L’Orchestre de la Suisse Romande porta a Madrid Schubert e Mahler

Direttore Jonathan Nott

Madrid, Auditorio Nacional de Música
Fundación Ibermúsica, Temporada 2016-2017
Orchestre de la Suisse Romande
Direttore Jonathan Nott
Franz Schubert: Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D 485
Gustav Mahler: Sinfonia n. 1 in re minore “Il Titano”
Madrid, 1 febbraio 2017

Compie esattamente cent’anni di attività l’Orchestre de la Suisse Romande, fondata nel 1918 da Ernest Ansermet, che l’avrebbe poi diretta per cinquant’anni consecutivi. Nel successivo cinquantennio (1967-2016) si sarebbero alternati otto direttori principali, tra cui Wolfgang Sawallish (1970-1980), Armin Jordan (1985-1997), Marek Janowski (2005-2012); adesso, proprio da gennaio 2017, il direttore principale e artistico del complesso è Jonathan Nott, la cui carriera internazionale e i cui prestigiosi incarichi sono noti dalla metà degli anni Novanta. Per la tournée di esordio con la Suisse Romande Nott ha scelto un repertorio di grandi classici, accostati tra di loro con molta raffinatezza: è il caso del secondo concerto offerto a Madrid sotto l’egida di Ibermúsica, in cui la vera protagonista è l’orchestra, chiamata a esprimere l’idea di musica sinfonica in fermento a Vienna tra 1816 e 1896.
Il gesto di Nott è di esemplare chiarezza, analogo alla prontezza con cui l’orchestra ne realizza le richieste. Il pubblico di Madrid si entusiasma via via: al termine della prima parte il consenso è unanime, ma senza troppo calore (Schubert sinfonico ancora oggi sottovalutato fuori dalla Mitteleuropa), mentre dopo il finale mahleriano applausi e grida di consenso durano a lungo. Nella Quinta di Schubert il flauto è protagonista non solo dell’Allegro iniziale, ma anche dell’Andante con moto che sostiene il II movimento. A permettere al pubblico di accorgersi di questo ruolo è senza dubbio il tempo staccato dal direttore: non rilassato, ma dal respiro ampio, tale da permettere una resa calligrafica di ogni frase e della testura complessiva. Nott cerca di comprendere il significato delle brevi frasi del flauto, e risponde suggerendo che non si tratta solo di colore, ma di una voce che confessa anche inadeguatezza e imbarazzo: la voce di chi guarda alla tradizione classica viennese, ancora popolata da Mozart e Salieri, mentre attorno fremono già le presenze di Brahms e di Bruckner. In particolare le dinamiche degli archi, dalle risonanze anche troppo strascicate, evocano sonorità ed effetti brahmsiani. Il Minuetto. Allegro molto è un capolavoro di ritmo e di accenti, in cui la precisione dei movimenti di danza e la tensione drammatica si equilibrano come per incanto. Nel frattempo, però, già serpeggia il colore nerastro dei corni e dei violoncelli, che conduce al finale Allegro vivace; anche adesso il direttore scandisce ogni frase quasi con pudore, sospendendola un attimo prima dell’accento, per poi liberare una sonorità marcata, o addirittura abbandonarsi a un’accelerazione efficace. La “drammaturgia” interna alla sinfonia ne è esaltata, e si estingue il problema della mancanza di una vera e propria coda, ossia di un possibile punto di culminazione con cui chiudere l’opera.
L’atmosfera, i rumori, i colori di un bosco tra le ultime ore della notte e l’avanzare dell’alba: questa sembra essere la tentazione narrativa in cui cadere piacevolmente all’ascolto del I movimento (Langsam. Schleppend, dunque lento e strascicato) della Sinfonia n. 1 di Mahler nell’esecuzione di Jonathan Nott. Ma non si tratta di una storia idilliaca o mitologica; al contrario, la perfezione con cui gli ottoni sgranano gli accordi del II movimento (Kräftig bewegt, doch nicht zu schnell, Mosso con forza, ma non troppo rapido) sottolinea tutta la voluta trivialità di una fanfara borghese che il compositore non si decide a sviluppare al di là della frase iniziale; Nott spiega come la fanfara si consumi in un’estenuata progressione senza però giungere a costruire nulla. Allo stesso modo, il garbatissimo valzer che segue pare imitazione di una dolce e fanciullesca melodia čaikovskiana, con il solo effetto di generare nostalgia. In effetti una forma di “ritorno” si verifica con il III movimento (Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen, Solenne e misurato, senza strascicare), che fa riapparire il bosco dell’inizio, ma in versione grottesca: è il funerale del cacciatore, paradossalmente trasportato da tutti gli animali selvatici, secondo il noto programma originale della sinfonia che lo stesso Mahler si era compiaciuto di stendere, suggestionato dalla fiaba e dall’incisione di Moritz von Schwind del 1850; in musica, poi, è l’indimenticabile cantilena del Fra Martino in minore («Gli animali del bosco accompagnano alla tomba la bara del cacciatore; le lepri portano lo stendardo. Davanti c’è un gruppo di musicanti boemi con i quali suonano gatti, rospi, cornacchie … Cervi, caprioli, volpi e altri animali del bosco, alati o a quattro zampe, seguono il corteo con atteggiamenti farseschi …»).
Se Schubert era letto in chiave di rimpianto per un mondo armonico tramontato (e forse mai esistito) il Mahler di Nott è espressione di un grottesco che appena si riconosce, insidiosissimo perché appare in tutta la possibile eleganza; è il Kitsch della società borghese di fine Ottocento, sovraccarica di ipocrisie e volgarità, ma dalla superficie esteticamente impeccabile. Il reboante finale (Stürmisch bewegt, Mosso tempestoso) è dunque una sorta di marche au supplice che prefigura un congegno autodistruttivo come quello del finale della VI sinfonia. In Schubert mancava una chiusa strutturata, in Mahler invece è l’apoteosi di un finale lunghissimo (sesquipedale, avrebbe detto Gavazzeni), che scongiura l’annullamento con la retorica delle forme. Ora si completa anche la fanfara del II movimento, ma con urli lancinanti di dolore e spossatezza. La confessione del senso profondo è affidata al flauto e ai suoi tremoli; come in Das Lied von der Erde, e poi ancora nei Vier letzte Lieder straussiani, il lieve trillo di questa voce esprime l’inconfessabile: sembra recuperare i motivi del bosco, di aurora e di innocenza, ma in realtà ricorda soltanto quello che è perduto per sempre.