Leif Ove Andsnes suona Beethoven

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Pianoforte Leif Ove Andsnes
Ludwig van Beethoven: Sonata in si bemolle maggiore op. 22; Sonata in la maggiore op. 101; Sei Variazioni su un tema originale in fa maggiore op. 34; Sonata in fa minore “Appassionata” op. 57
Roma, 28 marzo 2014      
Uno più bello dell’altro, i recitals pianistici proposti quet’anno dalla maggior istituzione concertistica italiana: l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Questa volta è il turno di Leif Ove Andsnes, blasonato interprete norvegese, deliziare il pubblico romano e riceverne il consueto, affettuoso ringraziamento; e lo fa con un repertorio a lui particolarmente caro e congeniale: le sonate di Ludwig van Beethoven, nelle quali «il pianoforte diventa il re degli strumenti, capace del lirismo più tenero come degli scoppi più violenti, e per la prima volta la Sonata si spinge a un linguaggio paragonabile a quello sinfonico».
Il programma prevede l’intreccio di composizioni più giovanili a altre di più matura esperienza compositiva. Il primo tempo vede l’appaiamento di due sonate che si portano più di un decennio di differenza (la prima è del 1800-2, la seconda del 1815-16); ambedue, inoltre, sono state tacciate dalla critica, con troppa faciloneria, di convenzionalismo. Apre la Sonata in si bemolle maggiore op. 22, dall’impianto classicheggiante: il primo tempo è tutto un brio mozartiano, brillante, quasi lezioso; come ben fa respirare, Andsnes, l’Adagio, con ottime dinamiche volte a enucleare il carattere lirico e nobile della melodia; poi lo spumeggiante Minuetto, uno spiritoso gioiellino; infine il virtuosismo dell’ultimo tempo, in cui il pianista si trova perfettamente a suo agio. Dopo essersi preso gli applausi, ecco il famoso inizio della Sonata in la maggiore op. 101: il norvegese si palesa, le primo movimento, attentissimo ai contrasti dei colori, alla resa del suono puro, sembrando continuamente teso a una resa neoclassica dell’opera, filologicamente impeccabile; grande è il contrasto, singolare (e spia di quella profonda rivoluzione che Beethoven apportò alle forme della sonata),  col vivace secondo tempo, una marcia con trio al centro, dove al rigoroso timing marziale ─ che espansione volumetrica del suono! ─ alterna il placido scorrere del trio, etereo (peccato per un trillo in filato verso la fine, che lascia un po’ cadere: al contrario degli altri della serata, che escono tutti tersi e perlacei dalle dita); poi ecco gli ultimi due movimenti, un Adagio che pare un preludio d’organo al quarto, il cui incipit si riconosce inconfondibilmente per gli stupendi trilli, un passaggio inconsueto, di sommo effetto, che dà alla luce una giostra di contrappunti con una fuga, usati con grande senso drammatico, alla Beethoven.
Il secondo tempo vede ancora una doppietta ben scelta. Aprono le Variazioni op. 34 ─ dello stesso periodo della Sonata op. 22, con cui s’è aperto il concerto. Andsnes interpreta con grande espressività, cercando di dare un’anima a ogni carattere, risultando veramente convincente e declinando il semplice, cantabile tema originale nei diversi modi. Ed ecco arrivare il momento clou: l’ “Appassionata”, la Sonata in fa minore op. 57, monumento all’arte del piano e celeberrima tra le composizioni del tedesco. Questa volta la linea interpretativa di Andsnes, fin’ora mai realmente uscito dall’alveo di un empireo d’avorio, si fa più intensa, cupa: la tripudiante materia musicale e emotiva viene sbrigliata di ogni razionalismo. E vediamo che il volto del norvegese non è esente da corrugamenti e commozioni. Inizia risoluto lo strafamoso arpeggio iniziale, cupo, poi ha un moto quasi d’ira nella scala a cascata che dà l’avvio alla parte centrale (è bravo a non perdere mai né l’abbrivio né il timing sostenuto), per concludere con un’instabile tensione nel finale; indi il soffuso martellamento dell’andante, che sfocia in un delta di delicate variazioni dalle atmosfere trasognate, notturne, con le note che sembrano zampillare di colori; poi, tutto si spezza nel perpetuum ruzzante, riottoso dell’ultimo movimento, dove Andsnes fa piangere, finanche gridare il pianoforte, per concludere pateticissimo nel possente finale, imperniato di accordi megalitici. Tutta la tensione si sfoga in fragorosi applausi; Andsnes ha perfino la forza di regalare al pubblico un altro po’ di Beethoven e uno dei Moments musicaux di Schubert, al fine del quale si asciuga una lacrima, testimonianza del lavoro non solo tecnico-interpretativo, ma anche psicologico.
Andsnes è un interprete oltremodo completo, che fa dell’eleganza il suo blasone (in questo si incasella nella schiera di Benedetti Michelangeli o Ashkenazy): ottimo tocco, suoni e passaggi sgranatissimi, legati e arcate ben connessi, respirati, buon uso della pedalistica (forse, in qualche passaggio, ne sarebbe bastata un tantino meno), omogeneità sonora fra mano destra e sinistra, senso nobile dell’agogica e un’eccellente tecnica virtuosistica. Cosa volere di più? Non stupisce che sia ospite fisso dell’Accademia, fin dall’ormai lontano 1996.