Milano, Teatro alla Scala: “Turandot”

Milano, Teatro alla Scala – Stagione dopera e balletto 2014-2015
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Completamento del terzo atto di Luciano Berio
Turandot  NINA STEMME
Altoum  CARLO BOSI
Timur  ALEXANDER TSYMBALYUK
Il Principe Ignoto (Calaf)  ALEKSANDRS ANTONENKO
Liù  MARIA AGRESTA
Ping  ANGELO VECCIA
Pang  ROBERTO COVATTA
Pong  BLAGOJ NACOSKI
Un Mandarino  GIANLUCA BREDA
Principe di Persia  AZER RZA-ZADA
Prima ancella  BARBARA RITA LAVARIAN
Seconda ancella  KJERSTI ØDEGAARD
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
con la partecipazione del Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.
Direttore Riccardo Chailly
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Nikolaus Lehnhoff
Scenografia Raimund Bauer
Costumi Andrea Schmidt-Futterer
Coreografia Denni Sayers
Luci Duane Schuler
Produzione dell’Opera Nazionale Olandese, Amsterdam.
Milano, 8 maggio 2015     
Nuovi inizi. Una Turandot discussa e attesissima che, inaugurata l’Esposizione Universale il primo maggio, ha aperto ufficialmente il ciclo “La Scala per Expo”, iniziativa che prevede l’apertura ininterrotta del teatro meneghino fino al 31 ottobre 2015 (qui il programma completo). Non solo, questo spettacolo segna anche l’esordio sul podio di Riccardo Chailly in qualità di Direttore Principale, nomina che rientra nelle misure di rinnovo che stanno interessando questa prima fase dell’era Pereira. In ultimo, ma non per importanza, assistiamo ad un ulteriore debutto legato più strettamente alla partitura e voluto fortemente dallo stesso Chailly: il completamento del terzo atto firmato da Luciano Berio – e non Alfano, cui ormai siamo abituati – finale per la prima volta proposto in forma scenica sul palco del Piermarini, dopo un’esecuzione in forma di concerto (Stagione 2008) guidata sempre dalla stessa bacchetta. Il buon rapporto d’intesa tra Chailly e Berio nacque nel 2002 quando alle Canarie si eseguì per la prima volta “Turandot” con questo nuovo finale, del quale il direttore milanese è dichiaratamente innamorato. Lasciamo a studiosi e musicologi più esperti analisi e confronti puntuali tra il Finale Berio e le due versioni di Alfano, una questione tanto interessante quanto dibattuta che invitiamo ad approfondire altrove. A livello del tutto soggettivo, chi scrive ha sempre dichiarato di preferire un brutale taglio alla Toscanini chiudendo l’opera con la morte di Liù. Qualcuno ha mai preso in considerazione di aggiungere il braccio sinistro al Cristo della Pietà Rondanini? Tuttavia gli appunti lasciati da Puccini sono abbastanza numerosi da giustificare il proposito di affidare il finale ad altri grandi compositori, partendo dalle bozze autografe. Premesso questo, sarà che l’utilizzo di 24 schizzi su 30 da parte di Berio (contro i 4/5 di Alfano) dimostra un rispetto estremo verso le intenzioni del compositore, sarà che il linguaggio contemporaneo di Berio tutto sommato ben si sposa con il gusto pucciniano, sarà che così splendidamente diretto diventi inevitabilmente un piacere da ascoltare, questo finale è – per gusto meramente personale – di gran lunga preferibile all’eccessiva pomposità grottesca del Finale Alfano cui ci hanno abituati. Tornando a Puccini, Chailly dimostra ancora una volta profonda conoscenza e grande amore per l’incompiuta del genio toscano, e la sua direzione infiamma e sorprende di conseguenza. Riesce a spremere fino al midollo la sempre eccellente Orchestra del Teatro alla Scala per estrarne un campionario di sonorità che hanno tutta la forza e il sapore del Novecento, già così vivido nella sua crudezza in quest’ultimo capolavoro pucciniano. Chailly esalta questa natura d’avanguardia ponendo forte accento sugli elementi dissonanti, a partire dalle staffilate in re minore e do diesis maggiore della scena iniziale “Popolo di Pekino!” (quasi un richiamo a Stravinskij). L’attenzione è massima anche nella gestione degli interventi percussionistici, dal gong allo xilofono, che contribuiscono in primis ad alimentare la vena lugubre e inquietante dell’intreccio e a richiamarne inoltre a tratti l’esotismo accanto alle numerose melodie di matrice orientale. Anche le componenti più legate alla tradizione, pur rielaborata, presenti in “Turandot” vengono altrettanto valorizzate dalla bacchetta milanese, che sa intessere sapientemente una serie di cromatismi impressionistici che impreziosiscono pagine come le arie di Liù, la prima in particolare, o le eteree parentesi naturalistiche affidate al Coro, come sempre raffinatamente preparato da Bruno Casoni.  Analizziamo ora l’allestimento, di cui parecchio si sta discutendo e che continua a dividere critici e appassionati. A nostro parere la produzione firmata dal regista Nikolaus Lehnhoff si rivela chiave fondamentale per il successo di questo spettacolo, insieme all’eccezionale direzione appena descritta e all’insolita proposta del Finale Berio. Probabilmente non è ciascuno di questi tre elementi a risultare vincente di per sé, ma piuttosto l’efficace sinergia e coerenza che li lega l’uno all’altro. Ciò che inizialmente Lehnhoff vuole mostrarci è un lugubre mondo senza tempo – il regno di una metafisica Turandot – dove dominano terrore e violenza ancestrale, un riscontro perfetto per la lettura cruda e viscerale di Chailly. Questo regno inquietante prende forma nell’imponente e pulitissima scenografia di Raimund Bauer, che ricrea uno spazio simmetrico e claustrofobico delimitato da pareti inclinate costellate di chiodi, come un’infernale fortezza rosso sangue. Una struttura imponente e pulitissima, intelligentemente progettata con balconi, botole, ingressi e piattaforme mobili che ben si prestano a soluzioni registiche interessanti e movimenti delle masse particolarmente suggestivi. Un impianto scenico motivatamente statico, il cui principale obiettivo sembra quello di lasciare spazio alla musica: funzionale, rispettoso, suggestivo nella sua sinteticità che ben si presta ai suggestivi contrasti cromatici rosso-giallo-bianco fino al blu (luci di Duane Schuler). Anche i costumi di Andrea Schmidt-Futterer seguono una linea moderna e decisamente minimal. Le sue soluzioni risultano efficaci e suggestive in alcuni casi, meno in altri. Ottima è la caratterizzazione di Ping, Pang e Pong, riportati alle maschere giocose derivanti dalla Commedia dell’Arte per recuperare quella vena ironica che spesso manca nei tre ministri (senza rinunciare alla caratterizzazione sadica ben resa da trucco e parrucco, che forse fanno anche troppo pagliaccio diabolico evaso da un film horror). Meno riusciti i funzionari con cilindri e mani mozzate luminose (?), il Mandarino “Cappellaio Matto” armato di ventaglio o il discutibile abito piumato di Turandot affibiatole da “In questa reggia” in avanti. Elegante e singolare invece l’apparizione in abito bianco della statuaria principessa, pronta ad emettere dall’enorme porta circolare la sua ovvia sentenza sul Principe di Persia, nudo e inerme al suo cospetto. Curioso anche lo scettro curvo, a metà tra una simbolica falce e uno spicchio di luna insanguinato. Tornando alla regia, altro elemento fondamentale è la caratterizzazione del popolo. La folla è ridotta a presenza spettrale, disumanizzata da maschere, cappelli e lunghi abiti neri. Sono tutti sottomessi al terrore imposto da Turandot e allo stesso tempo assuefatti dalla violenza, tanto da inneggiare spontaneamente alla morte in un’inquietante danza rituale intorno al fuoco (“Gira la cote”). L’elemento della ritualità è fortemente presente nell’opera (pensiamo in questo senso all’ossessiva ripetizione del numero 3: gli enigmi, i colpi di gong, la triplice ripetizione delle soluzioni ecc.) e rimanda ad un’atmosfera barbarica e selvaggia che come pervade la musica pervade anche questa messinscena. Alla brutalità si contrappone invece l’umanità di Liù che, come Timur, spicca in abito bianco nell’oscurità della scena e della folla. La figura di Liù e della sua sublimazione nel sacrificio del terzo atto è elemento centrale della regia di Lehnhoff, che alla prima rappresentazione ad Amsterdam ottenne – dopo iniziali perplessità – il placet convinto dello stesso Berio. Nel finale avviene qualcosa di inedito: il corpo senza vita dell’ancella rimane in scena fino al termine dell’opera frapponendosi tra Calaf e Turandot, a simboleggiare il prezzo indelebile della loro unione. Una soluzione registica interessantissima e coerente non tanto con il libretto che prevede l’uscita di scena, ma ancora una volta con la partitura, sposandosi perfettamente con l’impostazione del finale secondo Berio, dove il tema di Liù ritorna ripetutamente fino al calare del sipario.  Se quanto descritto fino a questo punto, dall’orchestrazione all’allestimento, rende certamente memorabile questa “Turandot”, più discontinuo è il livello del cast vocale. La protagonista ha sembianze e voce della nordica Nina Stemme, algida come si conviene al personaggio, nobile e affascinante (quando il physique du role della Principessa sembra essere un optional in tante altre produzioni). L’artista svedese, da wagneriana di razza qual è, dal vivo impressiona per straordinaria potenza vocale, in grado di sovrastare con facilità un foltissimo coro e un’orchestra autorizzata da Chailly a non risparmiarsi troppo sul fronte del volume. Tuttavia nel repertorio italiano il soprano presenta ancora varie lacune a partire da fraseggio e dizione, decisamente perfettibili. Altra criticità evidente è la quasi totale assenza di legato, fattore che si traduce in una certa legnosità interpretativa percepibile già dall’aria di sortita “In questa reggia”, pagina notoriamente insidiosa costruita su un declamato nel quale si intrecciano sofisticati cromatismi cui la Stemme non rende particolare giustizia, come anche nella “Scena degli Enigmi”. Più convincente invece nel finale, dove allo “scioglimento” della gelida principessa corrisponde anche una maggiore disinvoltura musicale e una migliore resa espressiva. È ben più carente il Calaf di Aleksandrs Antonenko. Partendo dal presupposto che non basti avere tanti polmoni per risolvere il ruolo, le nette carenze nel fraseggio abbinate ad un fastidioso e continuo vibrato portano drammaticamente la performance del tenore sotto la soglia dell’accettabile. Puntare tutto su squillo e spinta permette ad Antonenko di portare a casa in qualche modo quelle pagine che richiedono maggior impeto, come la triplice risposta agli enigmi. Nei passaggi più lirici tuttavia, quella stessa spinta costante, talora eccessiva, supportata da una tecnica piuttosto rozza, porta ad un’interpretazione diffusamente scomposta e – nei casi più critici – ai limiti della stecca. In sintesi, sin dal “Non piangere Liù” vien da piangere eccome. Insipido infine il “Nessun dorma”, pur cantato con volume notevole e senza particolari scivoloni in questa replica (non si infierisca oltre).
Di tutt’altra levatura l’eccezionale prova di Maria Agresta. Oltre alle ormai note qualità di tecnica, gusto e sensibilità musicale che spiccano sul resto del cast (e, diremmo, anche nel panorama lirico italiano e non) interessantissimo e inedito – con la complicità del regista – è il taglio espressivo che il soprano dà alla sua Liù. Non abbiamo di fronte una giovane ingenua vittima di un amore idealizzato come spesso viene rappresentata, ma piuttosto una donna di straordinaria forza e coraggio, ben cosciente del sacrificio che andrà a compiere per l’uomo amato. Un temperamento forte, quasi aggressivo nel fronteggiare Turandot (“Tu, che di gel sei cinta”) che non esclude però l’estrema dolcezza propria del personaggio, di cui è pienamente intrisa l’aria “Signore, ascolta”: dalle corpose mezzevoci agli acuti stabilmente cesellati sul fiato, la Agresta si muove con naturalezza in ogni angolo della tessitura. Il fraseggio è curatissimo e l’emissione sempre cristallina, raggiungendo l’apice della perfezione in chiusura con un “Liù non regge più…Ah!” che per delicatezza ha persino del mistico. Sempre al suo fianco in palcoscenico l’ottimo Timur di Alexander Tsymbalyuk, giovane basso forte di un gradevolissimo timbro brunito e voce carica di armonici. Da segnalare in particolare il suo struggente “Liù, sorgi!”, nell’ultima apparizione al terzo atto. Vincente il trio Angelo Veccia – Roberto Covatta – Blagoj Nacoski, rispettivamente Ping, Pang e Pong, veri mattatori della scena. Nonostante i costumi tanto suggestivi quanto ingombranti, si destreggiano abilmente in danze, corse e salti dimostrando grande intesa e riuscendo contemporaneamente a gestire il canto con sinergica espressività. Infine Carlo Bosi impersona un imperatore solenne e nobile nella sua scenografica e breve apparizione, sfoggiando un gradevole timbro caldo e voce ben proiettata.  Buoni gli interventi delle ancelle (Barbara Rita Levarian e Kjersti Ødegaard), approssimativo il Mandarino di Gianluca Breda, corretto l’intervento del Principe di Persia (Azer Rza-Zada).  In occasione di questa terza recita, come la sera della Prima, ovazioni per Agresta e Chailly da un Teatro alla Scala gremito ed entusiasta. Sold-out anche per le restanti repliche.