Palermo, Teatro Massimo: “Orphée et Eurydice”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2015
“ORPHÉE ET EURYDICE”
Tragedia (dramma eroico) in quattro parti
Libretto di Pierre-Louis Moline da Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck (versione di Hector Berlioz)
Orphée MARIANNA PIZZOLATO
Eurydice MARIANGELA SICILIA
Amour AURORA FAGGIOLI
Ballerini solisti
Orphée (blanc) CHRISTIAN NOVOPAVLOVSKI
Orphée (noir)
ANDREA MOCCIARDINI
Eurydice
VALENTINA PACE
Amour
LUCIA ERMETTO
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro Massimo
Direttore Giuseppe Grazioli
Maestro del coro Piero Monti
Regia Frédéric Flamand
Scene, immagini e costumi Hans Op de Beeck
Assistente alla coreografia e regia Diego Tortelli
Luci Bertrand Blayo
Allestimento del Ballet National de Marseille e di Opéra Théâtre de Saint-Étienne
Palermo, 20 febbraio 2015
“Mito è fondazione di vita; è lo schema atemporale, la pia formula a cui la vita si adegua, riproducendo i suoi lineamenti dall’inconscio” (Károly Kerényi). L’omaggio del Teatro Massimo di Palermo ai trecento anni dalla nascita di Christoph Willibald Gluck (1714-2014) si sviluppa all’insegna del racconto mitico per eccellenza, Orphée et Eurydice, rivisitato dallo sguardo di Frédéric Flamand nell’allestimento del Ballet National de Marseille andato in scena all’Opéra Théâtre de Saint-Étienne nel 2012. Omaggio al quadrato, se dell’opera di Gluck si è scelta la versione approntata da Berlioz nel 1859, ammiratore senza riserve del compositore tedesco, che nell’intento di riproporre la composizione si basò sulla versione francese del 1774 destinata all’Académie Royale di Parigi. L’operazione effettuata da Berlioz è quindi la più filologica possibile (almeno considerando i criteri del periodo e la complessità del teatro musicale settecentesco), poiché riesce a subordinare i vari interventi al principio superiore di omaggiare la riforma gluckiana. Tuttavia, a spezzare la catena degli omaggi ‘fedeli’ si colloca questo allestimento che per certi versi tradisce l’idea originaria voluta da librettista e compositore. In virtù dell’atemporalità che è insita nella definizione stessa di mito, Flamand infatti decide di trasporre la vicenda in una cornice contemporanea, rivelando l’impostazione da coreografo prima ancora che da regista, e adottando una chiave di lettura postmoderna. È quindi in una “metropoli fittizia in continuo mutamento” che si muovono i personaggi, attraversando differenti tipologie di agglomerati urbani: la città trionfante, la città in rovina, la città infernale, la città melanconica. Più però che sulla ricostruzione diacronica, lo spettacolo si basa sulla simultanea stratificazione di piani, relativi ai tre livelli che ne compongono l’essenza. Il primo e più importante è proprio il livello coreografico, articolato negli interventi di gruppo dei danzatori, in quelli dei ballerini solisti e nei movimenti dei cantanti. Il secondo livello amplifica uno dei temi fondamentali dell’opera, il tema della visione e della sua negazione. Anche questo livello risulta suddiviso nel primo piano di azione (occupato quasi sempre dai cantanti, affiancati o meno dai ballerini), nel secondo piano dello sfondo (rappresentazione di una dimensione ‘altra’, regno di ombre evanescenti) e nello schermo che opera la divisione, sottile superficie di proiezione delle immagini concepite da Hans Op de Beeck. Il terzo livello, l’unico sul quale regista e scenografo non possono intervenire, è quello musicale, anch’esso presentato in forma tripartita: gli interventi solisti dei cantanti, i contributi delle masse corali, l’elaborazione melodica dell’orchestra. Evidentemente a costituire il trait d’union fra i tre livelli sono proprio i cantanti solisti. Protagonista indiscussa è Marianna Pizzolato nel ruolo di Orfeo, ancora una volta costretta ad affrontare un personaggio en travesti fra i molti che finora hanno costellato la sua carriera. Nonostante le non poche difficoltà, il mezzosoprano ha attraversato con naturalezza la vasta gamma di emozioni che caratterizza la scrittura vocale del cantore tracio. Di conseguenza non potrebbe esservi un Orfeo più dolente, più irato o più appassionato, tutti ‘affetti’ trasfigurati da una nobiltà di interpretazione talmente lineare da rispondere perfettamente alle intenzioni programmatiche di Gluck. Ricreando il doppio mito di Orfeo e al contempo di Pauline Viardot (prima interprete della versione di Berlioz), la Pizzolato sembra puntare non soltanto sulla bellezza del timbro, sul fraseggio mobile e sulla naturalezza nel passaggio di registro, ma soprattutto sull’espressività della mimica – particolarmente apprezzabile dalla breve distanza – e sull’austerità del gesto. Da questo punto di vista la cantante ha dimostrato di aver fatto propria la lezione dei grandi interpreti del passato, riuscendo a ricavare dalla misura e dall’equilibrio dei mezzi il massimo effetto espressivo. Peraltro non sono mancati veri e propri madrigalismi gestuali (ad esempio su “ces bois, ces rochers, ce vallon”), così peculiari da far sorgere il dubbio che fossero più dovuti alla sensibilità del mezzosoprano che alle indicazioni del regista. La commozione che si è poi avvertita alla fine della celebre aria di chiusura (“J’ai perdu mon Eurydice”) ha fatto da efficace pendant emotivo alle agilità di “Amour, viens rendre” o alle invocazioni straziate dell’inizio, contraddette nello sdegno di “Divinités de l’Achéron”. Talmente infuocati gli sguardi della Pizzolato, così impetuosi i suoi accenti da causare l’intervento di Amour (Aurora Faggioli affiancata da Lucia Ermetto) di cui francamente si poteva fare a meno, non soltanto per l’orrendo tailleur in stile Domopak, ma anche per il canto ai limiti della correttezza vocale. In realtà tutti i costumi si son fatti notare per la loro bruttezza, ad eccezione dell’abito di Mariangela Sicilia (Eurydice) e del suo doppio coreografico, la brava Valentina Pace. Il soprano si è distinto per un timbro ammaliante e ricco di accenti sovrannaturali (come conviene ad un’ombra dei Campi Elisi), ma all’inizio meno proteso verso il pubblico, oltre a mancare di intesa con l’orchestra. Forse la colpa di ciò va imputata alla direzione di Giuseppe Grazioli, di impianto sì classicista, ma priva di sfumature e del fuoco necessario ai momenti di concitazione musicale, con ripercussioni sugli standard della compagine orchestrale. Il Coro del Teatro Massimo ne esce allo stesso modo, alternando momenti efficaci a interventi deludenti. In definitiva la stessa alternanza di esiti si è estesa allo spettacolo nel suo complesso. Le coreografie di Flamand accostano movimenti inconsulti e talvolta ridicoli (soprattutto nell’Air des Furies) a soluzioni più equilibrate e convincenti, affidate al Corpo di Ballo del Teatro Massimo. Anche la scelta dei doppi coreografici sembra essere un po’ superflua, pur sostanziandosi delle buone prove dei danzatori e in particolare dei due Orphée, Christian Novopavlovski e Andrea Mocciardini, che rappresentano i due volti di un personaggio ambiguo, apollineo e insieme dionisiaco, quale è Orfeo. Registicamente parlando i momenti più convincenti sono proprio quelli che ricongiungono i due sposi – riflessi nel bel terzetto “Tendre amour, que tes chaînes” che già sul piano musicale evidenzia l’identificazione dei personaggi – e l’invenzione per la discesa agli Inferi del protagonista, realizzata in modo convincente grazie anche all’abile dosaggio di luci offerto da Bertrand Blayo. Anche le proiezioni video di Hans Op de Beeck si caratterizzano per alcune atmosfere suggestive, prevalentemente declinate in chiave arborea e liquida, ma contraddette da improbabili scenari che nulla hanno a che fare con il mito di Orfeo ed Euridice. Di fatto è proprio la lettura urbana di Flamand e Op de Beeck a destare perplessità, assai più della confezione coreografica che tutto sommato non sembra così incompatibile con Gluck e soprattutto con Berlioz. E l’eleganza sobria dell’allestimento si riflette nell’estrema cura per il dettaglio visivo, evidenziando nel ricorrere di determinati elementi – fra tutti l’insistenza sulle mani – il tema della visione negata che si ricollega alla disobbedienza di amore. Nella variante al mito già voluta in origine da Calzabigi si sottolinea come siano proprio l’amore e la passione a determinare il gesto fatale di Orfeo; tuttavia, se alla visione viene conferito il giusto risalto, è il tema dell’amore a perdersi nella cornice di uno spettacolo fortemente astratto e paradossalmente incorporeo. Non stupisce che l’allestimento abbia spaccato in due il pubblico, diviso tra chi ha apprezzato le soluzioni della regia e chi al contrario ha preso le distanze dall’operazione nella sua interezza. Quel che è certo è che Flamand contraddice la flamme insita nel suo nome, evitando il calore del fuoco, ma congelando il tutto in un immaginario privo di vita. La strada verso Glück, verso la felicità (ovviamente del godimento estetico) è fin troppo irta di difficoltà. Foto Rosellina Garbo