“Madama Butterfly” all’Opera di Firenze

Teatro dell’Opera di Firenze – Stagione Estiva 2015
“MADAMA BUTTERFLY” (Cast Alternativo)
Tragedia giapponese in due atti
Libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa da John L. Long e David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-Cio San) YASKO SATO
Suzuki ANNUNZIATA VESTRI
Kate Pinkerton MILENA JOSIPOVIC
B.F. Pinkerton VINCENZO COSTANZO
Sharpless FRANCESCO VERNA
Goro  ROBERTO COVATTA
Il principe Yamadori ALESSANDRO CALAMAI
Lo zio Bonzo ABRAMO ROSALEN
Il commissario imperiale  IVAN MARINO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Giampaolo Bisanti
Regia Fabio Ceresa
Scene Tiziano Santi
Costumi Tommaso Lagattolla
Disegno luci Fiammetta Baldisseri
Nuovo allestimento in coproduzione con la Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari
Firenze, 20 luglio 2015
Ogni tanto si assiste ad una rappresentazione teatrale in cui ogni meccanismo dell’ingranaggio scivola perfettamente oliato e senza intoppi verso la conclusione: tale è stato il caso della Madama Butterfly (cast alternativo) in scena a Firenze fino agli inizi di settembre. L’allestimento di Fabio Ceresa è di rara suggestione; al contrario dei discutibili e inutilmente farraginosi Puritani dal lui messi in scena pochi mesi fa sempre a Firenze, questa Madama Butterfly ha le caratteristiche di una messinscena classica, tradizionale, e al tempo stesso lacerante nella sua elegante e stilizzata semplicità. Coprodotta con il Teatro Petruzzelli di Bari, dove è stato inaugurata la scorsa primavera, questa produzione è stato recensita in maniera arguta e dettagliata dal collega Lorenzo Mattei, cui rimando, poiché condivido in pieno le sue osservazioni, che correrei il rischio di inconsapevolmente ripetere. Non è difficile prevedere un grande successo per questo allestimento che ha inoltre il grande pregio di coniugare qualità e economia di mezzi. Da Bari proveniva anche la protagonista, Yasko Sato, giovane soprano giapponese che in soli due o tre anni di carriera sembra aver già fatto proprio il ruolo di Cio-Cio-San, e non solo per ragioni di physique du rôle, che anzi, conoscendo le scelte di casting dei teatri (italiani e non) potrebbe alla fine rivelarsi a lei deleterio, relegandola, come è spesso successo ad altre artiste, in una manciata di ruoli “esotici”. Ci auguriamo che i direttori artistici mostrino in questo caso molta più fantasia del solito. Yasko Sato possiede un bel timbro morbido, limpido, duttile, omogeneo, dai centri caldi e pudicamente sensuali uniti ad acuti ben raccolti e ad un registro grave piuttosto corposo per un soprano lirico, emesso con estremo gusto, quasi adagiato dolcemente verso il basso e mai spintovi con la benché minima forza. Notevolissima è l’abilità a smorzare, filare ed eseguire messe di voce; prezioso l’uso discreto dei portamenti, appena timidamente accennati, ma presenti, segno che è consapevole della loro importanza, in un periodo storico come il nostro in cui i portamenti secondo molti cantanti e a direttori devono esser evitati come la peste.  L’unico neo osservato in questa recita è una certa cautela, anzi direi un vero e proprio timore di scagliarsi senza rete verso l’acuto: in alcuni momenti, fra cui due punti chiave quali il si bemolle di “Un bel dì vedremo” e il do che conclude il duetto d’amore, la Sato ha indugiato una frazione di secondo prima di emettere le note, quel tanto che è bastato ad infrangere leggermente la magia del momento, soprattutto nel secondo caso in cui è mancato un pieno unisono con il tenore. Mi sento di azzardare l’ipotesi che, considerata la bontà dell’emissione, tale esitazione dipenda solo dall’emozione o dal nervosismo piuttosto che da problemi di ordine tecnico. Umanissima, dolce, schiva ma senza bamboleggianti infantilismi, spontanea e sensibile, la sua Cio Cio San è fra le più espressive da me incontrate in recente memoria.  Sotto la riservatezza dovuta, la Sato riesce ad esprimere il conflitto celato che spinge Butterfly dapprima fra le braccia del gradasso americano, e poi a rifugiarsi nella fantasia, nell’illusione, nella delusione e infine verso la morte.  Cercando il pelo nell’uovo (e lo faccio solo perché la Sato ha il potenziale di diventare una Butterfly di riferimento) sarebbe auspicabile una più intensa disperazione, un maggiore, diciamolo pure, isterismo nella scena del suicidio: quei salti d’ottava fa diesis- fa diesis e soprattutto i la naturali climatici devono esprimere l’estremo stato di agitazione della nostra eroina. Con quel ritmo giambico è uno dei rarissimi momenti dell’opera a dover sortire un effetto autenticamente verista: quegli acuti devono esser scagliati al cielo come urla di un’anima mortalmente ferita. Vincenzo Costanzo, classe 1991, ha già una vocalità ben impostata, di bel tenore lirico puro, con acuti dotati di squillo e una notevole facilità a smorzare i suoni. La sua è una buona interpretazione del Pinkerton di tradizione, guascone, estroverso, spensierato e superficiale; pochi sono stati i tenori, nella storia esecutiva di quest’opera, che hanno cercato di scavare più a fondo e mettendo in luce la vulnerabilità del personaggio. Annunziata Vestri, una delle migliori Carmen da me ascoltate negli ultimi anni, è qui ancora una volta sprecata in un ruolo come Suzuki cui dona in ogni caso – complice la regia – una gravitas che le è generalmente preclusa. La voce baritonale di Francesco Verna, benché non particolarmente risonante e voluminosa, si è rivelata in ogni caso ben emessa e più che adeguata alle esigenze del ruolo di un’emotivamente assai partecipe Sharpless. Di livello superiore alla media tutte le parti secondarie: Roberto Covatta (Goro), Abramo Rosalen (lo zio Bonzo), Alessandro Calamai (Yamadori), Milena Josipovic (Kate Pinkerton) e Ivan Marino (Il commissario imperiale).
Giampaolo Bisanti, uno fra i migliori (ed attivi) direttori del nostro tempo, trova a mio avviso le proprie affinità elettive nel repertorio della Giovane Scuola in cui riesce immancabilmente a coniugare il bel suono (e un’orchestra di alto livello come quella del Maggio Musicale di certo lo facilita) con la malleabilità, il nitore, la tersità, la larga gamma della tavolozza dei contrasti sia sonori che dinamici; con questa tecnica a disposizione, con un gesto chiarissimo e autorevole, ci regala una narrazione serratissima, ritmicamente vibrante e pulsante, con certe scudisciate degli archi che ti fanno sentire la lama che affonda nella carne (all’inizio del secondo atto per esempio) che penetrano l’anima e la psiche della protagonista; e persino i momenti più introspettivi, diciamo più lirici, in cui molti direttori si sdilinquiscono in fiumi di melassa, sono qui delicati acquerelli che però racchiudono un’ininterrotta tensione sotterranea volta a sottolineare il fatto che la quiete è solo apparente e precede la tempesta.  Probabilmente per un direttore la parte più difficile dell’opera è la conversazione senza fine dell’atto secondo, la cui narrazione fa continuamente intravedere, grazie all’enfasi data ora a questa ora a quella sezione orchestrale, i lampi della bufera e le lamine che feriscono la protagonista sotto un tono solo all’apparenza formalmente misurato e composto. Il finale dell’opera è devastante nella semplicità con cui Bisanti lo ha reso: dall’entrata del figlioletto fino al termine, è una scena tutta svolta in un si minore così straziante che persino il tanto contestato accordo di terza e di sesta, benché sia, come Puccini intendeva, una frattura dell’ordine costituito, non ci appare qui come un corpo estraneo. La nitidezza, la precisione del suono, l’equilibrio orchestrale che però celino il tumulto interiore dell’infelice eroina costituiscono la vera essenza di un’opera come Madama Butterfly.
A conti fatti questa mini-stagione estiva fiorentina ha proposto due allestimenti ed esecuzioni che, soprattutto nel caso del capolavoro pucciniano, sono stati di gran lunga più soddisfacenti della maggior parte dei titoli della stagione invernale. Peccato che anche questa farfalla abbia svolazzato sopra ad un pubblico non particolarmente folto. Foto Michele Borzoni/TerraProject