Opera di Firenze: “Carmen”

Opera di FirenzeStagione 2017-2018
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti
Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratto da Carmen di Prosper Mérimée
Musica di Georges Bizet
Carmen VERONICA SIMEONI
Micaela LAURA GIORDANO
Frasquita ELEONORA BELLOCCI
Mercédès GIADA FRASCONI
Don José ROBERTO ARONICA
Escamillo BURAK BILGILI
Le Dancaire DARIO SHIKMIRI
Le Remendado GREGORY BONFATTI
Zuniga ADRIANO GRAMIGNI
Morales QIANGMING DOU
Un Bohémien GABRIELE SPINA
Une Marchande RAMONA GABRIELA PETER
Lillas Pastia RUFIN DHO ZEYENOUIN
Orchestra, Coro e Coro delle voci bianche del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Ryan McAdams
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Leo Muscato
Scene Andrea Belli
Costumi Margherita Baldoni
Luci Alessandro Verazzi
Firenze, 18 gennaio 2018
È difficile parlare di questa Carmen dopo che, per venti giorni abbondanti, ne hanno scritto in centinaia un po’ ovunque, sul web e sulla carta stampata. Ne hanno detto – chi bene chi male – melomani, critici, musicisti, giornalisti, politici. Perché? Per via del finale: un finale antitradizionale, rivoluzionario nelle intenzioni, in cui Carmen ammazza Josè; un finale “nuovo”, annunciato con un certo anticipo rispetto all’inizio delle recite con dichiarazioni alla stampa da parte del Teatro.
È difficile non ripetere cose che sono state già dette. Dato che non mi va di accodarmi comodamente dietro alla lunga fila dei plaudenti o dei detrattori, cercherò prima di tutto di dare risalto ai fatti, cercando di raccontarli semplicemente, e partendo proprio dal famoso finale che ha monopolizzato l’attenzione, perché mi sembra che tra la mole di cose che si sono scritte prevalgano in larga misura le impressioni, i giudizi, le prese di posizione, mentre chi non era a teatro e legge qua e là perché ha sviluppato una certa curiosità nei confronti di questo spettacolo, ha bisogno prima di tutto di sapere com’è andata.
Partiamo dall’inizio: le lavoratrici del Maggio chiedono al Sovrintendente un gesto che dimostri sensibilità nei confronti del triste fenomeno del femminicidio, il Sovrintendente convince il regista Leo Muscato ad approfittare a tal fine di questa produzione e i due, insieme, si inventano il finale modificato.
Come genesi di una regia d’Opera è un po’ singolare, ma così è o almeno questo è ciò che è stato dichiarato ufficialmente. Molti hanno malignato supponendo che la dichiarazione anticipata fosse una manovra per far parlare la stampa, mettere in subbuglio gli appassionati e attirare l’attenzione su una produzione che rischiava di passare inosservata. Può essere. Va però precisato che se manovra è stata, non è stata architettata per vendere biglietti, perché tutte le recite erano già sold-out da qualche tempo.
Se l’Opera lirica, come qualunque altra forma di spettacolo in cui si mette in scena un testo che già esiste, possa essere usata per sensibilizzare il pubblico o per trasmettere messaggi politici o sociali, cambiando, manipolando almeno un po’ il testo stesso, è una mera questione di opinioni.
Che per essere utili alla società si debba sostituire la cronaca alla poesia è un’idea nuova che non mi trova molto d’accordo, poi sono nemico di ogni censura e ritengo che l’accoltellamento a morte di Carmen in scena, visto con gli occhi del pubblico del XXI secolo, colpisca le coscienze più e meglio di qualunque operazione alternativa; la bravura del regista dovrebbe consistere semmai nel renderlo forte, tragico, bestiale.
E invece com’è questo finale – a parte il fatto che è lei ad uccidere lui e lo fa con un colpo di pistola – con quali mezzi viene condotta questa scena che dovrebbe scuotere, magari scandalizzare e lanciare un messaggio di valore sociale?
Raccontiamolo subito e togliamoci il pensiero, per poi analizzare aspetti più interessanti dello spettacolo.
Il duetto conclusivo si svolge nel modo più classico, Josè abbraccia le ginocchia di Carmen, la implora, lei lo respinge; quando per l’ultima volta lui le chiede di seguirlo e lei rifiuta, Josè, che è una specie di celerino, prende il manganello che ha alla cintura e colpisce Carmen alla schiena, all’altezza dei reni; lei cade, è sofferente, si sfila l’anello e lo getta, poi mentre Josè è distratto dal tripudio della folla, gli sottrae la pistola e la tiene nascosta. Si trascina perché le gambe non la reggono, non si riesce a capire se sia morente oppure solo un po’ ammaccata; quando lui si avventa di nuovo, forse per darle altre manganellate, lei tira fuori la rivoltella e spara. Josè, colpito, si avvia a morir cantando nella più classica tradizione melodrammatica, come mille Edgardi, Riccardi e Werther e all’irrompere dei gendarmi pronuncia la sua frase, perché non può fare altrimenti, incolpando se stesso: “mi potete arrestare!” dice lui che sta andandosene all’altro mondo, “l’ho uccisa io” e si riferisce a Carmen, che come ho detto non scoppia di salute, ma è viva, ha il busto sollevato e addirittura tende un braccio, non si sa se in un gesto di riconciliazione o nel tentativo di restituire qualcuno dei ceffoni che ha preso durante l’opera; poi si chiude il sipario togliendo d’impaccio i gendarmi, dubbiosi se arrestare uno che si proclama assassino mentre sta morendo perché ha una palla di piombo nel petto, o una supposta vittima che però è viva e ha in mano una pistola, stavolta davvero fumante. “Poche idee, ma confuse” diceva Flaiano.
È una scena debole, perché prima di tutto è debole la logica, dove anche il pathos scarseggia, benché i cantanti siano attori molto validi, specialmente lei; ma tutta la regia è un po’ debole: tutt’altro che rivoluzionaria, alterna la tranquilla tradizione a qualche idea blandamente innovativa, ma niente colpisce, non c’è niente di geniale, né di trasgressivo. La trasposizione temporale non è certo una novità; l’ambientazione all’interno di un campo rom della quasi totalità della vicenda, con presenza di filo spinato e poliziotti cattivi che maltrattano i nomadi, mi sembra un inchino a una certa visione della società un po’ retorica e banale.
Il personaggio di Carmen, dal punto di vista registico, è esattamente quello di mille altre messe in scena che abbiamo visto, fedeli al libretto; Don José invece è bicefalo, per metà il solito bravo figliolo, un po’ bamboccio un po’ mammone che va fuori di testa la prima volta che incontra una donna capace di svegliare i suoi sensi, per metà lo si vuole disegnare come un tipo un po’ più maturo e più squilibrato, che fa intuire un passato tormentato e violento, più vicino a Merimée che al libretto, peccato che la musica sia modellata su quest’ultimo e tratteggi un personaggio diverso; così le incongruenze non si possono non rilevare. Ad esempio: Don José canta l’”aria del fiore”, che altro non può essere che una dichiarazione d’amore struggente, Carmen gli propone di disertare e di seguirla con i contrabbandieri, lui rifiuta e dichiara di volersene andare, le dice “Adieux pour jamais”, ma anziché tentare di uscire di scena, impedito dall’ingresso di Zuniga, insegue Carmen dentro la sua roulotte brandendo minacciosamente il manganello; quando ne escono Carmen è insanguinata e malconcia, segno evidente che José l’ha presa a legnate, però poi tutto prosegue come se niente fosse successo, Carmen continua ad essere irridente e sfrontata, canta “Bel officier” con il giusto piglio ironico, ancheggiante e seduttiva, benché sia stata quasi ammazzata di botte un attimo prima; Don José invece è ancora torvo e minaccioso, però inneggia alla libertà e alla bellezza della vita errante, quando alla fine si unisce alla compagnia di fuorilegge, perché è ebbro d’amore per Carmen.
Allo stesso modo stupisce parecchio che un bruto, manganellatore incallito, si trasformi in un pupo innocente e gli salgano le lacrime agli occhi, ogni volta che qualcuno gli parla della mamma che lo aspetta al paese.
Così di cose che non tornano ce ne sono parecchie, non perché in ogni messa in scena si debba seguire puntigliosamente ciascuna didascalia del libretto, ma perché qui ciò che fa difetto è la logica, la consequenzialità, la credibilità dei personaggi e della vicenda; quando si studia una lettura alternativa non ci si può fermare a metà strada, bisogna riconsiderare tutti gli aspetti e riuscire a inserirli in un quadro complessivo coerente.
Le scene di Andrea Belli al contrario, sono funzionali, curate e dotate di una loro bellezza ruvida, con rare concessioni decorative, ma in un’Opera come Carmen come si fa a sfuggire del tutto al pittoresco? L’importante è cedere con moderazione e buon gusto e in questo caso mi sembra che il traguardo sia stato positivamente raggiunto, con il concorso delle bellissime luci di Alessandro Verazzi, veramente efficaci e suggestive. Anche i costumi di Margherita Baldoni sono belli, molto colorati, ma allo stesso tempo eleganti, studiati accuratamente per ogni personaggio, in modo da aderire al carattere e, sembrerebbe, anche al fisico dell’interprete, con l’unica eccezione del personaggio di Micaela, acconciata e abbigliata in modo da sembrare uscita da una favola per bambini, cosa che Carmen non è.
Per parlare della compagnia di canto vorrei iniziare proprio da Micaela e dal soprano Laura Giordano che la porta in scena. Non si tratta di un personaggio facile: cantare Micaela non è generalmente molto remunerativo in termini di applausi, la passione tra Don José e Carmen tende a schiacciarla e a tagliarla fuori; anche se ha un duetto e un’aria bellissimi, alla fine ci si dimentica un po’ di lei. Laura Giordano dimostra che le cose possono anche andare diversamente, che il personaggio può acquistare rilievo e incisività se letto nella chiave giusta, ovvero con semplicità, senza affettazione, evitando di caricare il candore, l’innocenza con tratti quasi infantili, nella recitazione e nel canto; la Micaela di Laura Giordano non è una bambolina – nonostante il costume, come dicevo – è una donna giovane, innamorata, piena di trasporto e di buone intenzioni, una creatura idealista con una certa dose di coraggio. Vocalmente tutto scorre nel migliore dei modi, la voce è luminosa, perfettamente proiettata, non c’è sforzo, non c’è un suono che non sia felice, morbido, bello; il canto “francese” è ottimo nello stile e nella dizione.
Veronica Simeoni è una brava cantante e un’attrice di classe, tra l’altro dotata di ottima presenza. Fino a circa metà della recita, pur ammirando le sue qualità, ho pensato che cantasse bene tutte le note della parte, ma che in fondo non “fosse” Carmen. Era un pensiero superficiale e sostanzialmente sbagliato. La Simeoni è una Carmen sui generis certamente, ma ben vengano artisti capaci di offrire una raffigurazione personale di un personaggio tanto popolare, con emissione imperturbabile, forte personalità, un canto tanto levigato e impeccabile da dare l’impressione di essere fin troppo raffinato. Questa Carmen quasi cameristica, che non mette in mostra velluti opulenti, ma sete finissime, seduce e affascina più di tante Carmen dalla voce grossa, dalle note di petto tonanti, che esibiscono una sensualità dirompente, ma un po’ grossolana. Passando al versante maschile le note sono meno liete.
Roberto Aronica entra efficacemente nei panni di questo Don José psicolabile, violento e brutale fino dalle primissime scene; ha il physique du rôle adeguato ed è sicuro e spigliato scenicamente. Dal punto di vista vocale fa il suo dovere, nei momenti più scabrosi il lungo mestiere lo soccorre, non ci sono incidenti, ma la fatica si avverte, l’emissione è tesa e pressata, lo smalto talvolta si sfalda e mostra la fibra; è diligente nell’assolvere a certe indicazioni dinamiche: chiude in pianissimo il duetto con Micaela – in un accettabile falsetto – e riesce a trovare una sorta di mezzavoce per la frase che ascende al si bemolle alla fine dell’”aria del fiore”, ma i suoni non sono bellissimi. Lascia abbastanza perplessi l’Escamillo di Burak Bilgili. Il cantante turco ha imponenza fisica e baldanza scenica, anche se la figura non è certo quella snella e scattante del torero. Ma il problema è la voce: aspra e cigolante anche nel più comodo registro centrale, è debole nei gravi e stirata negli acuti. Peccato perché le intenzioni interpretative sarebbero buone. Ai primi di gennaio ha avuto problemi di salute e ha dovuto rinunciare ad alcune recite; non avendolo sentito in altre occasioni posso immaginare che non si sia rimesso del tutto. Tra lo stuolo dei comprimari, tutti all’altezza del compito, si segnalano Giada Frasconi ed Eleonora Bellocci, Mercédès e Frasquita dall’ottima musicalità e dalla vocalità rifinita, Dario Shikmiri, Dancairo dalla notevole azione scenica, Adriano Gramigni e Qiangming Dou efficaci nei panni di Zuniga e Morales.
Tra gli zingari c’è una strana presenza, ha il look di un vecchio trombettista di New Orleans, in realtà è Lillas Pastia, affidato a Rufin Doh, che è un bravo attore di teatro, qui un po’ sprecato.
L’Orchestra del Maggio suona benissimo, il direttore Ryan McAdams tiene bene le fila della situazione, offre una lettura brillante, spedita e sgargiante di colori; in un paio di occasioni soltanto il suono un po’ troppo turgido rischia di coprire le voci e all’inizio del secondo atto il coro e i solisti si scollano per qualche secondo dalla buca creando un po’ di confusione, ma nel complesso il risultato è apprezzabile se preso episodio per episodio: l’Ouverture è ottima, così come ciascun Entr’acte, in particolare quello che prelude all’Atto III, nel quale si segnalano gli eccellenti fiati solisti; tutti i brani farebbero buona figura in un concerto, quello che latita è la visione generale, la tensione, la tragedia che incombe, il senso di corsa a perdifiato verso la morte. I ragazzi del Coro delle voci bianche sono bravissimi, incredibilmente affiatati e sonori, il Coro, diretto da Lorenzo Fratini, merita il massimo apprezzamento. Il Teatro è strapieno, esaurito nel senso più letterale del termine, pieno di giovani e anche di giovanissimi; gli applausi alla fine sono generosi per tutti.