Opera di Roma:”Maometto II

Roma, Teatro Costanzi – Stagione d’opera e balletto 2013-2014 
“MAOMETTO SECONDO”
Melodramma eroico in due atti su libretto di Cesare Della Valle
Musica di Gioachino Rossini    
Paolo Erisso GIULIO PELLIGRA
Anna MARINA REBEKA
Calbo ALISA KOLOSOVA
Condulmiero ENRICO IVIGLIA
Maometto II ROBERTO TAGLIAVINI
Selimo GIORGIO TRUCCO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Roberto Abbado  
Maestro del Coro Roberto Gabbiani   
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi   
Movimenti mimici Roberto Pizzuto  
Luci Vincenzo Ramponi    
Allestimento del Teatro La Fenice di Venezia
Roma, 30 marzo 2014     

Roma, vertice di mezzo della spezzata che collega il capoluogo campano con quello veneto, volge lo sguardo a sud, riprendendo l’originale napoletano del “Maometto II”. Se l’inusuale strutturazione della sezione introduttiva, “unicum” nella produzione del maestro di Pesaro, l’inusitata ampiezza del “terzettone” dell’atto primo, il frequente ricorso a duetti che sfociano in terzetti, così come l’abolizione dei recitativi secchi al posto di quelli accompagnati dall’intera sezione degli archi non affascinarono il pubblico napoletano della prima, né due anni dopo la conversione del finale drammatico bastò a rendere entusiasti i palchettisti veneziani, il pubblico romano sembra apprezzare fin dal principio lo “sperimentalismo napoletano”, senza bisogno di correre all’Opéra ad assistere a “Le siège de Corinthe” (nome sotto cui si celava abilmente l’ultima versione del “Maometto II” rossiniano) per decretarne il successo.
Col senno di poi, infatti, fu probabilmente l’innovatività della composizione, con la sua precoce flessibilità formale, a non favorire l’immediato successo di un’opera che acquista pieno spessore in tempi contemporanei in cui, tra ripetute stagioni operistiche di repertorio, si ha piacevolmente occasione di riscoprire il Rossini serio, rimanendone ampiamente soddisfatti.
A dar vita al triangolo formato da Erisso, a rappresentanza degli affetti famigliari vincolati alla comune patria italica, Maometto, innamorato ricambiato ma allo stesso tempo mentitore ed acerrimo nemico dei primi e chiuso da Anna, attratta da tali due poli antitetici, l’allestimento di Pier Luigi Pizzi verte su una resa autentica all’insegna della tradizione con relativamente pochi ma rilevanti elementi che, per la loro collocazione, assumono spesso una funzione concettuale. È questo il caso dell’imponente croce cristiana che appare quasi capovolta ed adagiata in un angolo diroccato all’interno del tempio durante l’atto secondo od, ancora, della riduzione della tomba della moglie di Erisso ad un cumulo di pietre senza lapide a vista, simbolo di un richiamo affettivo più spirituale, da ricercare nella profondità dell’animo.
Il sipario si apre tutte e due le volte sulle mura di una città che si sta sgretolando a causa dell’avanzata musulmana ed a cui non rimane altra via di speranza se non nella fede, alla quale i resti del luogo sacro su cui s’incentra la scena rimandano e che significativamente progrediscono nel loro stato di deterioramento durante lo snodarsi dello svolgimento drammaturgico. Lo rivela l’utilizzo di tonalità cromatiche scure, come il grigiore delle pietre levigate che tentano invano di cingere il popolo dall’assedio o lo sfondo cieco dietro la scena ed in questa direzione muovono anche le soluzioni illuminotecniche di Vincenzo Ramponi che, seppur prevalentemente statiche, contribuiscono ad un’atmosfera di decadenza, smussando le rovine del santuario e conferendo un’aria dall’apparenza polverosa, tipica di una città colpita da incessanti combattimenti.
In questo riadattamento dell’allestimento veneziano, ove non si ricorre all’espediente del cambio di scena a vista ed il sotterraneo della seconda parte si limita ad un pian terreno senza copertura a cui si accede dal tempio con una scalinata laterale costituita da moduli regolari, la scenografia insiste su piani di lettura differenti corrispondentemente ad una suddivisione in verticale: la posizione sopraelevata è generalmente teatro della dimensione pubblica esteriore e di preghiera, mentre i momenti di maggior intimismo hanno luogo in basso, in un’ubicazione più vicina al pubblico, che è pertanto spontaneamente portato a trovarsi coinvolto nelle parentesi liriche più riflessive.
In quest’ottica, la luce che nel secondo atto accompagna i momenti solistici di Anna, oltre a delimitare visivamente la cripta, si riflette sull’abito bianco della protagonista ed allo stesso tempo sull’altare della chiesa allineato sopra di lei, alludendo all’inevitabile sacrificio del soprano. I costumi hanno poi l’influente compito di trasportare lo scontro fisico reale in contrasto cromatico. Non a caso, infatti, sulle colorazioni pastello del popolo italiano dominano le vivaci tonalità di rosso della banda musulmana, in una contrapposizione visiva che raggiunge il suo apice nel combattimento precedente all’arrivo di Maometto. Gli abiti senza tempo rimandano per lo più alla funzione, come nell’abbigliamento del coro di donne che sembra estrapolato da un presepe o nel caso della coppia protagonistica. Curioso, infatti, come Anna e Maometto mantengano le stesse vesti per tutta l’opera, come a ricordare che, pur nelle fazioni opposte e sotto il fraintendimento dovuto al falso nome di Uberto, essi mantengono sempre, a dispetto del mondo esteriore in cui sono intrappolati, l’originaria essenza di coppia d’innamorati.In questo contesto l’impianto registico, con movimenti mimici curati da Roberto Pizzuto, presenta un certo bipolarismo.
Da una parte, le movenze del coro sono coordinate nel dettaglio, come avviene nelle preghiere, dove le donne spesso si raccolgono in coppie mostrando una disparata varietà nelle esternazioni sentimentali o si presentano (come nel finale) in parte sciolte per il terreno e la stessa attenzione è riservata al coro maschile, basti ricordare i gesti di incitamento dei musulmani al cospetto di Maometto, con le sciabole sollevate in alto per le due estremità, o la trovata d’effetto di far sollevare ai condottieri il loro sultano, trasportandolo per il palcoscenico. Dall’altra, la caratterizzazione delle relazioni tra i personaggi principali sembra solo sommariamente impostata, lasciando ai vari interpreti la possibilità di approfondirle, peraltro alle volte poco agevolati a causa delle pedane sceniche in cui questi si ritrovano immobilizzati durante i loro brani solistici. In ogni caso, vi sono almeno un paio di elementi maggiormente interessanti. In primo luogo, è significativo come in chiusura del primo atto, mentre gli astanti si stanno ritirando e col sipario già in movimento, Anna si soffermi un attimo sulla panchina di pietra in primo piano, appoggiandovi la mano pensierosa: la scissione tra la sua sfera sentimentale e quella dei doveri prestabiliti emerge dunque anche visivamente. Infine, risalta l’efficacia del gesto con cui, sulle parole “era feral veleno” del cantabile del duetto con Maometto, Anna getta sprezzante a terra il velo che le avevano imposto i musulmani, reso decisamente convincente dalle notevoli doti attoriali dell’interprete (Marina Rebeka).  Dal punto di vista musicale la situazione è complessivamente soddisfacente, seppur eterogenea.
Fin dal principio, Roberto Abbado leva la bacchetta con grande cura nelle dinamiche e volgendosi ad una rilettura rispettosa dell’originale partitura rossiniana. L’attenzione è centrata principalmente su una ragionata gestione delle sonorità orchestrali, con estremo controllo dei piano all’interno delle suggestive battute liriche ed allo stesso tempo accentuando le frasi legate ai contrasti sentimentali od affidate ai cosiddetti “tempi d’attacco”, riproducendo efficacemente le incalzanti atmosfere d’instabilità degli andamenti giambici, senza farsi travolgere in rischiosi momenti d’eccesso.  Se gli concediamo qualche accelerazione più marcata in fase di stretta, l’adeguato stacco dei tempi conferisce al suo “Maometto II” un ritmo serrato, che impedisce al pubblico in sala d’interrompere l’esecuzione praticamente fino al suo termine. Il direttore dimostra sensibilità nel seguire gli intenti drammatici degli interpreti (soprano in particolare), riducendo al minimo gli scollamenti buca-palco e mettendo spesso in risalto i soavi interventi dell’arpa o dei fiati, mentre talvolta supplisce dove necessario, come nella melodia successiva alle parole “prendi il pugnal” di Erisso, in cui i tremoli degli archi seguiti dai tocchi in forte delle percussioni preparano adeguatamente il climax drammatico che il canto del tenore avrebbe dovuto instaurare. Alla prova con i caratteristici “crescendo” dello spartito, sigla stilistica del compositore, il maestro intraprende con coraggio l’iterazione dello schema melodico costituente, attaccando in piano con gli strumenti che entrano gradualmente ed aumentando di volume con continuità progressiva fino al forte delle code conclusive, che non viene mai superato, in modo da mantenere un giusto equilibrio con le voci in scena e suscitando nel pubblico l’atteso senso di concitazione e coinvolgimento.
Il coro del teatro dell’opera, preparato dal maestro Roberto Gabbiani, evidenzia precisione nella dizione, coordinazione e rilevante partecipazione espressiva ad un’opera in cui la massa corale ha il delicato compito di raccontare la storia non solo di un popolo, ma di due. È frequente il ricorso al piano-sottovoce, come nella scena iniziale in cui i condottieri veneziani esordiscono con i toni mesti di chi sembra votato a sconfitta certa, per poi riacquistare spessore, rincuorato dalle parole di Calbo, nel giuramento che chiude la scena. Il coro maschile mostra inoltre versatilità per il modo in cui, già a metà del primo atto, passa all’altra sponda fondendosi con carattere nella musica turchesca della banda musulmana, affrontata in modo aulico per aprire credibilmente il varco a Maometto o nel modo in cui s’insinua nella mente del loro capo, proferendosi nella scansione degli staccati. Una linea di canto frammentata, allo scopo di conferire un clima di dubbio ed ansia, è seguita anche dai cori femminili, spesso impreziositi da strutture armoniche morbidissime, che descrivono proficuamente il disorientamento tra le donne impaurite.
Il primo personaggio principale a calcare in scena è l’Erisso di Giulio Pelligra, che sostituisce “in extremis” l’indisposto Juan Francisco Gatell. Il tenore ha dalla sua l’attenuante di debuttare con diversi giorni d’anticipo, inserendosi in una compagnia di canto che ha già alle spalle la prima di venerdì e riesce tutto sommato a venire a capo, seppur con qualche semplificazione, delle inserzioni d’agilità presenti nella parte.  Il timbro permane però nelle sue velature per tutto lo svolgimento dell’opera, con emissione piuttosto opaca che s’indebolisce ulteriormente in basso, mentre acquista lievemente spessore verso l’acuto, senza però cambi timbrici, dove i fiati non sono comunque meglio sostenuti, poiché sporadicamente inficiati da piccole forzature che tendono a produrre suoni leggermente aperti, nel probabile tentativo di rafforzarne la proiezione. Le note di fine frase, soprattutto quelle nel registro grave, sono più volte tenute sospettosamente al limite dell’indispensabile.
Si apprezza il visibile impegno dell’interprete nel modellare la linea vocale alle esigenze del dualismo tra veste pubblica e privata, tuttavia il risultato è sostanzialmente generico e la limitatezza delle dinamiche, sia nelle parole rivolte verso la figlia che in quelle che rievocano la defunta moglie, impedisce la piena realizzazione del personaggio, in prevalenza monocromatico indipendentemente dai contenuti espressi. Il delicato intervento in cui porge il pugnale alla figlia, enfatizzato dallo stesso Rossini con un’improvvisa interruzione orchestrale, è appena distinguibile e non ha la carica emotiva che ci si aspetterebbe, acquistando rilevanza soltanto grazie all’accompagnamento ed al successivo intervento del soprano.
Si rimane invece piacevolmente colpiti dalla voce tendenzialmente mezzo sopranile di Alisa Kolosova (Calbo), che conferma quest’impressione anche allo scoglio cui il pubblico l’attende: la difficile aria del secondo atto. Lontana dal limitarsi a svolgere il ruolo di “alter ego” di Erisso, la Kolosova fa di Calbo un personaggio incisivo e di temperamento proprio, che rimane sullo sfondo soltanto quando prescritto per propendere appena possibile all’eroismo verso la patria, come nella ben proiettata replica a Condulmiero durante l’introduzione, od a difesa della purezza dei sentimenti di Anna, intraprendendo a questo scopo frasi più distese con variazioni dinamiche sul piano.Con la stessa determinazione si approccia alla parte del personaggio, esibendo voce dal timbro lucente che risuona ben emessa e di buon volume in tutta la gamma, evidenziando già nel recitativo prima del “terzettone”, cura nel fraseggio e nella dizione. I duri affondi alle note sotto il rigo e le seguenti ascese vertiginose in acuto di due ottave e mezzo più in alto della temibile aria (“Non temer d’un basso affetto”) vengono superati senza difficoltà, mentre riguardo l’ampiezza dell’estensione, qui testata per intero, l’interprete dà prova di omogeneità timbrica, con bassi naturalmente sonori, senza evidenti scollamenti (frequenti nel ruolo) nel passaggio dal  registro medio-grave a quello grave e con sopracuti forse appena più tesi, ma sempre ben sostenuti. Anche la gestione delle intensità mostra grande attenzione e studio, infatti la Kolosova passa sapientemente dai forti in acuto delle impervie oscillazioni d’attacco, ai vellutati ornamenti nel registro centrale volti alla persuasione del condottiero veneziano. D’effetto, infine, le timbrature sugli acuti nella cabaletta, seguite dalle ben legate scale discendenti ed in cui la stretta coloratura della parte viene intrecciata senza inceppamenti di sorta, prima di concludere con la cadenza finale, dove le fioriture ascendenti portano a sfiorare il limite superiore della tessitura.
Anna, centro di convergenza del melodramma, col suo inconfondibile timbro penetrante, caratterizzato da un innato squillo che rende la voce sempre efficacemente proiettata, dai riflessi xilofonici in acuto, ha la splendida presenza scenica e lo “charme” interpretativo di Marina Rebeka. Il soprano lettone si culla con limpidezza d’emissione nei piano degli ornamenti ondeggianti con cui approccia le frasi centrali della cavatina (“Ah! Che invan sul mesto ciglio”) rivolte ai turbamenti che le opprimono il cuore, mentre in basso la voce rimane distintamente udibile, senza forzature. Abilmente, sfuma rinforzando sulle parole “e il timor se tace appena son d’amor gli occulti strali”, tradendo così un amore segreto, per raggiungere infine acuti ben timbrati, manifestando estrema cura negli abbellimenti di transizione che precedono la ripresa in piano. La Rebeka dimostra fin dall’avvio del “terzettone” (“Ohimè! Qual fulmine”) una spiccata tendenza a dominare i concertati, sfogando la tensione dovuta all’ignota identità dell’amato mediante puntature in acuto impostate con sicurezza, in modo da stagliarsi nettamente dal volume orchestrale scolpendo la volta del Costanzi. La sua preghiera d’implorazione (“Giusto Cielo”), cesellata ancora con alleggerimento del volume, colpisce per la meticolosità nell’esecuzione delle acciaccature oltre che per le incisive trasposizioni in acuto nella ripetizione strofica, senz’altro funzionali ad un lirismo che si eleva allo spirituale, dove la brillantezza della regolare proiezione del vibrato, insieme all’etereo accompagnamento dell’arpa, sigillano questa toccante sospensione lirica. Delicata nel duetto col padre, la cantante mostra grande senso ritmico, emozionando il pubblico con i suggelli virtuosistici dei centri che toccano il registro acuto e vi ridiscendono con sensibilità verso le dinamiche sonore mantenendo, anche quando in piano, finezza d’emissione e tempi decisamente rapidi entro una linea di canto sorprendentemente morbida, tesa a suscitare sincera commozione. La sua voce rimbalza senza difficoltà insieme a quella della Kolosova negli staccati alla fine del “terzettone”, prima di affrontare con carattere d’accento le note acute della stretta, dove riemerge sempre con sicurezza timbrica al termine delle legate frasi ascendenti cantate in crescendo, che conferiscono intensità drammatica all’interpretazione. Il soprano, d’indubbia intuizione tragica, dà concettualmente avvio alla sua inesorabile parabola discendente proprio nel largo concertato che chiude il primo atto in cui, dopo essersi leggiadramente soffermata sulla parola  “Uberto” al momento dell’inaspettato riconoscimento dell’amato nelle vesti del terribile capo dello schieramento opposto, la Rebeka intraprende mestamente i tremoli della melodia, quasi il pianto s’insinuasse nella sua anima ed è proprio a rendere un contrasto interpretativo che seguono le rapide volatine: la coloratura diviene espressione dell’inconciliabile dicotomia affettiva.
Notevole come poco più avanti, nel duetto con Maometto, il soprano sembri riprodurre, stavolta sulla frase “Amava Uberto ma un mentitor detesto”, lo stesso dinamismo introspettivo, accentando però con sdegno l’ultima parola, segno che si è ormai abbandonata alla strada che porterà al compimento del dramma, anche se i suoi sentimenti trovano qui per un attimo libero sfogo nei “t’amo t’amo” della cabaletta, memorabile perché conferma uno dei più grandi meriti di quest’interprete, quello di non aver mai fatto una ripresa uguale ad un’altra od un uso estetico dei sopracuti, come dimostra questo passo, in cui il soprano spinge su un una tessitura più acuta come se volesse vincere il basso con l’altezza del registro e le originali variazioni pirotecniche in alto. Con queste premesse, non c’è da stupirsi che la grande scena finale sintetizzi le abilità già dimostrate in un ruolo interminabile come quello di Anna. Difatti, i recitativi confermano approfondimento nel fraseggio e dizione perfetta insieme ad un singolare controllo dell’accento e dello stacco dei suoni, soprattutto nelle chiusure, che si propagano ora acquistando forza per esprimere apprensione, ora rilassandosi in ineffabili piano. Disillusa ed appassionata tra la purezza dei suoni di “Quella morte che s’avanza”, la Rebeka volge impavida la fronte alla schiera araba (“Sì, ferite”) con una “verve” tale che lo spettatore si domanda se qualcuno avrebbe effettivamente avuto il coraggio di trafiggerla, dando magistrale prova di tutta la sua singolare capacità nel canto d’agilità, destreggiandosi senza batter ciglio di fronte alla labirintica successione virtuosistica composta da Rossini, che viene eseguita quasi in apnea con ottima gestione della respirazione, ad una velocità da mettere quasi in crisi l’ascoltatore, mentre l’ultimo sguardo alla tomba della madre (“Madre, a te che sull’Empireo”) si distingue per l’intonazione sempre a fuoco, anche nei sottili passaggi semi tonali, il dispiegarsi dei suoni ben tenuti e per il limpido smorzamento finale che conduce, dopo il brunito trillo sulla parola “fedel”, al suo congedo.
Nel ruolo protagonistico, Roberto Tagliavini si presenta con timbro chiaro ed esordisce in mezzo forte durante l’aria del primo atto, senza sfociare nel canto di forza. È il primo indizio di un interprete che figurerà un Maometto carico di un’umanità intrinseca, che gli impedisce di apparire totalmente spietato e della cui latente bontà d’animo il pubblico non stenta a dubitare, come testimoniano le strette di mano con i condottieri nella scena d’ingresso, che conferiscono un’atmosfera di maggior intimità rispetto alle canoniche interpretazioni trionfali e di rappresentanza.In questo, l’interprete è favorito dalla natura sostanzialmente morbida dell’emissione, rimanendo attento a non forzare verso linee vocali più dure e smussando spesso gli inizi di frase. È così che la linea vocale s’inflette con dolcezza sulla parola “Corinto”, per poi riacquistare vigore nelle espressioni di giubilo in seguito ai ragguagli del coro sulle buone sorti della battaglia ed il conflitto tra il suo ruolo di fronte al popolo e la sfera personale, evidenziato oltre che dal testo e dalla vocalità anche da credibili gesti mimico-espressivi, indica che abbiamo di fronte un sultano degno della fierezza del suo popolo, ma capace di provare un sincero sentimento d’amore. Alla prima vista di Anna, infatti, Tagliavini rimane in disparte, turbato, impostando le frasi in piano senza curarsi di tradirsi davanti ai musulmani, rivolgendosi solo ad una corrispondenza di sentimenti tra lui e l’amata figlia del nemico. Lo stesso accade quando si misura con Erisso e lo scontro pubblico che divide il condottiero musulmano da quello veneziano si estende, in modo a loro inconsapevole, a scontro privato. Costretto a rientrare in battaglia, Tagliavini riprende la linea di canto autorevole ed è interessante come nelle parole di ammonimento nei confronti di Anna attacchi in piano per aumentare d’intensità nota dopo nota fino al forte conclusivo, come se dovesse in primis infondersi coraggio dall’interno prima di poterlo esternare.  In accordo con questo, benché capo di un impero, Maometto si mostra con umiltà vocale e nel volume al momento del duetto col soprano ed i tentativi intimidatori sono appena abbozzati con accenti più netti: l’interpretazione è ancora una volta dalla parte sentimentale. Complessivamente l’interprete manifesta discreto volume, scende con tranquillità al registro grave in cui il timbro rimane però piuttosto morbido, senza la portata di un basso pieno, sostiene in modo idoneo la proiezione in alto, nonostante qualche acuto un po’ più schiacciato, e risolve con moderazione le numerose agilità, anche se avremmo gradito alle volte un piglio più deciso ed una maggior attenzione ai cromatismi della partitura, per una più efficace resa dell’ambivalenza del ruolo. Chiudono il quadro il Condulmiero di Enrico Iviglia, la cui voce nell’introduzione si diffonde chiaramente seppure annodandosi nei virtuosismi discendenti e gli interventi di Giorgio Trucco, che come Selimo assolve al ruolo di confidente ed informatore del protagonista. Il pubblico della capitale, che ha assistito con compostezza alla rappresentazione, concede infine un caloroso e prolungato saluto allo scenografo, all’organico orchestrale, al direttore ed agli interpreti comprimari, con concreto aumento di decibel nel manifestare entusiasmo per Alisa Kolosova e Roberto Tagliavini, mentre un unanime flusso di “brava” (e “bravo” stranieri) avvolge il soprano.