Martina Franca, 44° Festival della Valle d’Itria: “Giulietta e Romeo”

Martina Franca,Cortile di Palazzo Ducale
“GIULIETTA E ROMEO”
Tragedia per musica in due atti libretto di Felice Romani.
Musica di
Nicola Vaccaj
Capellio LEONARDO CORTELLAZZI
Giulietta LEONOR BONILLA
Romeo RAFFAELLA LUPINACCI
Adele PAOLETTA MARROCU
Tebaldo  VASA STAJKIC
Frate Lorenzo CHRISTIAN SENN
Orchestra Accademia Teatro alla Scala
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del Coro Corrado Casati
Regia Cecilia Ligorio
Scene Alessia Colosso
Costumi Giuseppe Palella
Disegno luci Luciano Novelli
Martina Franca, 13 luglio 2018
Un’edizione inglese delle Dodici ariette da camera di Nicola Vaccaj contiene con molta probabilità la prima attestazione dell’ambiguo termine “belcanto” che l’Accademia intitolata a Rodolfo Celletti, ideatore del Festival della Valle d’Itria, ha fatto proprio. E con Vaccai si è aperta la 44a edizione del festival martinese sempre attento a riproporre melodrammi oggi dimenticati ma che per l’identità del “belcanto” furono costitutivi. Giulietta e Romeo di Vaccajvenne ripreso a Jesi nel 1996 (la revisione critica della partitura a cura di Ilaria Narici è la stessa utilizzata nella messinscena martinese) e conobbe un’incisione discografica; dunque anche per quest’anno l’opera inaugurale del Festival della Valle d’Itria non è una prima assoluta, tuttavia ripristina le giuste modalità esecutive mostrando di concentrarsi sui problemi di “prassi storicamente informata”. Ne consegue uno spettacolo impeccabile sul fronte della performance ed elegante su quello dell’impostazione visiva. Cecilia Ligorio coglie l’essenza del libretto di Romani che salta a piè pari l’episodio dell’incontro e dell’innamoramento tra Giulietta e Romeo e che propone fin dall’alzata del sipario un senso incombente di violenza e di morte. L’opera, che parte dal funerale del fratello di Giulietta per chiudersi con la morte degli infelici amanti, è all’insegna del lutto: da qui la scelta da parte di Giuseppe Palella di attribuire ai Capuleti abiti neri, contrastanti con quelli bianchi dei Montecchi. Le luci di Luciano Novelli hanno fatto il resto, attribuendo una decisa cupezza alla componente visiva dello spettacolo. Il palazzo dei Capuleti, visto di scorcio e sintetizzato dalla parte più alta della sua cinta muraria, era l’elemento dominante delle scene di Alessia Colosso. Da queste mura, simbolo dello iato incolmabile che separa le due famiglie rivali, si apriva uno squarcio che lasciava intravedere la camera di Giulietta, spazio di un’intimità violata dalle rampogne genitoriali (ottima la scelta della regista di mostrare controscene durante alcuni numeri dell’opera, dove si osservava Adele, la madre di Giulietta, nel tentativo di convincere la figlia ad assuefarsi alla volontà paterna). Quella stessa stanza nel secondo atto, dopo il finto suicidio di Giulietta, ne diventa la tomba: la porta si chiude diventando lapide con tanto di sagoma crociata dalla quale fuoruscivano inquietanti vapori. Regia, scene, luci e costumi hanno attribuito all’opera di Vaccaj una tinta lugubre, in linea con quel romanticismo che all’altezza del 1825 rivalutò il gusto “gotico”. La stessa partitura indulge nel sonorizzare il funerale di Giulietta con colori scurissimi e con una lentezza che dilata, quasi fino a spezzarlo, il ritmo mimetico del dramma. Altro elemento di merito per la giovane regista è stata la scelta di far muovere i cantanti con un “realismo” di fondo e di lasciarli liberi di inventare una gestualità del tutto congrua con l’azione rappresentata: Adele che dopo la presunta morte di Giulietta, disperandosi sul corpo della figlia, scaccia il marito; Romeo che dell’adolescente ha il muoversi a scatti, nervoso; Giulietta che esibisce un eros al suo sbocciare, contenuto ma intenso (il prolungato bacio tra le due cantanti ha scosso il pubblico più tradizionalista!). La presenza di sei mimi ha ulteriormente dinamizzato questi gesti coinvolgenti ed espressivi. Al “realismo” va inoltre ricondotta la scelta di far morire Giulietta non a causa dell’inspiegabile struggimento che consuma quasi tutte le eroine dell’opera romantica (che nonostante la giovane età sono predisposte all’ictus), bensì per suicidio attuato sottraendo al padre il pugnale. Un gesto che emerge solo dal confronto con quanto prescritto dal libretto, ma in sé significativo di una volontà di attualizzare, almeno nei gesti, questo melodramma che fu schiacciato tra l’omonimo capolavoro di Nicola Zingarelli (1796) e I Capuleti e i Montecchi di Bellini (1830). Personaggio pivot dell’intera opera è Capellio, padre di Giulietta e motore del dramma, qui interpretato in modo magistrale dal tenore Leonardo Cortellazzi che si conferma interprete duttile e intelligente. La raffinatezza di fraseggio da lui sempre esibita in opere handeliane e mozartiane, la dizione perfetta appresa grazie alla lunga pratica con l’opera monte verdiana, si sono abbinate in questa incursione nell’opera del primo romanticismo che è risultata ugualmente congeniale alle sue corde. Squisita la Giulietta di Leonor Bonilla, soprano abilissimo nei filati e dal timbro prezioso che in quest’occasione ha saputo affrontare le fiorettature di Vaccai con estrema eleganza attribuendo al personaggio il giusto carattere.  Sempre pregevole la voce di Paoletta Marrocu per ricchezza di armonici e per qualità della pronuncia del testo; del tutto adeguato il suo timbro al personaggio della madre (spesso assente per ragioni antropologiche dal mondo del melodramma) e davvero memorabile la sua arte di attrice. Molto buona la prova di Raffaella Lupinacci: il suo Romeo era ora esuberante, ora languido, ora rabbioso; anche a lei va il merito di padroneggiare l’arte scenica; un unico appunto va fatto in merito agli attacchi un po’ sforzati, specie nei punti più gravi della sua parte (la linea di demarcazione tra contralto e mezzosoprano è sempre labile e insidiosa). Lodevole il Lorenzo di Christian Senn che palesa una voce uniforme e di bel volume, mentre il Tebaldo di Vasa Stajkic non ha del tutto convinto forse per una certa immaturità con il palcoscenico (era spesso indietro negli attacchi) che di certo migliorerà con l’esperienza, visto che la grana della voce è presente. Valida la performance del coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati, coro che, come di prassi per un’opera del 1825, è a tutti gli effetti un protagonista canoro cui viene richiesto uno sforzo costante di interazione con i solisti. Il debutto al Valle d’Itria della giovane orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala è stato un successo incondizionato: vedere ragazzi e ragazze così preparati e motivati è una gioia per il pubblico. Gran parte del merito va anche alla concentrazione di Sesto Quatrini che si conferma uno dei più preparati direttori delle ultime generazioni. Lo studio meticoloso della partitura di Vaccai (che con tanti altri autori “minori” condivide un eccesso di ricchezza di dettagli, a detrimento della tinta generale dell’opera) ha condotto a una direzione che ha saputo valorizzare ogni sfumatura timbrica. Foto Fabrizio Sansoni & Paolo Conserva