“La Traviata” inaugura la stagione del Teatro Coccia di Novara

Dir. A. Battistoni, Regia D. Abbado, Violetta A. Florian

Novara, Teatro Coccia – Stagione lirica 2014-2015
“LA TRAVIATA”
Dramma lirico in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry AURELIA FLORIAN
Alfredo Germont VINCENZO COSTANZO
Giorgio Germont SIMONE PIAZZOLA
Flora Bervoix DANIELA INNAMORATI
Annina MARTA CALCATERRA
Gastone STEFANO TANZILLO
Il barone Douphol DAVIDE PELISSERO
Il marchese D’Obigny GIAMPIERO CICINO
Il dottor Grenvil RADU PINTILIE
Giuseppe PAOLO TOSCANI
Un domestico di Flora FEDERICO DE ANTONI
Un commissionario MAURO PORZIO
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Coro Schola Cantorum San Gregorio Magno
Direttore Andrea Battistoni
Maestro del coro Mauro Rolfi
Regia Daniele Abbado
Regista collaboratore Boris Stetka
Scene, costumi, luci Angelo Linzalata
Coreografie Simona Bucci
Nuovo allestimento – Produzione Fondazione Teatro Coccia
Novara, 10 ottobre 2014 – Serata inaugurale

Gilda dalla Rizza, Lina Pagliughi, Gina Cigna, Margherita Carosio, Virginia Zeani, Anna Moffo, Lorenza Canepa, Fernanda Costa. Sono soltanto alcuni dei soprani italiani che nel corso del Novecento hanno affrontato il ruolo di Violetta sul palcoscenico del Teatro Coccia di Novara, nella cui storia La Traviata è stato il titolo più rappresentato in assoluto. Ora mancava dal 2010-2011, e anche per questo la direzione del teatro ha deciso di inaugurare l’attuale stagione con una nuova produzione. Orchestra, direttore, regista hanno nomi di grande importanza nella vita musicale italiana e internazionale; il personaggio protagonista è invece affidato a una giovane e valente interprete, come il resto della compagnia vocale. L’esito complessivo della prima serata è decisamente buono, unanimemente apprezzato dal pubblico che gremiva il Coccia.
Sul piano musicale (che è quello che, nel complesso della produzione, più interessa) va subito detto che l’elemento di punta è l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI: perfettamente a suo agio con il repertorio verdiano, inonda la piccola sala del Coccia di un suono perfettamente amalgamato, appena sovrastato dal timbro brunito dei suoi archi. Più complesso, invece, il discorso sul lavoro del direttore, il giovanissimo Andrea Battistoni, fautore di una lettura debordante, quando non chiassosa, della Traviata. Sin dal preludio, se sfugge alla tentazione della rapidità, incappa in una pesantezza  sonora che si accentua nel corso dei tre atti. Pur con il proposito di alternare scelte agogiche differenziate, e di rappresentare così un dramma che in effetti corre verso il precipizio di tutto, accade che Battistoni crei momenti di disagio  tra orchestra e coro (come nel finale del brindisi del I atto, a causa di un’accelerazione davvero improvvisa). Ma la direzione non convince soprattutto per colpa di un’impostazione di fondo obsoleta: isolare i numeri solistici in un clima lirico e fare esplodere l’orchestra (in ritmo e in volume) negli assieme. Il coro che precede il finale I, a questo riguardo, è uno sproposito di velocità e di percussioni impazzite. Il lungo duetto del II atto tra Violetta e Germont risulta invece monotono, e invano Battistoni cerca di rivitalizzarlo con grevi sottolineature dei violoncelli (non si tratta  di un pezzo della Scuola di Vienna!), o con un’aggressività veristica che oggi riesce difficilmente plausibile. In altre parole, è inutile che il direttore voglia rappresentare a tutti i costi in musica il tanto agognato binomio “sesso & violenza” quando neppure il regista lo affronta; secondo Battistoni i personaggi di Traviata non sono travolti dalla disperazione, quanto piuttosto da una rabbia istintuale che li oppone l’uno contro l’altro (neppure l’invocazione «Amami Alfredo» è risparmiata, perché un torrente di archi e di timpani ne sommerge tutto il páthos). Il coro maschile nel II atto va allo sbando, sempre a causa del fracasso orchestrale, mentre il concertato del finale II rattrappisce l’angoscia collettiva in una girandola forsennata (in cui gli interpreti principali finiscono per cantare con voce troppo leggera, in particolare il tenore). A furia di esasperare la drammaticità di ogni snodo scenico, La Traviata di Battistoni finisce per ridursi a galleria di strumentazioni eccessive e grottesche (quando la partitura di Verdi meriterebbe una lettura più sfumata ed elegiaca).
Aurelia Florian è un soprano di origine romene, che ha recentemente debuttato nella parte di Violetta e che certamente controlla molto bene il personaggio. All’inizio l’emissione vocale è un po’ faticosa, il respiro affannato, nei recitativi indulge troppo al parlato, e perciò non si sente bene (anche perché Battistoni non attenua mai le sonorità orchestrali). Alla fine del I atto l’ascoltatore non è del tutto soddisfatto, accorgendosi che l’espressività dell’interprete lotta contro un’intonazione discontinua e una dizione poco chiara. Gli acuti graffianti (compreso il mi bemolle che chiude il I atto), la spigliatezza e la disinvoltura in scena fanno della Florian una Violetta aggressiva, ma tutto sommato fragile. Forse per questo, la scena più convincente della sua prestazione è quella del III atto, con l’«Addio, del passato»: la voce è ora trasparente, l’emissione corretta, il fraseggio espressivo … in articulo mortis.
Vincenzo Costanzo (nato nel 1991) ha debuttato come Alfredo soltanto nel 2013, al Covent Garden di Londra; ha voce bella, da tenore lirico-leggero, con timbro gradevole, mezze voci ben costruite; è un vero peccato, dunque, che non riesca a coprire bene gli acuti, che l’intonazione non sia perfetta, e che la forzatura vocale determini qualche inflessione di gola. Non c’è da meravigliarsi che in «De’ miei bollenti spiriti» sia in affanno (anche perché il tempo rapidissimo staccato da Battistoni porrebbe in difficoltà chiunque); e nella cabaletta evita prudentemente qualsiasi puntatura finale. Il fenomeno delle micro-stonazioni si accentua fino a toccare il culmine in «Parigi, o cara» del III atto.
Anche il baritono Simone Piazzola è un giovane artista, che ha debuttato nel 2010; ha voce chiara, dotata di non molti armonici, ma di impostazione molto corretta: «Di Provenza il mare, il suol» è la pagina solistica meglio riuscita della serata (non a caso è anche la più a lungo applaudita). Nei numeri d’insieme l’esito è discontinuo: alla fine del duetto del I atto soprano e tenore accennano appena a una cadenza, ma sono entrambi privi di controllo. All’estremo opposto il quintetto finale del III atto, grazie anche alle voci di Marta Calcaterra e di Radu Pintilie (pregevoli nei ruoli di Annina e del Dottor Grenvil) chiude l’opera molto bene.
La correttezza è la cifra distintiva di tutti i comprimari della compagnia, così come del coro Schola Cantorum San Gregorio Magno preparato da Mauro Rolfi.
Arduo impostare un impianto scenico nuovo e convincente per Traviata, soprattutto se la regia non vuole abbandonare l’ambientazione borghese cui questo dramma sembra essere condannato; Daniele Abbado costruisce uno spazio stilizzato, un piano inclinato chiuso su tre lati, privo di oggetti scenici (nel I atto qualche bicchiere per terra; nel III atto non c’è neppure una sedia né il famoso letto della gemebonda), ma almeno illuminato in modo tale da valorizzare il più possibile i personaggi in azione e anche i sobri (a volte sciatti) costumi di Angelo Linzalata (il cui pregio maggiore è aver elaborato bellissime luci fredde); Violetta è praticamente per tutta l’opera abbigliata di una semplice sottoveste bianca, Alfredo veste un abito attillato con la camicia aperta molto “fashion victim”, Germont un completo grigio da commesso viaggiatore.
Abbado ha predisposto alcune simmetrie delle presenze sulla scena: come Alfredo assiste alla romanza di Violetta che chiude il I atto, così Violetta si trova sul palco all’inizio del II; anche nei momenti di solitudine della protagonista, nel fondo si schierano altri personaggi, severi e immobili osservatori della vicenda. Ma tale spietata visibilità del dolore non è sufficiente per presentare una lettura registica compiuta. Il procedere scenico risulta quindi abbastanza prevedibile nella sua convenzionalità, dal momento che neppure la gestualità degli interpreti è impostata in modo significativo (non basta che Germont tratti suo figlio a strattoni e spintoni, peraltro in contrasto con il garbo così borghese del canto di Piazzola).
Simona Bucci è responsabile delle sobrie coreografie della seconda parte del II atto: ancora una volta è mancata l’occasione di rappresentare la vicenda suggerita dal libretto, ma questo sarebbe il problema minore; le zingarelle assomigliano più alle streghe del Macbeth, mentre i toreri con maschera di diavoletto ispirano tenerezza (taccio invece delle maschere suine di alcuni invitati a casa di Flora …). Una piccola idea, decisamente buona, è quella di collegare la drammaturgia di II e III atto: il coro resta in scena, al buio, sulle note del preludio, mentre Violetta è accasciata per terra; indietreggiando poco per volta, e poi uscendo, la massa denuncia la viltà di tutti coloro che hanno abbandonata la donna al suo destino di morte. Il pubblico tributa un grande e concorde successo a tutti gli interpreti, e anche alla capacità organizzativa del teatro; alla fine di novembre il Teatro Coccia sarà protagonista di una prova ancora più ambiziosa e impegnativa, con Les contes d’Hoffmann di Hoffenbach. Foto Mario Finotti