Opera di Firenze, Opening Gala: “Otello” e “Tosca”

Opera di Firenze – 77° Festival del Maggio Musicale Fiorentino 
“OPENING GALA”
“OTELLO”
– Atto IV
Dramma lirico in quattro atti su libretto di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Otello GREGORY KUNDE
Desdemona MARIA AGRESTA
Emilia GABRIELLA SBORGI
Jago ARIS ARGIRIS
Cassio SAVERIO FIORE
Lodovico ALESSANDRO SPINA
Montano ITALO PROFERISCE
Regia, scene e video Mietta Corli
Costumi Mietta Corli, Luigi Benedetti   
Luci Vincent Longuemare   
Realizzazione tecnica video Studio Ideogamma di Sergio Metalli   
Assistente alla scenografia Edoardo Arcuri   
Nuovo allestimento
“TOSCA” – Atto I
Melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica
Musica di Giacomo Puccini  
Floria Tosca FIORENZA CEDOLINS
Mario Cavaradossi MARCO BERTI
Scarpia AMBROGIO MAESTRI
Angelotti ALESSANDRO SPINA
Il sagrestano ROBERTO DE CANDIA
Spoletta SAVERIO FIORE
Orchestra e Coro del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
I Ragazzi Cantori di Firenze
Direttore Zubin Mehta   
Maestro del Coro Lorenzo Fratini    
Maestro del Coro di voci bianche Marisol Carballo   
Regia Mario Pontiggia  
Scene e costumi Francesco Zito   
Luci Gianni Paolo Mirenda      
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, 10 maggio 2014  

Un’ansa di camicie bianco lucido, tratteggiata dalle cravatte nere del “dress code” e mossa dai variopinti abiti in lungo del pubblico femminile, abbraccia con eleganza gli avvolgenti elementi architettonici del nuovo teatro dell’opera di Firenze, la sera della sua inaugurazione. Avanzando per il camminamento che porta all’ingresso ci si sente come sulla passerella di una sfilata di moda, visti gli esponenti del mondo artistico, musicale e delle più elevate cariche politiche che ci passano accanto, creando scompiglio tra i giornalisti. Il pubblico viene accolto dal Maggio Musicale Fiorentino sulle piacevoli note del brano “Maggio” (tratto da “Ben venga maggio” di Poliziano) insieme ad elementi di storici allestimenti del teatro, come i cavalli monumentali che sembrano proteggere l’accesso alla struttura od i costumi della “Turandot”, che fluttuano sospesi a mezz’aria inducendo gli invitati ad alzare lo sguardo per apprezzare l’originale compenetrazione tra la porzione sferica in cui è racchiusa la platea con il solido inclinato la cui faccia più imponente costituisce la facciata del teatro. Con queste premesse, non ci stupiamo che la nuova sala d’opera colpisca per l’innovativo utilizzo dei materiali e per le moderne linee strutturali al servizio di un risultato acustico davvero prestigioso, che contribuisce a dare un senso di sospensione dalla realtà, ad un’atmosfera “magica” che s’instaura non appena le prime note si trasmettono per la sala, in virtù di una proiezione sonora singolarmente travolgente.
Il sipario si leva sul quarto atto della penultima opera di Giuseppe Verdi, la prima ad essere creata dopo il “periodo del silenzio” grazie alla collaborazione con Arrigo Boito, in cui le convenzioni formali non sono del tutto abbandonate o meglio, lo sono solo in parte, poiché anche solo nell’ultimo atto si riescono a rintracciare “forme chiuse”, seppur inserite in modo meno evidente rispetto alle composizioni del primo Verdi.
La scena di Mietta Corli, con l’assistenza di Edoardo Arcuri, comprende i principali elementi dettati dal libretto, come lo specchio sulla parete centrale, l’effige della Madonna, il grande letto matrimoniale in prospettiva angolare ed è racchiusa da pareti poliedriche sulle tonalità del grigio su cui è presente anche un largo camino davanti al quale si trova una sedia di legno. Curioso come, subito prime dell’entrata di Otello, specchio e camino spariscano per far posto a finestre che paiono scrutare Desdemona nel sonno: solo allora ci accorgiamo che alcune pareti sono sostanzialmente grandi schermi su cui video tecnici permettono la realizzazione scenica.
Pochi dettagli formano di fatto una scenografia i cui rimandi concettuali sono favoriti anche dalla programmazione illuminotecnica di Vincent Longuemare che utilizza luci fosche, con l’incisiva trovata di proiettarle, durante tutta la sezione iniziale di Desdemona, in modo da riprodurre il passaggio della luce attraverso le fronde ondose del salice a cui il soprano fa riferimento nella sua canzone e che ispirano un deciso senso d’ineluttabile drammaticità, potenziato anche dalle frasche dell’albero materializzate sulle pareti. Indicativo, inoltre, il cono di luce che dalla parete di mezzo inonda progressivamente i due protagonisti esanimi nel finale, quasi a suggerire un’unione suprema e come, durante la preghiera, Desdemona s’inginocchi sul letto, illuminata da un fascio di luce che inquadra inquietantemente anche i cuscini su cui morirà.
Se scene, luci e video risultano piuttosto funzionali, l’apparato registico sembra generico e prevalentemente lasciato all’inventiva degli interpreti. Si nota però una rilevante fusione tra i costumi, ai quali contribuisce anche Luigi Benedetti, e la regia, che risiede nei molteplici significati associati ad un semplice accessorio: lo scintillante mantello di Desdemona. Questo, infatti, viene indossato dalla protagonista per accingersi alla preghiera rivolta verso la rappresentazione della Madonna, favorendo così una dimensione di raccoglimento, ma in seguito, lasciato cadere in terra dalla donna prima di coricarsi, viene racconto da Otello il quale lo annusa mostrando qualche attimo di nostalgia al ricordo dell’amore che ancora prova verso la moglie, prima di utilizzarlo per strangolarla. Più in generale, i costumi mostrano semplicità e rispetto della tradizione, prevedendo un’elegante camicia da notte su toni scuri per Desdemona ed un abito piuttosto guerresco per Otello, teso probabilmente ad evidenziarne il lato cruento.
Divina la resa di Maria Agresta come Desdemona, punta di diamante della serata. L’interprete, a cui andava il delicato compito di essere il primo soprano a comparire in scena, si distingue per un vellutato timbro da soprano lirico, senza mai perdere di spessore nei differenti registri e capace di produrre acuti di emissione precisa in “piano”, mantenendo pieno controllo nelle lunghe tenute e nella regolarità del sottile vibrato, come prova la finezza del “La bemolle” acuto che conclude la sua “Ave Maria”. Il soprano dà prova di grande abilità ed esperienza nel volgere la linea di canto all’intento drammatico, lo si vede nel recitativo con Emilia ove gli interventi sono carichi di rassegnata angoscia od in prossimità della morte, quando gli accenti si fanno rotti da singhiozzi, indeboliti e piangenti, ma soprattutto nel modo in cui l’Agresta si approccia alla parte, arricchendola di staccati ben vibrati, “crescendo” su un’unica nota, “diminuendo” dal “forte” al “piano” all’interno di una frase e sfumature cromatiche che si assestano sul “piano” al momento della preghiera, celestiale parentesi di sospensione lirica. La memorabile frase “Ah! Emilia, Emilia, addio, Emilia, addio!” toglie ogni possibile dubbio sulla proiezione del suono, davvero ragguardevole poiché la voce viene veramente usata come strumento musicale, senza accenni a forzature in basso o stridori in alto, in piena sintonia con la tessitura. L’alto livello interpretativo le permette di essere una Desdemona credibile anche durante il momento registicamente statico della canzone del salice, in cui il soprano allontana il braccio ravvicinandolo a poco a poco sulle tre ripetizioni della parola “salce”, nel tentativo di afferrare qualcosa d’impalpabile, mentre la voce affronta con competenza tre differenti sfumature discendenti nel colore.  Il fraseggio è poi accuratissimo, come nel violento duetto con Otello, in cui la vediamo combattere per la vita man mano che prende coscienza delle intenzioni del marito, districandosi con tenacia nella disposizione sempre più ravvicinata delle voci programmata da Verdi ed infondendo l’efficace climax tensionale che culmina nel tragico epilogo. Il suo congedo, ricamato candidamente a fil di voce ed eseguito sapientemente in “pianissimo”, emoziona l’intero pubblico che, pur conscio del dramma, spera quasi che la morte non colga la protagonista, per poterla ancora ascoltare.
Accanto a lei, Gregory Kunde è un Otello di tempra piuttosto scura, che conferisce spontanea severità al carattere del protagonista maschile. La recitazione è ben calibrata e si accorda con l’incisività dell’accento. Il suo ingresso non è tanto furtivo quanto carico di una calma inquietante, che lascia intravedere attimi di nostalgia, anche se l’espressione già rivela l’intento delittuoso che l’interprete non nasconde neppure per un istante, con la sua netta dizione del testo, al momento dello scontro con Desdemona. È comunque nel monologo finale “Niun mi tema” che il tenore statunitense mostra al pubblico la sua impronta lirica. Il timbro non è più “freschissimo” come rivelano accennate oscillazioni in fase ascensionale, ma la voce ha diffusione regolare e buona potenza nei differenti registri (compreso quello acuto), viene discretamente emessa, salvo qualche attacco più fumoso, e le frasi risultano tragiche, anche grazie alla credibile interpretazione dello sfogo emotivo. Emerge una maggiore volontà nel ricorrere a variazioni nel volume, ma questo non assolve completamente l’arduo compito di rendere appieno il senso di annichilimento del personaggio o le parentesi contemplative sul corpo della moglie, che avrebbero potuto vertere su tecniche ancora più sottili, come il ricorso a mezze voci od ad un più marcato utilizzo del “piano” o “pianissmo”, che non è quasi mai stato toccato, se non al momento dell’ultimo sospiro vitale. Tra i personaggi comprimari spicca l’Emilia di Gabriella Sborgi, mezzosoprano dalla voce piena, lirico-drammatica, che ad inizio scena crea i giusti spunti per il dispiegarsi del canto alla protagonista, mentre prima del finale s’inserisce con partecipazione, mediante volume e determinatezza d’accento, nell’accorato racconto che svela il malefico piano del marito. I brevi interventi di Aris Argiris, Saverio Fiore, Alessandro Spina ed Italo Proferisce, rispettivamente nelle parti di Jago, Cassio, Lodovico e Montano, concorrono infine ad accelerare la progressione degli eventi verso la catastrofe.
Il secondo inserto d’opera vede un titolo molto amato dal pubblico fiorentino, ripreso in una delle più gloriose produzioni del Teatro Comunale; si tratta del primo atto di “Tosca”. La scenografia di Francesco Zito ci porta all’interno della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle, in un allestimento che fa del realismo la sua caratteristica principale. Lo scorcio, dotato di tutti gli elementi caratteristici con tanto di altare e reliquiario, utilizza materiali che rendono verosimilmente l’idea del marmo, disponendo a destra la cappella degli Attavanti, cinta da una scura inferriata, ed a sinistra un’attenta ricostruzione dell’impalcato utilizzato dai pittori del tempo, sul quale è posto il grande dipinto della Maddalena. L’aula è poi ricca di dettagli lenticolari. Cercando per il palco si riescono infatti a scorgere gli strumenti per dipingere, il paniere col cibo del pittore, libri ecclesiastici o la colonna baroccheggiante con la statua della madonna ai cui piedi Tosca deporrà un colorato mazzo di fiori. L’inserimento di due panche allineate e rivolte verso l’altare induce gli spettatori a trovarsi coinvolti nella scena, quasi la platea prolungasse idealmente la fila di panche della navata centrale, per volgere lo sguardo verso la stupefacente riproduzione della cupola della chiesa che, appoggiata in prospettiva dal basso, costituisce l’elemento vincente.
I costumi, che vedono anche l’impegno di Virginia Gentili, seguono armoniosamente il progetto scenico, tratteggiando un abito semplice con pantaloni e corpetto per Mario, una sontuosa veste dalla gonna ondeggiante per Tosca, nel quale non mancano il tipico mantello ed una serie di gioielli intrinsechi di precisa fattura, una fornita serie di toghe religiose bianche e rosse per cardinali e chierichetti che, specialmente nel “Te Deum”, conferisce solennità alla scena fondendosi con i colori della chiesa e dell’ampio tappeto centrale, unita ai variopinti abiti del coro, sempre all’insegna della cura nel dettaglio. L’abbigliamento di Scarpia e dei suoi collaboratori crea invece, con evidente significato, una “macchia nera” in espansione tra gli astanti e sfoggia cappelli da ammiraglio e lunghi mantelli scuri. Ringraziando Mario Pontiggia,con l’assistenza di Angelica Dettori, ci troviamo poi davanti ad una regia attenta e ben studiata, che prevede numerosi gesti, spostamenti di oggetti o cambiamenti di posizione, tesi sia alla caratterizzazione delle relazioni interpersonali tra i personaggi, che alla definizione delle caratteristiche dei singoli ruoli. Il risultato, a differenza di regie più sommarie, è stato quindi quello di caratteri che, seppur giustamente arricchiti nelle loro sfumature dalle buone capacità attoriali degli interpreti, sono rientrati all’interno di un piano complessivo coerente con l’opera e la sua ambientazione. In questo contesto, le luci non troppo dinamiche di Gianni Paolo Mirenda passano in secondo piano, anche se gli si riconosce il merito di aver messo in risalto, attraverso illuminazioni specifiche, il quadro del pittore ed il gremito numero conclusivo.
Fin dal suo ingresso, Fiorenza Cedolins calca la scena con tutte le caratteristiche della prima donna gelosa, muovendosi per il palco con una disinvoltura ammirevole, forte indubbiamente di una lunga esperienza nel ruolo e di qualità interpretative molto elevate.  L’aderenza al personaggio è stupefacente ed è così che la sentiamo emettere stizzita il nome dell’amato già dal fuori scena, con il suo caratteristico vibrato serrato ma di ampia oscillazione, mostrare reali sospetti volitivi nel guardarsi intorno per cercare possibili amanti, rivolgersi con la dolcezza delle sue velature in “piano” nelle parole d’amore od in quelle volte ad omaggiare la Madonna, proporre in modo carismatico nell’accento l’incontro serale nella casa in campana, utilizzare il volume (moderato in acuto) verso il canto di forza per rimproverare il tenore sulla marchesa Attavanti o per esprimere il suo sdegno nella scena con Scarpia. Il soprano friulano trova la sua massima espressione prima nell’incredibile senso ritmico, che segue con estrema precisione la musica, e nella costruzione di un fraseggio meticolosamente volto alla resa delle parole contenute nel testo del duetto “Non la sospiri la nostra casetta”, poi nell’“Io venivo a lui tutta dogliosa” dove conferma con i suoi legati una buona gestione della respirazione e dinamismo cromatico, regalando al pubblico due struggenti crescendo dal “pianissimo” al “forte”, che riecheggiano, nello smaltato vibrato di cui l’interprete fa un uso più marcato nel registro acuto, come espressione sonora del suo cordoglio. La Cedolins non ha difficoltà con la tessitura del primo atto e la voce è omogenea, suonando naturale anche in basso, con timbro particolarmente rotondo nella zona centrale. Il soprano è così dentro alla parte che alle volte i passaggi tonali ascendenti e discendenti, specialmente nell’area acuta, suonano appena bruschi per l’attenzione alla continuità del vibrato; inoltre, decisamente capace di rendere l’aspetto passionale della parte a causa della sua pastosa emissione in alto, avrebbe addirittura potuto spingere di più nel duetto con Mario, ottemperando ad una delle maggiori difficoltà dell’opera: il canto di forza a piena orchestra.
Marco Berti, d’altro canto, si attiene essenzialmente alle indicazioni registiche, senza aggiungere significativi contributi personali al personaggio di Mario. Se nel momento solistico che esalta la bellezza femminile (“Recondita armonia”) sembra curare la distribuzione delle intensità per fini espressivi, in seguito conferma i sospetti circa la tendenzialmente breve durata dei suoni di fine frase. Il timbro del tenore sarebbe anche suadente e certamente non parsimonioso in quanto a potenza vocale ed estensione, presentando dunque i requisiti di base per ruoli tenorili di rilievo, ma dispiace che la sua esibizione si svolga interamente all’insegna dell’irruenza vocale, senz’altro irrispettosa nei confronti del soprano al momento del duetto, con scarsa sensibilità nel controllo vocale che conduce a numerose aperture nelle note acute in fase di “crescendo” od ad imprecisioni d’emissione in chiusura, a legati non propriamente aggraziati e, più in generale, ad ingiustificati rallentamenti all’interno delle numerose inserzioni liriche della parte, fattori che ne inficiano il risultato complessivo.
Riesce il severo colpo di scena con cui si presenta Scarpia, grazie alla competenza di un altro grande interprete, pratico del ruolo: Ambrogio Maestri. Il baritono manifesta un abile uso della dizione e del fraseggio per figurare i polivalenti aspetti di un personaggio ambiguo, sadico e perverso, come emerge dal modo in cui s’insinua nell’offerta dell’acqua benedetta a Tosca, dove la frase cantata in successione senza vibrato dà un’impressione di falsità latente, o nelle scene antecedenti al finale, in cui le inflessioni vocali sono al servizio dell’indagine, del clima d’inquietudine, del sospetto ed il suo “sortito l’effetto” è intelligentemente bisbigliato. Affronta il finale con emissione generalmente corretta e voce abbastanza scura in basso, che acquista morbidezza salendo verso il registro acuto, mantenendo una proiezione sonora contenuta, senza slanci iperbolici. Discreto il sagrestano di Roberto De Candia, che si aggira per la scena zoppicando, in modo goffo, con mimica e gestualità idonee ad un umorismo diversivo tra i diversi numeri musicali del primo atto, talvolta avendo la peggio sui chierichetti che quasi si beffano di lui. La sua voce è sempre udibile e l’interprete riesce a restituire col fraseggio la bigotteria clericale ed il timore nei confronti del capo della polizia senza sfociare nel caricaturale.
Infine, il terrore per la fuga e la paura per l’imminente colpo di cannone che ne rivelerà l’evasione ben si leggono negli occhi di Alessandro Spina, nel ruolo di Angelotti, seppur la sua voce chiara non si trasmetta con molta efficacia e l’emissione non suoni sempre pulita, mentre Saverio Fiore colloca correttamente le due frasi destinate a Spoletta.
Sul podio, la mano saggia di Zubin Mehta dirige l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in modo introspettivo, analizzando in profondità la partitura verdiana e quella pucciniana per restituirne, in entrambe le sezioni, l’autentica essenza. Il dosato contenimento delle intensità sonore consente di rendere l’atmosfera dei raffinati passi intimisti di “Otello”, mettendo in evidenza il fondale melodico dei fiati, i suggestivi interventi degli archi che suonano eterei nel registro sopracuto durante l’”Ave Maria” ed il delicatissimo “diminuendo” del finale, teso quasi ad evocare il battito di un cuore che a poco a poco si affievolisce, spegnendosi. La direzione è concitata e più spinta dove deve esserlo, come nel duetto tra Desdemona ed Otello od in quello tra Tosca e Scarpia, inquietante nel tema che rimanda a Scarpia e sentimentale nel celebre tema d’amore pucciniano, sfociando soltanto sporadicamente in quale picco esplosivo, che può essere dovuto ad una non familiarità col nuovo teatro. Abile nell’assecondare le linee di canto dei soliti, valorizzando sia le frasi in “piano” di Maria Agresta che quelle della Cedolins, il direttore, non responsabile di apprezzabili scollamenti col palcoscenico, si conferma esperta guida di un‘orchestra che regala di recita in recita ottime “performances”. D’effetto la prova del coro del Maggio, preparato da Lorenzo Fratini, insieme a quello di voci bianche, diretto da Marisol Carballo, che conferisce spessore ed autorevolezza al “Te Deum” di chiusura, peraltro notevolmente amplificato dalla “cassa di risonanza” artificiale costituita dalla sala. Al termine di ciascun estratto d’opera, un pubblico particolarmente in vena di applausi concede ampi apprezzamenti a tutti gli interpreti, approvando in modo particolare la direzione, l’orchestra ed il coro del Maggio Musicale Fiorentino ed entusiasmandosi nei ringraziamenti rivolti alle parti principali. Da qui alla sezione danza della serata.  Foto Simone Donati / TerraProject