Palermo, Teatro Massimo: “Carmen”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2016
“CARMEN”
Opéra-comique in quattro atti. Libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy.
Musica di Georges Bizet
Don José ARTURO CHACÓN-CRUZ
Escamillo MARKO MIMICA
Le Dancaïre NICOLÒ CERIANI
Le Remendado CRISTIANO OLIVIERI
Moralès VITTORIO ALBAMONTE
Carmen VARDUHI ABRAHAMYAN
Micaëla MARIA KATZARAVA
Frasquita MARINA BUCCIARELLI
Mercédès ANNUNZIATA VESTRI
Lillas Pastia PIERO ARCIDIACONO
Giovane torero ALESSANDRO CASCIOLI
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo
Direttore Alejo Pérez
Maestro del Coro Piero Monti
Maestro del Coro di voci bianche Salvatore Punturo
Regia Calixto Bieito ripresa da Joan Antón Rechi  
Scene Alfons Flores
Costumi Mercè Paloma
Luci Alberto Rodriguez Vega
Allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con il Gran Teatre del Liceu di Barcelona, il Teatro Regio di Torino e il Teatro La Fenice di Venezia
Palermo, 26 novembre 2016 
Esattamente a distanza di cinque anni torna a Palermo la Carmen di Bizet nell’allestimento nato dalla collaborazione fra il Teatro Massimo e i teatri di Barcellona, Torino e Venezia. Anche stavolta la regia è a firma di Calixto Bieito – ripresa da Joan Antó Rechi – che proprio per questo spettacolo venne insignito del Premio Abbiati 2012, in virtù della capacità di rendere una “teatralità ruvida, svelata da istantanee vitali e a volte scioccanti che si susseguono in sintonia con i momenti cruciali della partitura componendo uno strepitoso racconto”. Le parole racchiuse nella motivazione della giuria ancora oggi sembrano emergere con particolare forza. E ancora oggi il pubblico si spezza fra coloro che hanno apprezzato con entusiasmo la lettura di Bieito e coloro che dal loggione hanno fischiato la controversa messinscena. Eppure l’interpretazione del regista catalano appare coerente e asciutta, oltre che perfettamente adeguata al respiro drammaturgico dell’opera. Del lavoro di Bizet vengono infatti sottolineati i non pochi elementi scandalistici che formano l’impalcatura dell’azione e che ci ricordano, a ogni ascolto, la portata innovativa di Carmen. Sbirciando però l’intervista di Pablo Meléndez-Haddad contenuta nel programma di sala si ha quasi l’impressione che il regista voglia nascondere qualcosa o per lo meno che voglia confondere le carte in tavola. Se infatti è vero che la storia di Carmen è “una storia d’amore e di morte […] di violenza di genere tra un soldato e una donna” è altrettanto vero che di ‘anonimo’ questa storia non ha nulla. E quello che Bieito rifiuta come mito ispanico in realtà attraverso i suoi occhi risulta profondamente intriso di ispanismo. A partire dalle bandiere spagnole che egli dissemina lungo l’opera e che acquistano funzioni diverse (diventando perfino decorazioni natalizie o telo da spiaggia), fino alla sagoma del toro di Osborne che campeggia nel terzo atto per poi essere violentemente abbattuta e smontata all’inizio del quarto. Quello che manca è invece il decorativismo, la couleur di superficie che giustamente Bieito rifiuta e che sostituisce con una dimensione iberica ben più profonda e complessa, violenta, a tratti asfissiante e prevaricatrice. Nelle parole del regista lo spunto visivo è dunque avulso da connessioni dirette con l’ambientazione originaria (l’assolata Andalusia che forse avrebbe generato quasi automaticamente l’esecrato côté superficiale), spostandosi genericamente verso il Sud del mondo e muovendosi nelle zone di frontiera messicane. Carmen diventa così un’opera di confine, popolata di Mercedes-Benz, cabine telefoniche e scarnificata in luoghi astratti e insieme concreti, segnati da uno sbandamento emotivo palpabile. Frontiera interiore, simbolica ed esistenziale, ma anche limite spaziale allorché nel quarto atto una robusta corda si tende lungo l’immaginaria quarta parete per contenere la calca dei sivigliani in occasione della corrida. Ed è questa probabilmente l’intuizione scenica più efficace e di impatto di Bieito, poiché attraverso i movimenti della folla egli riesce a far vedere le azioni di cui parla il libretto. E complice la buona forma delle masse corali – vivacissima la compagine diretta da Piero Monti, sempre strepitose le voci bianche guidate da Salvatore Punturo – l’episodio strappa l’applauso più convinto, meritevole e a scena aperta da parte del pubblico. Altrettanto interessanti sono però i confini interiori che l’opera mette in mostra e che subiscono spostamenti significativi ai fini dello sviluppo dell’azione. Il confine drammaturgicamente più rilevante è quello di Don José, che procede dallo spazio rassicurante del bravo ragazzo di provincia a una soglia sempre più spostata verso il limite: traditore, disertore, contrabbandiere, violento assassino. Il tenore Arturo Chacón-Cruz, subentrato per l’indisposizione di Roberto Aronica, assolve al compito con consapevolezza scenica e interpretazione persuasiva, offrendo il meglio di sé nella romanza del secondo atto (“La fleur que tu m’avais jetée”). Viceversa Carmen tende a creare confini sia emotivi che concreti, marchiando a fuoco le sue ‘vittime’ con sferzate cromaticamente viranti al rosso (il rossetto tracciato sul torace di uno dei soldati, il fiore gettato a Don José). Varduhi Abrahamyan è una Carmen perfetta, torva e minacciosa, che vive l’amore non in chiave liberatoria, bensì come una vera e propria condanna che la porterà ad accettare il destino di morte per mano del brigadiere. In bilico perpetuo tra limiti consapevolmente scelti è l’Escamillo di Marko Mimica, un po’ impreciso nell’aria di sortita (“Votre toast, je peux vous le rendre”) ma dotato di timbro avvolgente e spessore scenico. Viceversa tra confini sconosciuti si muove con coraggio esitante una Micaëla che rompe ogni cliché legato al personaggio angelicato, presentandosi sì provincialotta ma agguerrita ed energica. La voce di Maria Katzarava, morbida e intensa, costituisce un perfetto contraltare alla Abrahamyan e concorre al buon livello femminile di questa Carmen, completato dalle briose Marina Bucciarelli (Frasquita) e Annunziata Vestri (Mercédès). Ed è proprio nel terzo atto che le quattro interpreti formano un’ideale cortina contro lo strapotere maschile, attraverso un efficace ‘terzetto delle carte’ e l’incantata aria di Micaëla. Ma numericamente il confronto è impari, considerando che ai cantanti già normalmente previsti – in ruolo i convincenti Nicolò Ceriani, Cristiano Olivieri e Vittorio Albamonte, con menzione allo Zuniga di Mariano Buccino – Bieito aggiunge un Lillas Pastia silenzioso e ambiguo, oltre a numerosi simboli fallici che risaltano con maggiore evidenza sulle scene desolate di Alfons Flores. Tuttavia, quello che idealmente dovrebbe rappresentare il momento di massima prevaricazione maschile si ribalta nella scelta del nudo integrale di Alessandro Cascioli durante l’entr’acte del terzo atto. Grazie al delicato dosaggio delle luci di Alberto Rodriguez Vega e alla musica di Bizet l’episodio acquista un afflato poetico inconsueto, mettendo in risalto la fragilità di un corpo virile e ricollegandosi all’episodio di nonnismo del primo atto. La violenza diventa così ben più sottile e inquietante rispetto alla canonica divisione di genere, rispondendo alle suggestioni musicali che la direzione di Alejo Pérez ha vivificato con un’attenzione alle sfumature davvero invidiabile. E se ancora Carmen riesca a suscitare tanta discussione è forse perché continua a impaurire ciò che racconta. L’impudicizia della sua musica, la violenza della drammaturgia, ma soprattutto l’aspirazione a qualcosa di vicinissimo, eppure in apparenza inafferrabile: “per patria l’universo / per legge la tua volontà! / E soprattutto, la cosa inebriante: / la libertà!”. Repliche sino al 4 dicembre.