Palermo, Teatro Massimo: “Rigoletto”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione lirica 2018
RIGOLETTO”
Opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave.
Musica di Giuseppe Verdi
Il Duca di Mantova  IVAN AYON RIVAS (13) STEFAN POP (14)
Rigoletto GEORGE PETEAN (13) AMARTUVSHIN ENKHBAT (14)
Gilda
MARIA GRAZIA SCHIAVO (13) RUTH INIESTA (14)
Sparafucile LUCA TITTOTO
Maddalena MARTINA BELLI
Giovanna CARLOTTA VICHI
Conte di Monterone SERGIO BOLOGNA
Marullo PAOLO ORECCHIA
Matteo Borsa
MASSIMILIANO CHIAROLLA
Il Conte di Ceprano
GIUSEPPE TOIA
Contessa di Ceprano ADRIANA CALÌ
Usciere di corte ANTONIO BARBAGALLO (13) GIANFRANCO GIORDANO (14)
Paggio della Duchessa EMANUELA SGARLATA
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro Massimo
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del Coro Piero Monti
Regia John Turturro
Scene Francesco Frigeri
Costumi Marco Piemontese
Luci Alessandro Carletti
Nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con il Teatro Regio di Torino, la Shaanxi Opera House e Opéra Royal de Wallonie-Liège
Palermo, 13 (prima rappresentazione) e 14 Ottobre 2018 (prima replica, con cast alternativo)
Verdi irrompe, potente e sontuoso, nella stagione operistica palermitana. Il nuovo allestimento del Teatro Massimo di Palermo del Rigoletto, in coproduzione con il Teatro Regio di Torino, la Shaanxi Opera House e Opéra Royal de Wallonie-Liège, diretto, nel suo primo cimento da regista operistico, da John Turturro, ha fatto breccia nei cuori degli spettatori con il suo fosco indugiare nel fondo dei sentimenti umani.
Una storia di solitudine. Di solitudini. Prime note. Una corte buia, con un andito scuro, retto da telamoni grotteschi; cortigiani luttuosi, incappucciati. Un’oscurità profonda come l’orrore, come il peccato, con al centro Rigoletto, il gobbo, il buffone. Solo. Con una lanterna fioca. Improvvisa, ecco dischiudersi la corte di una Mantova stilizzata nelle scene, sontuose per livello di dettaglio, di Francesco Frigeri. Un salone sbilenco e negletto, due statue neoclassiche di donna, nuda, abbandonata su una lettiga, disposte a specchio. Senza  simmetria. Sfingi voluttuose. Cortigiani parruccati, senza marsina, stancamente attardati in un’atmosfera pesante in cui le luci, bluastre, rendono magistralmente, nei contrasti il senso di abbandono. Dietro il porticato, figure sinistre appaiono, diafane e fantasmatiche. Aria densa di abbandono, tracimante di decadenza. Eppure sensuale, corporea. Le schermaglie amorose della corte restituiscono la solitudine dei singoli. Dopo la roboante maledizione di Monterone, un’ossessione tanto pervicace da stravolgere le esistenze più fragili, intimistica e delicatissima è la rappresentazione del rapporto padre figlia. Una casetta isolata, in una pianura invasa dalla nebbia. Il rapimento di Gilda è reso con la corte che spinge la casa in mezzo alla foschia. Sradicamento. Annullamento. Un bosco di alberi spogli e metallici a destra, bilanciato da una casupola a torre malferma, sulla sinistra, è l’ambientazione del finale della tragedia. Il covo di Sparafucile, il teatro del libertinaggio ostentato del Duca, della vendetta di Rigoletto, dell’amore di Maddalena, dello sdegno di Gilda. Ma anche del suo sacrificio. Della morte. Della maledizione. Intensa è sembrata la scena finale. Non un colloquio del padre colla figlia morente. Un soliloquio folle di un padre con un fantasma. Il fantasma della coscienza. il fantasma di una realtà allucinata. Solitudine. Una regia composta e rispettosa, quella di Turturro, simbolica senza essere concettosa, allusiva senza essere astratta. La vicenda si ambienta in una decadente rappresentazione settecentesca. Ruolo centrale assume la luce, curata da Alessandro Carletti che, generando evidenti contrasti, piomba blu o rossa a enfatizzare le scene. Oscurità e luce, che talvolta appare quasi a disvelare la verità di miserie e debolezze rappresentate in scena, si alternano con accuratezza in un’atmosfera dominata da una nebbia che si infittisce. Foschia dove, soli, arrancano i personaggi. I costumi, di Marco Piemontese, per ammissione di Frigeri, sono forieri di elementi cromatici forti. In tal senso intenso è il gioco di bianco e di rosso, fin troppo evidente nella metafora di purezza e sacrificio, dell’abito di Gilda. Integrate nella scena e funzionali ad aumentarne il pathos, le coreografie di Giuseppe Bonanno, performate dal Corpo di Ballo del Massimo, sono state interessanti. Particolarmente pregevole il momento in cui i danzatori, incappucciati a lutto, assecondano il vento di tempesta, messaggeri di morte.
L’orchestra del Teatro Massimo, diretta da Stefano Ranzani ha suonato splendidamente entrambe le sere, restituendo i fragori, il tumulto e le dolcezze ineffabili di una partitura complessa. Anche il Coro del Teatro Massimo, diretto da Piero Monti, si è fatto ben valere, con puntualità e precisione.
Alla prima rappresentazione, George Petean è stato un Rigoletto intenso e drammatico. Una voce ben impostata, dal bel timbro e dalla buona dizione ha saputo bene restituire le complessità psicologiche del personaggio. Notevolissima anche la Gilda di Maria Grazia Schiavo: dolcezza del timbro, emissione sicura, musicalità del fraseggio e sicurezza negli acuti, forza drammatica. Il Duca di Mantova di Ivan Ayon Rivas è complessivamente valido: discreto fraseggio (non particolarmente sensibile alla varietà espressiva), presenza scenica adeguata, buona linea di canto, unita a un timbro  gradevole e sicurezza in acuto sono stati gli ingredienti salienti della sua esecuzione.
Nella recita del 14 ottobre, il Duca di Mantova di Stefan Pop, fa sfoggio di voce di bel timbro, salda e piena acuti, bel timbro, apprezzabile il fraseggio. Ruth Iniesta, dall’acuto svettante, musicale e sensibile nel fraseggio, sicura nelle agilità, ha saputo offrire una Gilda intimistica, senza eccedere in atteggiamenti di fragilità e ingenuità. Il vero trionfatore della serata è stata la torrenziale vocalità del  baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat: il timbro è molto bello, l’emissione piena ed omogena in tutti i registri, restituisce una dolcezza ineffabile nei duetti con Gilda, carichi di malinconia. Commovente il suo “Veglia o donna questo fiore che a te puro confidai”, tonante e folgorante, invece, il “Cortigiani vil razza dannata”. Attore convincente, ha ottenuto un vero e proprio successo personale.
Buona la prova, infine, del resto del cast. Spicca lo Sparafucile di Luca Tittoto lontano per vocalità da forzature “diaboliche” e cavernose.   Bella presenza scenica, vocalmente corretta (anche se si percepisce una certa tendenza a suoni un po’ troppo “coperti”) per la Maddalena di Martina Belli. Altresì valido il solido Monterone di Sergio Bologna e, a seguire Carlotta Vichi (Giovanna), Paolo Orecchia (Marullo), Massimiliano Chiarolla (Matteo Borsa), Giuseppe Toia (Conte di Ceprano), Antonio Barbagallo, Gianfranco Giordano (Usciere di Corte), Emanuela Sgarlata (paggio della Duchessa).
Si replica fino al 21 ottobre.