Martha Argerich e la Juvenil da Bahia all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2014-2015
Orquestra Sinfonica Juvenil da Bahia
Direttore Ricardo Castro
Pianoforte Martha Argerich
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Concerto n. 1 in si bemolle minore per pianoforte e orchestra op. 23
Leonard Bernstein: “West Side Story”, Danze Sinfoniche
Heitor Villa-Lobos: Bachianas brasileiras n. 4
Roma, 15 settembre 2014
“Tra queste mura pie la Regina d’Argentina può sola penetrar”. Mi servo in prestito di un verso della traduzione di de Lauzières per il Don Carlos verdiano; e lo faccio per descrivere l’impressionante calore con cui il pubblico dell’Accademia di Santa Cecilia ha accolto l’ingresso di Martha Argerich, oramai leggenda vivente della tastiera. Da sempre impegnata nella promozione dell’istruzione musicale, soprattutto nei settori più disagiati della società sudamericana, la Regina d’Argentina accompagna la Orchestra Sinfonica Juvenil da Bahia (Neojiba) e il suo direttore, Ricardo Castro, all’interno di una manifestazione promossa dall’Accademia: ospitare quattro orchestre provenienti da diverse parti del mondo, dal che il titolo di “Giro del mondo in quattro orchestre”. Il concerto ha fatto già tappa in Italia − pochi giorni son trascorsi − a Torino. Il programma è del tutto singolare e originale: l’accostamento di un brano oramai ‘iper-famoso’, il Primo concerto per pianoforte e orchestra in si bemolle minore op. 23 di Čajkovskij, con musica tutta americana, le surreali danze dalla West Side Story di Bernstein e una sorta di suite per orchestra (Bachianas brasileiras n. 4) di un compositore brasiliano, Villa-Lobos, fiore all’occhiello della tradizione musicale locale. L’intenzione è chiara e presenta una sua propria logica: far suonare alla Neojiba qualcosa di americano, per imbandire a un pubblico straniero i frutti della propria terra – mi si conceda la metafora −, preceduto da un evergreen della tradizione classica di tutti i tempi, che catalizza inevitabilmente tutte le attenzioni del pubblico. La soluzione adottata, dunque, ricorda un po’ il concetto che il Tasso sintetizzò mirabilmente (Gerusalemme Liberata, 1. 3. 5sgg.): «Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi / di soavi licor gli orli del vaso: / succhi amari ingannato intanto ei beve, / e da l’inganno suo vita riceve». Il concerto – fuori abbonamento, uno dei consueti aperitivi alla novella stagione dell’Accademia − avrebbe certo avuto assai meno appeal se non fosse stato aperto dalla strepitosa performance della Regina, che ha permesso a molti di gustare anche un raro Bernstein e un rarissimo Lobos – che qui ricoprono, inevitabilmente, la parte dei «succhi amari» (infatti la fuga post Argerich è stata sostanziosa!). Per la Argerich si può (anzi, si deve) usare l’aggettivo ‘perfetta’: sotto il peso – e l’esperienza, ovvio – dei suoi settantatre anni, s’infiamma come se si dimenticasse di averli. È la vestale eternamente giovane del più sopraffino talento. Ci fa vibrare l’anima imprimendo una tale energia negli accordi solenni con cui si apre la parte del pianoforte. Inutile sarebbe dilungarsi sulla sua lettura del Primo concerto: eseguito in tutto il mondo, amatissimo, è un suo cavallo di battaglia. Ogni frase è respirata a pieni polmoni, delibata con sagacia esecutiva sfrenata in estasi dionisiaca. Incredibile fluidità, impressionante precisione, tensione emozionale, sgranatura dei singoli suoni, che non vengono mai impastati da un uso saggiamente parco, vibrato, del pedale: queste sono solo alcune delle caratteristiche del suo sontuoso pianismo. La sconfinata cultura musicale che, dopo decenni di carriera, corona le sue esecuzioni, la portano a leggere il concerto alla luce delle suggestioni musicali (consce o inconsce) che Čajkovskij volle inserirvi: negli squarci intimamente lirici, in cui orchestra e pianoforte creano atmosfere romanticamente vaporose, la Argerich suona come se stesse accompagnando un corpo di ballo (la terza versione dell’op. 23, del 1889, precede di pochissimo la première de La bella addormentata nel bosco, del 1890). Tratto peculiare di questa sua versione è stato il mirabile uso del ‘ritardando’, subito rotto da fulminee accelerazioni, leggere come l’aria. Non si oblii, inoltre, l’adamantina muscolatura con cui esegue l’autentico percussionismo, prokofieviano, del passaggio in ottave e della cadenza finale del I tempo. La Neojiba, se si prescinde da quale sbavatura (problemi nella parte degli ottoni, soprattutto), ha fatto un ottimo lavoro; mercé l’intelligente direzione di Castro, che risulta affiatata spalla per la Argerich. Al termine del concerto del russo, il pubblico è esploso in delirio: non lo si riusciva più a contenere – tutti in piedi a fare a gara per urlarle complimenti! Dai complimenti si è passati alla richiesta del rituale bis: quasi costretta, la Argerich si siede al piano e suona sornionamente il suo bis, Kinderszenen op. 15 n. 1 di Schumann. Poi una nuova pioggia di applausi la accompagna verso le quinte.
Dopo l’intervallo, il concerto riprende con le frizzanti danze sinfoniche da West Side Story; ci troviamo, di punto in bianco, in un’atmosfera jazzata, swingata, estroversa, piena di colpi di scena ritmici (si pensi solo allo schioccare delle dita degli orchestrali nella Prologue). Castro fa buona amministrazione: la compattezza della partitura ritmica è la più grande delle difficoltà che deve affrontare, superandola egregiamente. La più esilarante delle danze è il Mambo, parola che tutti gli orchestrali si alzano a gridare più di una volta, accompagnando la frenesia della danza – una tradizione che spesso viene onorata nei concerti di Capodanno. Elegiaca la Somewhere e la Meeting scene, dove risuona la famosa melodia della canzone di Tony, «Maria, I just met a girl named Maria». Ancora, l’orchestra dimostra di essere all’altezza, sebbene lievemente acerba. Chiude il concerto una suite orchestrale di Villa-Lobos, liberamente ispirata all’atmosfera contrappuntistica di Bach: «l’autore vede in Bach una vasta e ricca fonte di folclore, profondamente radicata nella musica popolare di tutti i paesi del mondo: in tal modo Bach diventa un mediatore tra le razze». È una composizione ricca di spirito, lodevole per un autodidatta qual era Villa-Lobos, ma appesantita da diverse convenzionalità occidentali, che ne coprono la parte più curiosamente sperimentale, le venature folclorico-brasiliane – il succo amaro tassiano, meno piacevole dei soavi licor čaikovskiani, ma non per questo meno ‘utile’. L’orchestra qui dà il massimo, onorando degnamente le tradizioni patrie. Seguono generosi applausi. Foto © Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello