Modena:”La Clemenza di Tito”

Modena, Teatro Comunale, Stagione lirica 2013/14
“LA CLEMENZA DI TITO”
Opera seria in due atti. Libretto di Caterino Tommaso Mazzolà, Pietro Metastasio.
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart 
Tito Vespasiano PAOLO FANALE
Vitellia TERESA ROMANO
Servilia RUZAN MANTASHYAN
Sesto GABRIELLA SBORGI
Annio AURORA FAGGIOLI
Publio VALERIU CARADJA
Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Coro Lirico Amadeus-Fondazione Teatro Comunale di Modena
Direttore Eric Hull
Maestro del coro Stefano Colò
Regia Walter Pagliaro
Scene e costumi Luigi Perego
Luci Andrea Ricci
Coproduzione Fondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione I Teatri di Reggio Emilia
Allestimento della Fondazione Lirico-Sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari
Modena, 7 febbraio 2014  

La Clemenza d iTitoCi sono opere difficili. Ci sono opere che non è obbligatorio fare. E fra tutte le opere difficili La clemenza di Tito di Mozart occupa un posto piuttosto alto della lista. Innanzi tutto è difficile trovare un cast adeguato (specialmente per il difficile ruolo di Vitellia). L’opera non è nemmeno così ignota da giustificarsi come riscoperta musicologica e il pubblico ne conosce almeno due arie (“Parto, ma tu ben mio” e “Non più di fiori”) per averle sentite in numerosi recital. Ma soprattutto è difficile far funzionare La clemenza da un punto di vista teatrale.
Mozart avrebbe preferito ben altro libretto che non questo vetusto testo di Metastasio (scritto nel 1734 e musicato per la prima volta da Caldara) sulla sovrumana bontà di un sovrano, scelto dall’impresario Guardasoni nel desiderio di adulare il nuovo imperatore Leopoldo II e la corte, che invece ne fu annoiata a morte. Il poeta di corte Caterino Mazzolà aveva rimodernato il testo, dando a Mozart la possibilità di utilizzare forme più moderne (duetti, terzetti, concertati) che non la solita alternanza di recitativi ed arie solistiche tipiche dell’opera seria di 60 anni prima. Mozart si è molto impegnato a seguire le oscillazioni psicologiche dei suoi personaggi, scrivendo della meravigliosa musica da concerto (giustamente celebri sono le arie col clarinetto e il corno di bassetto concertanti), che nei suoi stilemi espressivi guarda al vecchio mondo dell’opera seria, ma nelle sue strutture fluide presagisce già le soluzioni che saranno poi di Beethoven e Weber. Ma resta il fatto che questo è un dramma in cui non succede niente di niente e i personaggi sono insopportabilmente nobili eLa Clemenza di iTito monocordi, salvo la viperina Vitellia, il cui pentimento però è molto lontano dall’essere credibile.
Per tutto il primo atto Vitellia vuole convincere il suo psicolabile spasimante Sesto a uccidere Tito, da cui si ritiene molto offesa perché anziché sposare lei prima se la fa con Berenice (che non compare in scena) e poi con Servilia. Dal canto suo, Sesto è dubbioso, perché Vitellia è molto bella ma Tito è molto buono. Alla fine si fa convincere ma, un attimo dopo, Vitellia scopre che Tito, nella sua grande bontà, ha deciso di rinunciare a Servilia, la quale gli ha confessato di essere innamorata di Annio, e che l’imperatore, sia pure come terza scelta, ha deciso di prendere lei in sposa. Ormai però è troppo tardi per fermare la congiura (di cui Sesto è già pentito): il Campidoglio è in fiamme e Tito è morto. Nel secondo atto si scopre che Tito non era morto davvero. Sesto viene arrestato. Tito (che è tanto buono) vuole salvarlo e capire le motivazioni del suo gesto. Ma Sesto tace, per salvare Vitellia, la quale però si pente e si autodenuncia. Prevedibilmente Tito, che se non si fosse capito è proprio buono, tanto buono, perdona tutti.
La Clemenza d iTitoQuando, a ragione, si dice che la musica della Clemenza di Tito è “da concerto” non si vuole dire che Mozart si sia disinteressato al dramma. Tutt’altro. In particolare i numeri scritti dal Mazzolà, come il finale del I Atto e i due terzetti dell’Atto II, sono veri capolavori di teatro. Ma si tratta di un teatro paradossale, un teatro dell’ascolto, tutto intimo e psicologico, un teatro programmaticamente antiteatrale, in cui la cristallizzazione del sentimento tipica dell’opera seria raggiunge vette parossistiche proprio in quei momenti d’insieme che avrebbero dovuto movimentare l’azione. In maniera non dissimile dal Fidelio, La clemenza di Tito è perfetta per l’esecuzione in forma di concerto, in cui l’ascoltatore può concentrarsi unicamente sulla musica, vera depositaria del dramma. Se deve essere portata in scena, non è certo una regia didascalica come quella di Walter Pagliaro che può darle vita. Seguire il libretto come se fosse un testo di prosa va benissimo per Tosca o Rigoletto e può funzionare anche per Le nozze di Figaro, ma ne La clemenza di Tito la musica va molto al di là delle parole (anche solo a livello di tempistica) e il regista deve essere in grado di capire o immaginare dove stia andando. La regia di Pagliaro quindi, pur non facendo nulla di sbagliato, non fa nemmeno nulla di giusto.  Non si passerà sotto silenzio però un esilarante scivolone in cui il regista si è abbandonato a uno dei più ridicoli errori del teatro d’opera: visualizzare le metafore. In un recitativo in cui Tito, che come al solito si lamenta del peso del potere, invidia la sorte di un “villanel mendico”, che può dormire sogni tranquilli perché non deve temere di essere tradito (ma solo di morire di fame…), Pagliaro fa sbucare un pastorello che si mette a dormire per terra per circa 15 secondi, per poi tornarsene da dove era venuto. Per un attimo il pubblico teme che il tenore possa confondersi e passare all’Arlesiana…
Per quanto riguarda la musica, come di consueto, mancava almeno la metà delle appoggiature che sarebberoLa Clemenza di Tito necessarie in ogni frase di un recitativo e in moltissime frasi delle arie. Ma si sa: nel secolo scorso (il secolo dei totalitarismi) i musicisti si sono stati abituati a eseguire esattamente le note che trovano scritte sulla partitura in loro possesso e difficilmente possono essere convinti che la notazione musicale sia una convenzione arbitraria e che le convenzioni di scrittura di Mozart fossero diverse da quelle di Rachmaninov, come ampiamente testimoniato da numerosi trattati del suo tempo (questi sconosciuti). Cercando di apprezzare il lato positivo, ci si potrebbe rallegrare che almeno un 50% delle appoggiature necessarie fosse presente. Considerando quello che si fa con Mozart e Rossini nei teatri italiani ancora nel 2014, non è una brutta media. Il direttore Eric Hull ha prediletto tempi piuttosto lenti, ulteriormente frenati poi dai cantanti (Sesto e Vitellia in primis), e sembra aver adottato uno stile di direzione molto non-interventista ed eccessivamente fiducioso, dove invece sarebbe un approccio più deciso sarebbe stato opportuno, specialmente dal momento che quest’opera prevede due o tre cambi di tempo quasi in ogni numero musicale. Come risultato, la coesione ritmica tra un’orchestra svogliata e cantanti troppo auto-indulgenti ha lasciato molto spesso a desiderare, rendendo l’ascolto piuttosto faticoso.
La Clemenza di TitoTemperamentosa, dotata di bei centri ed una ricchissima voce di petto (che talora si spinge più in alto di quanto sarebbe consigliabile per la salute vocale o per il gusto – almeno per il gusto quello di chi scrive), il soprano lirico-drammatico Teresa Romano sarebbe – rara avis  – una Vitellia perfetta, se anche gli acuti fossero a posto. Disgraziatamente non lo sono o almeno non lo erano in questa circostanza, in cui sono apparsi “aperti” e nel Finale dell’Atto I ad un passo dallo strillo. Anche Gabriella Sborgi (Sesto), artista ammirevole per la sua versatilità (solo pochi mesi fa molto apprezzata da chi scrive come Mrs Grose nel Turn of the Screw a Bologna), ha una bella voce di mezzosoprano, ma il suo vibrato largo la rende una mozartiana piuttosto improbabile. Nella grande aria del primo atto era impossibile distinguere le agilità dal vibrato. Un simile problema affligge anche Aurora Faggioli (Annio), nonostante la voce più piccola e a dispetto della sua giovanissima età. Tutte e tre le artiste hanno avuto più di un momento felice (ad esempio, nel caso della Sborgi e della Romano, le parti più cantabili delle loro arie del secondo atto), ma l’impressione generale è quella di una sostanziale estraneità al linguaggio musicale mozartiano. In mezzo a tanti traballamenti, la voce limpida del garbato sopranino Ruzan Mantashyan è giunta come un raggio di sole e dispiace che Mozart abbia destinato a Servilia una sola breve arietta (quantunque incantevole). Adeguato il Publio del baritono Valeriu Caradja, seppure con una voce un po’ “indietro” nei recitativi.
L’unica motivazione plausibile per questo allestimento della Clemenza è stato il Tito di Paolo Fanale, giovane tenore lirico siciliano che sta facendo una meritata carriera internazionale che l’ha di recente portato al Met (come Fenton), grazie ad una voce fresca, squillante e naturale, accoppiata ad una buona tecnica e ad una bella presenza fisica. La sua dizione chiara è stata una benedizione per i tantissimi recitativi del ruolo e rispetto ai colleghi ha dimostrato anche una maggiore disponibilità a eseguire le corrette appoggiature. Il ruolo, scritto per il tenore Baglioni, che fu il primo Don Ottavio praghese, si basa soprattutto sul centro della voce, ma ci sono anche colorature ed acuti (spesso scomodi). Fanale ha saputo essere all’altezza di tutte e tre le sfide e la grande aria “Se all’impero, amici dei” è stata senza dubbio il momento migliore dello spettacolo. Non sono sicuro che questo basti a giustificare un allestimento di questa opera difficile, ma bisogna sapersi accontentare. P.V.Montanari