo, esteso a cantanti e direttore d’orchestra. Foto Augusto Bizzi