Milano, Teatro alla Scala: “Francesca da Rimini”

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’Opera 2017-18
FRANCESCA DA RIMINI
Tragedia in quattro atti, libretto di Tito Ricordi.
Musica di Riccardo Zandonai
Francesca MARIA JOSÈ SIRI
Samaritana ALISA KOLOSOVA
Ostasio ASHLEY DAVID PREWETT
Paolo il Bello MARCELO PUENTE
Giovanni lo Sciancato GABRIELE VIVIANI
Malatestino dall’Occhio LUCIANO GANCI
Biancofiore SARA ROSSINI*
Garsenda VALENTINA BOI
Altichiara DIANA HALLER
Adonella ALESSIA NADIN
Smaragdi IDUNNU MÜNCH
Ser Toldo MATTEO DESOLE
Il giullare ELIA FABBIAN
Il balestriere/Un prigioniero HUN KIM*
Il torrigiano LASHA SESITASHVILI*
*allievo dell’Accademia Teatro alla Scala
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano
Direttore 
 Fabio Luisi
Maestro del Coro Bruno Casoni
Regia David Pountney
Scene Leslie Travers
Costumi Marie-Jeanne Lecca
Luci Fabrice Kebour
Movimenti Coreografici Denni Sayers
Nuova produzione del Teatro alla Scala di Milano
Milano, 21 aprile 2018
Quando D’Annunzio (e con lui Tito Ricordi iunior) scrive la “Francesca da Rimini”, non ha certamente intenti storicisti: gli interessa invece il focus emotivo e tragico della storia, e lo ambienta in un medioevo tratteggiato e storicamente rarefatto, un medioevo rifatto sui romanzi cavallereschi e sulle chanson de gestes. I personaggi sono invece creature con coscienza tutta estetizzante, belle époque, genericamente decadente, personaggi che paiono usciti dai “Romanzi della Rosa”, più che da “Tristano e Isotta”. Francesca, Gianciotto, Paolo e Malatestino sono i colti esponenti di un’aristocrazia che si vorrebbe dispotica e battagliera, ma che in realtà si scioglie tra spasimi, languori e chimere. La puntualizzazione serve ad avvicinare la messinscena dell’opera che La Scala sta correntemente recitando, a cura del celebrato David Pountney e della sua squadra (scene di Leslie Travers, costumi di Marie-Jeanne Lecca, Fabrice Kebour alle luci). Non ci si deve scandalizzare se in scena compaiono, contemporaneamente, pistole Parabellum, cannoni da incrociatore americano e balestre quattrocentesche, abiti cinquecenteschi, corazze duecentesche e divise nazifasciste: quello che si vuole dare è la sensazione di un medioevo, che potrebbe essere pure un medioevo dell’anima, della ragione, più che della storia – esattamente come medioevo della ragione è stata la stagione dei totalitarismi. E questa è senza dubbio una scelta interessante, non priva di fascino. Se non fosse che arriva un “ma”. Il “ma” in questione sta in un uso insensato ed esagerato delle risorse scaligere per mettere in scena questa buona idea, rispettosa anche, come già detto, dell’intento degli autori: la scena è dominata da un gigantesco doppio praticabile rotante, quello centrale ospita una scalinata bianca con un’enorme scultura neoclassica, quello concentrico e più esterno, invece, è occupato da una impalacatura metallica convessa, tutta scalette e balconate, ben equipaggiata da cannoni scintillanti e funzionanti. In proscenio un tavolino e due sedie pieghevoli che sembrano arrivare dal déhors di un bar. L’idea, buona, come già detto, annega letteralmente in un’accozzaglia di elementi che tra loro non comunicano, peraltro giganteschi e illuminati non troppo bene; i cantanti, che nel primo ambiente risaltano, nel secondo letteralmente scompaiono nella “prigione” malatestiana, anche i protagonisti. La celebre scena del vino, che ossessionerà Francesca per tutt’e due gli atti seguenti, nemmeno si nota, considerato che avviene in mezzo al coro, alle armi, alle munizioni, e, per di più, al secondo piano di quella struttura, altezza poco adatta anche alla ricezione dell’emissione vocale. Certo, i cannoni sparano davvero, compreso uno gigantesco che fa il suo ingresso poco prima dell’intervallo; certo, l’aereo fumante appena schiantato nella camera di Francesca è un’immagine forte; certo ci aggradano le (peraltro bravissime, e ben dirette da Denni Sayers) danzatrici a seno scoperto nel seguito di Francesca, o il letto a forma di libro, con tanto di lenzuola stampate a caratteri miniati. Ma cui prodest? Certo non allo spettatore, che si deve già orientare all’interno di un’opera che, a centoquattro anni dalla sua prima realizzazione, è ancora quasi inedita – spettatore che, se non avveduto, nemmeno conosce la storia, giacché solo gli ultimi due atti ricalcano il celeberrimo V dell’“Inferno”. Né giova ai cantanti, penalizzatissimi e non esaltati dall’assetto scena-costumi-luci – perché anche i costumi, tutti identici per i Malatesta, non aiutano: riconosciamo Gianciotto perché Viviani zoppica più che vistosamente, Paolo per un taglio di capelli à la Renaissance, Malatestino solo dopo la perdita dell’occhio e il provvido arrivo di una benda; solo Francesca viene in qualche modo caratterizzata tra le sue dame, anch’esse tutte identiche tra loro. Un simile allestimento si sarebbe potuto tentare per un’opera che lo spettatore conosce già, un’opera che non occorre seguire, una “Traviata”, un “Barbiere”, non un’opera semisconosciuta, tutta da scoprire. Lo sforzo, per lo spettatore odierno, è troppo: ed ecco emergere, tra il pubblico scaligero, teste ciondolanti, quando non platealmente buttate all’indietro a fauce aperta; o ancora, cosa ben più grave, tra i più giovani (e dunque più importanti per la nostra sopravvivenza) spunta una miriade di telefonini, certo meno interessanti, ma di più immediata fruizione rispetto a un allestimento che non lascia ben intendere la vicenda, scritta peraltro già in un italiano, è proprio il caso di dirlo, dannunziano. Fa male dirselo, ma me l’aspettavo: perché le foto delle scene mi erano già giunte, perché non si può assegnare a una produzione d’oltralpe, che nemmeno capisce esattamente quanto ci dice il libretto, né come ci parli, il compito di renderlo comprensibile per noi. Siamo di fronte a una scelta che lascia perplessi, e la risposta del pubblico è chiara: dopo l’uscita di tutti gli elementi del cast per i primi applausi, il teatro, già riempito a metà, si vuota con naturalezza, rimanendo in un centinaio solamente ad applaudire le seconde uscite degli interpreti. Non è l’effetto “sabato sera” (data la più che settuagenaria età media della sala): è il più che legittimo desiderio di non applaudire qualcosa che non si è capito del tutto.  Ma veniamo invece all’apparato musicale, che ci riserva qualche gioia, anch’essa prevedibile: la conduzione del Maestro Fabio Luisi è semplicemente perfetta, accompagna una partitura già splendida di suo, calcando giustamente la bacchetta sulla ricreazione delle atmosfere, tanto care a Zandonai. Siamo di fronte a un Puccini che si scontra con Stravinskij, per lasciar spazio a “Tristan und Isolde” nel terzo atto, iperwagneriano: l’opera è magistrale, senza dubbio, e la conduzione di Luisi sa amplificare tanta magnificenza. È lui il vero protagonista, senza se e senza ma, a lui si tributano, più che giustamente, anche i “bravo” e gli applausi più calorosi. Altra prevedibile fonte di godimento è il Gianciotto di Gabriele Viviani: il cantante toscano si riconferma uno dei più interessanti baritoni in circolazione, dotato di una voce piena, ricca di colori e perfettamente controllata; non delude nemmeno dal punto di vista teatrale, ricreando con personalità il personaggio in scena, svelando una buona varietà mimico-espressiva. Stupisce, invece, il Malatestino di Luciano Ganci: se vocalmente già tenevamo d’occhio questo tenore, in “Francesca da Rimini” è la sua resa scenica che spicca, specie nel duetto con Francesca del quarto atto. È chiaro che il “fanciullo perverso” sia un personaggio stimolante, e Ganci sa convincerci della sua interpretazione precisa e vibrante. Qualche imprecisione, certo dovuta a una tendenza sovrintepretativa, caratterizza invece il Paolo di Marcelo Puente, che dà il meglio di sé, giustamente, nel terzo atto, ma poi sembra come appannarsi, forse per un’emissione vocale, come già detto, esageratamente espressiva; in ogni caso, il buon tenore argentino regala anche emozioni con la sua presenza scenica e le sue capacità attorali. Dispiace, invece, dover testimoniare come Francesca da Rimini non sia la parte in cui spicchi il valore di Maria Josè Siri: l’emissione della soprano è troppo debole rispetto alla potenza quasi devastante dell’orchestra, che sovente la copre. Abbiamo l’impressione, inoltre, che sia proprio la Siri la maggiore “vittima” della messa in scena: obbligata nel secondo atto a cantare sul ponteggio, anche la sua voce, come quella di Puente, sembra disperdersi. Quando può solamente dedicarsi al canto, allora ritroviamo una Siri convincente, dalla vocalità pulita, precisa, emozionante, ma l’impressione generale è che la soprano uruguayana si affatichi in una parte forse troppo spinta. La ritroveremo nel “Don Carlo” di Bologna, a giugno, e siamo certi che in un ruolo, comunque non certo leggero, come quello di Elisabetta di Valois, saprà darci nuove soddisfazioni. Infine, un plauso va senza dubbio al quartetto del seguito di Francesca: Valentina Boi, Diana Haller e Alessia Nadin sanno rendere, insieme, la splendida tessitura di questo piccolo coro femminile, e l’allieva dell’Accademia della Scala Sara Rossini si integra bene con le più esperte colleghe; anche il Giullare di Elia Fabbian è ben recitato e sostenuto vocalmente; fascinosa, potente ma a tratti imprecisa è invece la Smaragdi della mezzosoprano tedesca Idunnu Münch.Il merito maggiore, comunque, di questa produzione sta nella scelta stessa del titolo: “Francesca da Rimini” deve ritornare ad essere un’opera di repertorio (insieme all’altro capolavoro di Zandonai, “Giulietta e Romeo”, di valore pari, a tratti anche maggiore), se non altro per riuscire a staccare il pubblico italiano da una concezione senz’altro limitata dell’opera nostrana, troppo spesso legata a zumpappà e tralalà, a sentimenti facili e orecchiabilità. Non mi sembra, tuttavia, che una produzione come quella scaligera possa adempiere a questo compito, rischiando invece di allontanare paradossalmente ancor di più il pubblico dall’opera Novecentesca. Foto Brescia & Amisano