Linguaggi sperimentali per artisti ben collaudati

Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Juraj Valčuha
Pianoforte Arcadi Volodos
Ferruccio Busoni: Nocturne Symphonique op. 43 (Elegia n. 2)
Béla Bartók: Quattro pezzi per orchestra op. 12
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Concerto n. 1 in si bemolle minore per pianoforte e orchestra op. 23
Torino, 23 gennaio 2014  

Il segno della professionalità artistica si può anche cogliere dalla conformazione di una locandina; e quando un’istituzione musicale punta su un brano celebre, interpretato da un apprezzato solista, senza trascurare l’altra parte del concerto, si è di fronte a un grande rispetto e nei confronti del pubblico e della missione educativa e culturale di cui la musica è sempre fautrice. Per questa ragione il dodicesimo concerto della stagione dell’OSN della RAI offre un programma tra i più interessanti: Busoni e Bartók nella prima parte (con due brani dalla composizione originaria perfettamente coeva, il 1912) e Čajkovskij nella seconda, con il celebre concerto n. 1 per pianoforte e orchestra. Tre autori, tre gusti, tre nazionalità, tre intenti espressivi molto diversi; il protagonismo dell’ensemble strumentale nella prima metà della serata, la solitudine dolorosa del pianoforte nella seconda.
Busoni è compositore che meriterebbe molta più attenzione nella programmazione delle orchestre italiane: il suo Nocturne, per esempio, mancava alla RAI di Torino dal 1966, quando fu diretto da Ferruccio Scaglia, e neppure in occasione di un concerto, ma per una registrazione. Si tratta di un breve brano, di cui sono protagonisti gli archi e i legni, composto quando l’autore più era esposto alle novità dell’espressionismo tedesco e più era intenzionato a riformare la musica tonale con l’utilizzo di “fasce politonali”, ovvero insiemi di voci strumentali e di timbri diversi che si compongono per strati. Lo stile è quanto mai “berlinese”, tanto che pare anticipare le progressioni e le sequenze di Hindemith (anche per abilità di strumentazione), pur non essendo così lugubre e pessimistico. «Un pezzo tessuto di fibrille nervose», lo ha definito in una lettera il compositore, che Valčuha e l’OSN eseguono con notevole precisione, soprattutto mirata a raggiungere l’omogeneità del suono; più che sul “nervosismo” interno della politonalità, il direttore ricerca (e ricostruisce bene) il respiro orchestrale, il cadenzato e lento movimento interno dell’organismo vitale della durata di pochi minuti: una conversazione tra due persone (forse proprio un direttore e la sua orchestra) «triste, muta, fremente per il tormento», come l’ha definita Hugo Leichtentritt nella sua monografia su Busoni.
Soltanto nel 1921, ossia quasi dieci anni più tardi rispetto alla scrittura originaria per pianoforte solo, Bartók si decise a orchestrare i Quattro pezzi. Secondo quello stile compositivo un po’ tipico dell’eversione bartokiana, i Quattro pezzi possono essere considerati come un’alternativa all’edificio sinfonico tradizionalmente inteso, sebbene ne conservino alcuni tratti specifici, come l’articolazione in quattro movimenti e la rispettiva indicazione qualitativa (non di “tempo” – a parte l’ultimo – ma di funzione: Preludio, Scherzo, Intermezzo, Marcia funebre). Ma i movimenti paiono assemblati a partire da origini diverse, come opportunamente Valčuha sottolinea: se in Busoni l’obbiettivo esecutivo era l’omogeneità del suono, in Bartók il direttore evidenzia invece i contrasti di sonorità diverse, che si intrecciano e si giustappongono senza unificarsi. Il nitore degli archi si oppone così agli stridori dei fiati e delle percussioni, mentre il clamore degli ottoni cerca di sovrastare gli altri volumi (come accade nel Mandarino meraviglioso). Gli stessi ottoni trionfano nel II movimento, corroborati da timpano e grancassa, in una strepitosa fanfara che rivela l’ottima preparazione delle trombe; il III è invece il momento più esotico della raccolta, visto che trae spunto dalle armonie e dalle sonorità di Debussy, tangibili nel trattamento degli archi e negli accenni melodici; e a questo punto Valčuha esalta la morbidezza degli accordi e del loro fluire. Nell’ultimo movimento si assiste a una virata netta, in direzione della cupezza di un mondo più affine all’espressione di Bartók: pur senza le inquietudini spigolose della musica di origine popolare e dell’indagine folklorica, l’espressione con cui i Quattro pezzi si chiudono coinvolge l’ineluttabilità, un tragico sensus finis non privo di fascino teatrale. E l’ascoltatore si accorge subito, con viva emozione, che il modello cui Bartók guarda ora non è più Claude Debussy, ma Gustav Mahler.
Busoni e Bartók, da strade diverse, propongono linguaggi e strutture nuove e complesse, che soltanto un’orchestra dal repertorio variegato e dalla preclara duttilità può permettersi di eseguire: è precisamente il caso dell’OSN RAI. Ma è anche il caso del pianismo concertistico čajkovskijano, che alla sua epoca (anni Settanta dell’Ottocento) fu considerato appunto scandalosa e provocatoria novità, prima di essere adeguatamente assimilata e di assurgere a classico universalmente apprezzato. Il pianista russo Arcadi Volodos è certamente uno specialista di Čajkovskij, come si evince anche dalla sua discografia: il concerto n. 1 compare tra le sue prime registrazioni, diretto da Seiji Ozawa. Ritmo, esattezza, sobrietà nel volume sonoro: sono le cifre dell’attacco, sia orchestrale sia pianistico, dell’esecuzione torinese. Nei passaggi successivi del complicato I movimento (Allegro non troppo e molto maestoso – Allegro con spirito) Volodos insiste sul legato per enunciare con rapidità le frasi affidate allo strumento solista; rapidità che, qualche volta, va un po’ a discapito della precisione e della individuazione di tutte le note. Ma poi il pianista raggiunge un equilibrio perfetto, e nella lunga cadenza che conclude il movimento non c’è più nulla di affrettato, di retorico o di triviale: tutto è improntato sull’enunciazione precisa. Anche questa è scelta coraggiosa, perché solitamente i grandi interpreti scelgono la via delle facili emozioni, degli effetti sorprendenti ed enfatici; Volodos preferisce invece lasciar parlare il testo musicale, e accettare anche il confronto con l’orchestra di Valčuha (che di movimento in movimento amplifica la sua presenza sonora, diventando rutilante nel finale).
Il II movimento (Andantino semplice – Allegro vivace assai – Tempo I) scorre fluido, nel segno di dialogo tra strumento solista e orchestra; il finale (Allegro con fuoco – Allegro vivo) si avvia con ritmo trascinante e con accenti del pianoforte molto persuasivi; l’ascoltatore avverte subito come Volodos riesca assai più originale ora rispetto ai due movimenti precedenti; e anche nel lieve accelerando che precede l’enfatica conclusione l’aplomb tra direttore e pianista si conserva perfetto. Il concerto si chiude in un subisso di applausi entusiastici, che induce Volodos a elargire due brevi brani fuori programma: sornioni, sorridenti, lievemente malinconici, ma soprattutto enigmatici; nella duplice scelta, in altre parole, si riscontra quella caratura intensa e misteriosa, ma del tutto priva di esaltazione retorica, che contraddistingue l’arte di Volodos.