Martina Franca, Festival della Valle d’Itria 2015: “Don Checco”

Martina Franca, Palazzo Ducale
“DON CHECCO”
Opera buffa in due atti, libretto di Almerindo Spadetta
Musica di Nicola De Giosa  
Bartolaccio CARMINE MONACO
Fiorina CAROLINA LIPPO
Carletto FRANCESCO CASTORO
Don Checco DOMENICO COLAIANNI
Succhiello Scorticone PAOLO CAUTERUCCIO
Roberto ROCCO CAVALLUZZI
Orchestra Internazionale d’Italia
Coro della Filarmonica di Stato “Transilvania” di Cluj-Napoca
Direttore Matteo Beltrami
Maestro del Coro Cornel Groza
Regia Lorenzo Amato
Scene Nicola Rubertelli
Costumi Giusi Giustino
Disegno luci Franco Machitella   
Coreografie: Giancarlo Stiscia    
Martina Franca, 31 luglio 2015
Il Festival della Valle d’Itria dopo Crispino e la comare dei fratelli Ricci, inscenato nel 2012, con il Don Checco di Nicola De Giosa (del 1850 come il Crispino) torna a proporre un esempio di opera buffa di pieno Ottocento, ovvero di quella stagione del melodramma italiano che parve inabissare la grande tradizione comica napoletana in canali defilati e provinciali. Se tuttavia si pensa al successo riscosso da opere come il Don Checco, che circolò fino ai primi del ‘900, viene da pensare che un certo orientamento storiografico abbia intenzionalmente voluto tacere un filone melodrammatico – quello appunto della commedia napoletana per musica – rimasto florido e vitale lungo l’epoca verdiana e wagneriana. Non, dunque, un fossile vivente dei sillabati e dei concertati rossiniani o, più all’indietro, delle gag della commedeja pe’ musseca settecentesca, ma un prodotto melodrammaturgico stratificato e pronto a lasciarsi declinare in operetta o assorbire in certa filmografia, in primis quella di Totò (e proprio ai film di Totò pare che abbiano pensato il regista Lorenzo Amato e lo scenografo Nicola Rubertelli nell’ideare la scena unica che domina l’opera, la taverna di Bartolaccio, con tavolini quadrettati dove ci si aspetta di vedere la classica guantiera di spaghetti branditi con forchettone). Un elemento che sulle prime ha lasciato perplesso l’ascoltatore è stato quello dei recitativi parlati – in uso in un filone operistico che, su modello francese, fu inaugurato a Napoli anche prima della Nina (1789) di Paisiello – che a tratti risultavano fin troppo estesi; dopo una mezz’ora di spettacolo tuttavia ad essi si faceva l’orecchio e il gap tra parti recitate e cantate sembrava ridursi fino a scomparire.
Tolta questa inedita, almeno per l’Opera italiana, duplicità di registro, dal Don Checco non ci si aspetta originalità di situazioni drammatiche (la vicenda ha un’esilità tale da ricordare i canovacci della Commedia dell’Arte) o musicali (De Giosa, allievo di Donizetti, dà continuazione allo stile fissatosi con Elisir d’amore) ma soltanto brio e facile divertimento. Ciò non significa che i cantanti abbiano vita facile; al contrario è proprio alla loro voce e al loro talento di attori che spetta la riuscita o meno dello spettacolo. Domenico Colaianni, come sempre, è in grado di far rivivere la sapienza attoriale dei ‘buffi caricati’ del passato (del tipo di Luzio o Casacciello) e basterebbe lui solo a far andare a casa soddisfatto il numeroso pubblico di Martina. È voce sicura nei rapidissimi passaggi in stile sillabato come pure in quelli che si portano sulla tessitura acuta; è padrone del dialetto napoletano e soprattutto sa recitare come un attore di prosa, modellando il suo corpo in pose che sembrano estratte dalle incisioni seicentesche dei grandi comici dell’Improvvisa. Ma Colaianni oltre ad essere uno degli ultimi grandi cantanti istrioni viventi è anche un ottimo didatta: lo si capisce ascoltando il lavoro compiuto su Francesco Castoro, una bella voce di tenore perfettamente adeguata al ruolo di giovane amoroso, per leggerezza, duttilità e sicurezza negli acuti. Ottima anche Carolina Lippo per precisione e freschezza, una Fiorina smaliziata ma al tempo stesso misurata, graziosa e divertente (e lei stessa divertita). Molto buono, anche se a tratti troppo caricato, il Bartolaccio di Carmine Monaco. Corrette le due parti di fianco affidate a Paolo Cauteruccio e Rocco Cavalluzzi. Ben preparato il Coro della filarmonica di stato Transilvania di Cluj-Napoca che pareva una compagine compatta ma al suo interno composta da tanti solisti, ciascuno calato nel proprio personaggio. A quest’ottima riuscita ha certo contribuito la direzione di Matteo Beltrami che ha dovuto gestire una scrittura, quella di De Giosa, non sempre felice per gli archi e insidiosa negli stacchi di tempo all’interno di ampie campate multi sezionali. Due ore di puro e semplice divertimento. Alle volte ci vogliono e fanno anche bene. Meritatissimi i calorosi applausi che hanno accompagnato l’intero spettacolo e che hanno confermato la riuscita di questa riproposta.