Opera di Roma: Non piangere… c’è Liù

Teatro dell’Opera di Roma Stagione di Opere e Balletti 2012-13
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e 5 quadri libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
La Principessa Turandot  EVELYN HERLITZIUS
L’Imperatore Altoum  CHRIS MERRITT
Timur, Re tartaro spodestato  ROBERTO TAGLIAVINI
Il principe ignoto, Calaf, suo figlio MARCELLO GIORDANI
Liù, giovine schiava  CARMELA REMIGIO
Ping, gran cancelliere  SIMONE DEL SAVIO
Pong, gran provveditore SAVERIO FIORE
Pang,gran cuciniere  GREGORY BONFATTI
Un mandarino  GIANFRANCO MONTRESOR
Il principino di Persia  LUCA BATTAGELLO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera
Con la partecipazione del coro delle voci bianche del teatro dell’Opera diretto da Josè Maria Sciutto
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia  Roberto de Simone
ripresa da Mariano Bauduin
Scene Nicola Rubertelli
Costumi  Odette Nicoletti
Luci Agostino Angelini
Allestimento del Teatro Petruzzelli di Bari
Roma, 27 ottobre 2013
La prima cosa che balza agli occhi, leggendo qualche commento online, è la rabbia con cui una buona parte dei melomani ha accolto il taglio finale di questa Turandot, che termina dopo le lamentazioni funebri di Timur, alle parole «Liù, poesia». Incuriosito dalla decisione, debbo confessare che nel corso della recita ho maturato un giudizio assai diverso: con un cast del genere a disposizione, in particolare, questa decisione mi è apparsa più che mai saggia.
All’afflato conservativo di alcuni esperti (cioè di persone che hanno esperito qualcosa così tante volte da esserne ormai sature) è sempre assai difficile controbattere, ma suggerirei di pensare al fatto che l’opera come forma d’arte, nata come messa in scena di spettacoli (nata per i live, diremmo oggi), ha storicamente previsto l’adattamento al palco e ai cantanti/attori impegnati. Quindi se proprio volessimo discettare di “problemi di filologia”, tale scelta potrebbe contare su qualche argomento a propria difesa.
Ma in fin dei conti, una volta che filologi e musicologi abbiano appurato la vicenda creativa di una certa opera, la presunta volontà finale del padre putativo e il colore dei costumi indossati dai cantanti alla prima assoluta, sarebbe gran danno volerne proporre una versione differente, se questa avesse rilevanza e giustificazione drammaturgiche? Le mille proteste che si levano oggi sembrano echeggiare quelle che si levarono in occasione del nuovo finale di Berio e mille altre volte in cui una novità rischiò di mandare in frantumi l’orizzonte di attesa tradizionale. In questi casi, mi sento di suggerire che lo spirito migliore con cui intraprendere la fruizione artistica sia: io questa cosa già la conosco, vediamo se fatta in questo modo riesce a dirmi qualcosa di differente, se mi piace di più o di meno, se ha un senso oppure se la variazione è del tutto gratuita. E con ciò veniamo a valutare questa particolare variazione.
Dal punto di vista musicale, la direzione è buona. Forse già con la mente alle polemiche che ne sarebbero scaturite, Steinberg cura con particolare attenzione l’intera scena finale, donandogli un’insolita lentezza rituale dall’effetto ipnotico, ma anche l’intera scena degli enigmi poggia quasi esclusivamente sulla brillantezza orchestrale, giacché cantanti e regia decidono di prendersi qualche momento di meritato riposo dopo un buon primo atto. Punti deboli: un leggero “effetto banda” che impedisce alla marcia imperiale di elevarsi al di sopra della norma e un eccesso di volume che, vista la vocalità imperiale, ne oscura completamente qualsiasi battuta al di fuori di quelle pronunciate nel più assoluto silenzio. In questo caso, probabilmente, il direttore ha preferito un eccesso di trucco alla valorizzazione di un neo posto in un punto così brutto del volto.
Passiamo dunque ai cantanti, partendo proprio dall’imperatore di Chris Merritt: l’inveterata usanza di gettare nel ring ex stelle sul viale del tramonto, per le parti minori in termini quantitativi (ma qui l’imperatore ha battute importantissime nell’economia drammaturgica generale), questa volta riesce a produrre un effetto davvero terribile. Il povero Merritt, con grande sforzo, riesce a malapena a farsi sentire nel tentativo iniziale di allontanare Calaf; per il resto delle battute fa la figura di un pesce in un acquario. Il mandarino-banditore è invece buono: Montresor ha voce potente e buona dizione, quindi «il bando per le vie di Pekino» viene declamato e udito da tutti, a scanso di equivoci. Molto bene il Timur di Roberto Tagliavini: voce piena e con buon volume, dizione perfetta accompagnata a un fraseggio sentito, giusta intensità nella lamentazione funebre che, in questa versione, accompagna lo spettatore verso la fine; da segnalare un ottimo «si vendicherà» che conclude il ruolo e che porge il destro alla perla registica conclusiva di cui dirò tra poco.
A rivestire i panni del titolo, Evelyn Herlitzius: chi ha detto che per poter fare Turandot si debba solo saper gridare? I decibel sono tanti quanti gli errori di dizione, tra i quali una pronuncia particolarmente brutta delle doppie («tuto il mondo», «avampa», ecc.), gestione dei fiati a tratti periclitante (perché strillare così per rimanere senza fiato a metà di «non puoi donarmi a lui, a lui come una schia…»?), recitazione basata sulla classica equazione “altezza della nota sul pentagramma = altezza delle mani rispetto al busto*movimento delle braccia ad allargarsi” e coinvolgimento emotivo degli spettatori (quelli che sono riusciti a capire qualcosa) veramente scarso. Assolutamente da bocciare. Meglio con Marcello Giordani, il quale mette in saccoccia un più che discreto primo atto: bene l’incipit col ritrovamento del padre, voce subito a fuoco, lo sforzo è percepibile ma i suoni ci son tutti e abbastanza godibili, più che buono l’intero concertato finale, volume e fraseggio si uniscono a una convincente presenza scenica. Nel secondo atto, chissà se per rilassamento, voglia di strafare o di gareggiare in volume con l’assordante amata, un altro cantante: suoni duri, ferrigni, volume a mille che però non compensa la mancanza di un fraseggio intelligente. Un esempio su tutti: a che serve gettarsi in un «ti voglio ardente d’amor!» con do sovracuto, se poi l’esecuzione risulta sforzata al punto da spingere il pubblico a preoccuparsi per la salute del cantante? Non sarebbe meglio attestarsi con più moderazione e, magari, con un po’ di scavo psicologico nel fraseggio, nel più tranquillo «ti voglio tutta ardente d’amor!»? Da dimenticare il «Nessun Dorma», a proposito del quale riporto la divertente domanda rivolta da una neofita ai propri amici evidentemente più esperti che ho colto scendendo le scale al termine della recita: “Però Pavarotti il «Nessun Dorma» lo fa mooolto meglio, no?”. Buoni Ping, Pong e Pang, impersonati rispettivamente da Simone Del Savio, Saverio Fiore e Gregory Bonfatti: la loro scena scorre piacevolmente, le voci sono chiaramente udibili, le pronunce ottime (nemmeno un errore, nonostante gli svariati scioglilingua) e i movimenti scenici sensati ravvivano un po’ la serata sul versante dell’interazione drammatica. La migliore della serata, senza ombra di dubbio, è la Liù di Carmela Remigio. Cantante che alcuni nostalgici potrebbero etichettare come “d’altri tempi”, nel senso che fa tutto quello che ti aspetti da una valida artista: approfondito fraseggio, buone le variazioni dinamiche pur senza rischiare eccessi in pianissimi prolungati  (come ad esempio usava la Caballé su «mi hai sorriso»), ottima presenza scenica anche senza bisogno di spalancare le mani a ogni acuto; e, su tutto, uno strumento delizioso, ricco di armonici e pieno nel senso più musicale del termine. L’apice della serata è proprio la sua «Tu che di gel sei cinta» che precede al finale.  Per quanto riguarda il coro diretto da Roberto Gabbiani, l’agogica e la dinamica rispettano a pieno le prescrizioni pucciniane, pur se la precisione e lo spirito, nell’insieme, non sono ai livelli mostrati nelle prove verdiane dell’appena terminata stagione; a parte qualche imprecisione d’attacco, comunque, una buona prova. Nota positiva: molto bene il finale, assecondando la lentezza del direttore e terminando morendo con un pianissimo che riscatta ottimamente qualche precedente trascuratezza.
La regia meriterebbe un discorso lungo, giacché questo di Roma è uno spettacolo ideato da Roberto De Simone per il Petruzzelli di Bari, nel 2009, e ora rimesso in scena da Mariano Bauduin. Non ho potuto visionare lo spettacolo originale, quindi baserò la mia analisi esclusivamente su quello cui ho potuto assistere qui a Roma. Dell’idea di fondo, ossia quella del finale, ho già parlato. Il filo rosso è la presenza in scena di una bimba asiatica vestita completamente di bianco, con lunghi capelli neri: gioca nel primo atto con un lungo nastro rosso, si muove attorno a Turandot lasciando cadere petali lungo il suo percorso nella scena degli enigmi. Scopriamo nell’ultima scena che la bimba è la giovane Lou-Ling, perché la vediamo «nella sua tomba enorme», accanto a statue d’esercito che rassomigliano le fattezze del coro, rappresentante le famose statue di terracotta. Alla morte di Liù il colpo di scena: Lou-Lin si alza, si avvicina a Turandot, attende che Liù venga deposta nella stessa tomba per poi farvi ritorno e giacerle accanto. L’idea è affascinante: la purezza stroncata a causa di una violenza causa violenza che stronca una nuova purezza. Rispondere con violenza alla violenza causa solo nuova sofferenza.
A questa bella idea di fondo, aggiungiamo altri elementi di sicuro valore: l’uso delle retroscene visibili grazie al gioco di luci, per cui vediamo sia le donne di corte cantare «silenzio» a mo’ di sirene per tentare Calaf, sia le uccisioni dei vari pretendenti mentre Ping, Pong e Pang mettono in mostra l’elenco “di caccia” della crudele principessa; la scenografia ha un indubbio valore estetico e simbolico, con una grande scalinata al cui culmine vedremo prima l’affacciarsi della principessa da una foschia nebbiosa, nella quale ritorna subito dopo aver negato la grazia al principe di Persia, poi il seggio dell’imperatore, posto al vertice della gerarchia rituale e assieme scenica.
In un complesso così ben disegnato e immaginato, dispiace molto che l’avanzare verso la catarsi drammatica sia ostacolato da alcuni macigni molto pesanti. In primis la gestione dei cantanti-attori: statici nella maggior parte del tempo, quando si muovono sembrano farlo a caso o con interazioni che contraddicono il senso della messa in scena. Il momento peggiore, ed esemplificativo del problema appena illustrato, è la gestione della scena degli enigmi: in sé notevole, da un punto di vista meramente visivo, rimane statica quasi fino alla fine. Un bel quadro, insomma, in cui però la staticità può essere giustificata dal senso rituale dell’evento. Poi sul finale la gestione di due interazioni lascia quasi sbigottiti. Turandot prega il padre di non concederla allo straniero: al centro della scena, la principessa dà le spalle al padre quasi per l’intera durata della richiesta. Ma come? Si mette in scena un bel rituale e quindi, direi con esattezza, si richiede compostezza ai personaggi e al coro, e poi si sceglie per l’opzione che favorisce la voce svilendo l’intero significato? Ancora peggio qualche istante dopo: accingendosi a cantare «Tre enigmi m’hai proposto», Calaf si avvicina a Turandot fino a sfiorarla e le dà una specie di buffetto presuntuoso. Svanito improvvisamente l’effetto rituale, ci si ritrova in mano una recitazione stereotipica e raffazzonata che svilisce il senso di quanto visto fino a quel momento. Un gran peccato.  Foto Luciano Romano