“Lucia di Lammermoor” (cast alternativo) all’Opera di Firenze

Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2015/2016
“LUCIA DI LAMMERMOOR” (cast alternativo)
Dramma tragico in due parti e tre atti su libretto di Salvatore Cammarano, dal romanzo The Bride of Lammermoor di Sir Walter Scott.
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton CHRISTIAN SENN
Miss Lucia SUMI JO
Sir Edgardo di Ravenswood YIJIE SHI
Lord Arturo Bucklaw EMANUELE D’AGUANNO
Raimondo Bidebent GABRIELE SAGONA
Alisa SIMONA DI CAPUA
Normanno SAVERIO BAMBI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Graham Vick
Scene e costumi Paul Brown
Luci Nick Chelton
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 27 settembre 2015

Non sono molti i soprani che dopo tre decenni di carriera siano ancora in grado di cantare un ruolo come Lucia di Lammermoor con voce ancora relativamente fresca ed oltretutto riescano ad esser fisicamente credibili. Devo confessare di aver scosso la testa quando, alla presentazione della stagione invernale dell’Opera di Firenze, ho letto il nome di Sumi Jo nel cast alternativo del capolavoro donizettiano: il mio ultimo incontro con il soprano coreano risaliva ad almeno quindici anni fa, in una recita di Rigoletto a New York, in cui aveva mostrato i soliti pregi (emissione pura, intonazione accuratissima, ottima estensione ed agilità) e i soliti difetti, ovvero un’interpretazione espressivamente inerte ed anzi non immune da bamboleggiamenti tipici dei sopranini d’antan. Negli ultimi anni è tornata alla ribalta con una discutibile partecipazione nel ruolo di Adalgisa nell’ancor più discutibile progetto discografico della Norma con Cecilia Bartoli, e l’anno scorso a Firenze la sua Rosina nel Barbiere rossiniano aveva suscitato critiche poco lusinghiere se non proprio vetrioliche. Ma la giustificata apprensione si è fortunatamente dissipata non appena il soprano ha intonato la cavatina del primo atto, che ha certamente messo subito in luce gli attuali limiti, ma anche le apprezzabilissime (ed alla fin dei conti ampiamente compensanti) qualità: il registro centrale, un tempo piccolo e purissimo, si è significativamente allargato, perdendo un po’ del suo nitore, acquistando più spessore ma anche una stranissima distorsione dell’articolazione vocalica, ridotta ad una suono misto buono a tutte le occasioni, involuzione davvero insolita per una delle poche cantanti straniere a possedere, almeno un tempo, una dizione italiana perfetta. Gli acuti sono ancora sicuri, ben emessi, quantunque non abbiano più la sfrontatezza dei primi anni, ed ha accentuato il vezzo di portare la mano sulla guancia ogni qual volta deve emettere una nota al di sopra del pentagramma. Le agilità sono ancora nitide e precise (sgranatissime le scale cromatiche della frase “l’inumano tuo rigor” nel duetto con il fratello del secondo atto), e rimangono intatti il bel legato e i fiati lunghissimi che l’hanno sempre contraddistinta. La scena della pazzia non è iniziata nel migliore dei modi, in quanto nel recitativo il soprano cercava troppo artificiosamente di simulare una voce da bambina smarrita, con suoni troppo bianchi, aperti, da sopranino prebellico. Le esclamazioni “il fantasma!” sono fra i tranelli più insidiosi dell’opera e trovare il giusto peso è difficile: se presi alla leggera passano inosservati; troppo calcati, e si rischia il ridicolo, come è quasi avvenuto in questa occasione. Per fortuna dal larghetto in poi Sumi Jo ha ritrovato il senso della misura, e si è prodotta in una cadenza che, se vocalmente non del tutto immacolata, aveva un senso drammatico innegabile, ed anzi sorprendente in una cantante spesso, e non a torto, accusata di eccessiva compitezza, e che il pubblico ha apprezzato con una vera e propria ovazione. A conti fatti siamo di fronte ad una cantante che almeno in questo ruolo ho dimostrato di avere ancora molte frecce al proprio arco.
Yijie Shi è un tenore che da tempo apprezzo senza riserva alcuna nel repertorio rossiniano, o in ruoli lirici quali Fenton in Falstaff, in cui può sfoggiare una tecnica solidissima, una fonazione libera, limpida omogenea e immascherata. In Lucia ha mostrato ancora una volta segni di una superiore civiltà vocale, modellando affettuosamente frasi come “io di te, memoria viva..”, evidenziando legati e sfumature, dinamiche da manuale, e mezze voci alate sia in tutto il duetto del primo atto che in “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, dove purtroppo il direttore non è riuscito a imprimere ai violoncelli la stessa magia. Edgardo però non è solo un “tenore dalla bella morte”, e deve frequentemente (scena della maledizione e duetto con il baritono in primis) trovare accenti drammatici, disperati, che dovrebbero in teoria fare a pugni con la vocalità del tenore cinese. Per quanto non si possa negare che certi passi non siano il suo territorio elettivo, Shi è stato ad ogni modo capace di impartire credibilità anche a questo lato selvaggio del ruolo, ed in ogni caso preferisco un tenore che magari non mostri occhi iniettati di sangue in quelle scene or ora citate ma che sappia eseguire la parte senza compromessi vocali alcuni, con tutte le dinamiche indicate dal compositore, e financo producendosi nel mi bemolle sovracuto nella ripresa di “Verranno a te sull’aure”, sostenuto dal do del soprano, proprio come scritto e come rarissimamente capita di sentir eseguito, e con tanta facilità per di più. Molto positiva anche la prova di Christian Senn: mai bieco e torvo il baritono cileno ha ritratto un giovane uomo reso “cattivo” dalle circostanze e non per una seconda natura; spesso e volentieri si guarda a questo personaggio come un “villain” qualsiasi, dimenticandoci che al suo posto, con la scure che ci incombe sul capo, quasi tutti ci comporteremmo allo stesso modo. Di conseguenza anche la linea di canto rimaneva sempre composta e aristocratica. Gabriele Sagona ha un timbro caratterizzato da un vibratino stretto che a me non dispiace, ed inoltre, nonostante la giovane età, riesce a comunicare l’autorevolezza necessaria al ruolo di Bidebent. L’aria “Cedi, cedi, o più sciagure”, innegabilmente il passo più debole dell’opera, ha tratto giovamento dal suo variegato fraseggio. I tre personaggi secondari erano interpretati dagli stessi cantanti della prima, cui rimando anche per la descrizione della parte visiva dello spettacolo.
La direzione di Fabrizio Maria Carminati è stata a mio avviso l’anello più debole della catena, con una piattezza espressiva, una prevedibilità nella scelta dei tempi, un grigiore agogico che non raramente ingeneravano torpore. Foto Pietro Paolini/TerraProject/Contrasto