Palermo, Teatro Massimo:”Il Trovatore”

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2011
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro atti e otto quadri, su libretto di Salvatore Cammarano, tratto dalla tragedia El Trovador di Antonio García Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Il conte di Luna ROBERTO FRONTALI
Leonora AMARILLI NIZZA
Azucena MARIANA PENTCHEVA
Manrico MARCELLO GIORDANI
Ferrando GIOVANNI BATTISTA PARODI
Ines SABRINA TESTA
Ruiz ROBERTO JACHINI VIRGILI
Un vecchio zingaro VINCENZO RASO
Un messo DOMENICO GHEGGHI
Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Paul Curran ripresa da Oscar Cecchi
Scene e costumi Kevin Knight
Luci Bruno Poet
Allestimento del Teatro Comunale di Bologna
in coproduzione col Teatro delle Muse di Ancona
e col Coliseu do Porto

Palermo, 18 ottobre 2011

Il trovatore andato in scena presso il Teatro Massimo di Palermo – allestimento del Teatro Comunale di Bologna, in coproduzione con il Teatro delle Muse di Ancona e con il Coliseu do Porto – si è aperto all’insegna di una precisa immagine, quella della luna, che risaltava a sipario chiuso, dipinta sul telone, ad accogliere il pubblico che entrava in sala. Pur collocandosi a debita distanza dalla trasfigurante visione della prima aria di Leonora (non mostrava certo un viso argenteo, né lieto né pieno, ricordando più un oggetto astronomico da telescopio) questo elemento ha subito evidenziato la componente notturna dell’opera verdiana, solo raramente rischiarata da luci consolatorie (come appunto nel caso della luna) o da fiamme inquietanti. Tale componente era bene espressa dalle scelte del lighting designer Bruno Poet, che però sono passate quasi inosservate all’interno di uno spettacolo poco convincente. L’ambientazione dell’opera in epoca risorgimentale – un chiaro omaggio all’Italia unita, in occasione del suo 150° anniversario – poteva rivelarsi di un certo interesse se condotta con cura ed attenzione; invece ci è sembrata un’occasione persa, fine a se stessa e limitata alla scelta dei costumi, in questo caso ideati dall’inglese Kevin Knight. A Knight è stata affidata anche la scenografia, un complesso gioco di strutture semoventi, blocchi trapezoidali ed alte scalinate, abbastanza funzionali ai cambi di scena, ma poco incisive ai fini della caratterizzazione delle situazioni.
Numerosi i punti deboli della regia di Paul Curran, ripresa per l’occasione da Oscar Cecchi. In alcuni casi si è trattato di vere e proprie incongruenze, se non addirittura di grossolanità: la decisione di far uscire Ines durante la prima cabaletta di Leonora, per poi farla rientrare pochissimo dopo, a cantare i versi finali; i membri del coro che avanzano scomposti ai lati della scalinata nella terza scena del secondo atto (“Ah!… se l’error t’ingombra”), scena che dovrebbe risaltare per immobile ieraticità; la totale assenza della “vampa”, spunto concreto della prima aria di Azucena; i fermo immagine sui duelli, in particolare sullo scontro tra il Conte e Manrico, che si conclude con la frettolosa uscita, quasi amichevole, dei due rivali; l’opposizione tra il contenuto del testo e determinati movimenti dei personaggi, evidente soprattutto alla fine del primo atto; l’episodio all’inizio della terza parte, in cui l’anziana zingara tende le corde e travolge gli aguzzini che la trattengono, rivelando una forza degna di Sansone. Tutti elementi che forse, presi singolarmente, non avrebbero inficiato la buona riuscita della rappresentazione, ma che messi insieme hanno inciso negativamente, risultando senz’altro di un certo fastidio.
A dispetto delle apparenze, la partitura de Il trovatore è inoltre ricca di momenti complessi, resi insidiosi da ritmi incalzanti e da cambiamenti di tempo non sempre facili da gestire. In generale la bacchetta di Renato Palumbo si è dimostrata all’altezza, offrendo cantabili assai distesi e cabalette di condotta agitata. Il capolavoro verdiano vive anche di un particolare rapporto fra testo verbale e scrittura vocale: quest’ultima tende ad oscurare le parole, ad annullarle, mentre esse sono importantissime – in quest’opera più che in altre – per capire appieno lo sviluppo della vicenda (certamente fra le più intricate del repertorio operistico). Uno degli elementi che bisogna considerare nella scelta del cast riguarda dunque la dizione, la corretta resa della componente testuale. Riguardo a questo aspetto, non tutti i cantanti hanno dimostrato doti adeguate. Il primo ad entrare in scena è Giovanni Battista Parodi nel ruolo di Ferrando, che proprio nella dizione ha evidenziato alcune debolezze, accentuate da un fraseggio non sempre sicuro e da opacità nella resa vocale.
Subito dopo l’intervento di Ines (qui interpretata da una Sabrina Testa abbastanza incolore) ascoltiamo la voce della protagonista, Amarilli Nizza, interprete di Leonora. Il soprano milanese ha vocalità poco verdiana e prettamente verista, nel complesso inadatta a questo repertorio. Già nel dialogo con la dama di compagnia vengono alla luce alcune difficoltà, senz’altro acuite nell’aria successiva (“Tacea la notte placida”). Qui la Nizza manifesta incertezze nella messa a fuoco del personaggio e nel dominio delle pur interessanti qualità vocali: di rado i suoi suoni risultano pieni, a causa anche di un timbro privo di rotondità, spesso disturbato da inflessioni stridenti, decisamente più consone ad un Trittico pucciniano piuttosto che al Verdi di metà Ottocento. Nella sua lettura di Leonora, la cantante manca della giusta dose di maturità dolente, conferendo all’interpretazione un tocco di isteria che a nostro parere risulta estranea alla vera natura della protagonista. La situazione migliora nelle cabalette e nei duetti, dove il soprano riesce ad esprimere un’ansia tesa ma al contempo misurata, in particolare nella seconda scena del quarto atto (“Mira, di acerbe lacrime”).
Autenticamente verdiano è invece Roberto Frontali, Conte di Luna cattivo al punto giusto e perfettamente calato nella parte. Colpisce in particolare la sua interpretazione, assai efficace nell’affrontare le sfumature contraddittorie di un personaggio che sembra vivere un dissidio inconciliabile – per quanto sfuggente – tra amore e odio, integrità e crudeltà. Frontali piega la propria vocalità a questo nucleo, alternando momenti di estrema morbidezza (“Il balen del suo sorriso”) a manifestazioni di grande passione (soprattutto nel duetto con Leonora) che spesso si sovrappongono, confondendosi, ad improvvise esplosioni di ira (“Di geloso amor sprezzato”). Il volume si è dimostrato sempre adeguato, di comune accordo con l’orchestra, così come il lavoro sulle differenti zone del registro che solo di rado, in qualche passaggio, hanno rivelato lievi sbavature nell’intonazione e chiusure nell’emissione sonora.
Spaccata a metà la prova di Marcello Giordani: sicuro e squillante nella prima parte – dove risaltava nel confronto con Azucena e nello slancio di “Mal reggendo all’aspro assalto” – nella seconda il suo Manrico ha subito un deciso calo nelle prestazioni vocali, risultando a tratti corto di fiato e quasi sull’orlo del precipizio, come se fosse lì per lì a non poter sostenere le difficoltà del ruolo. Fortunatamente ciò non è accaduto e nel celeberrimo assolo del terzo atto (“Di quella pira”) Giordani è riuscito a dosare le proprie risorse – complice anche il taglio del da capo – regalandoci acuti enfatici e di tutto rispetto. Lodevole il suo intervento sul livello verbale, che scolpisce le varie situazioni, dando risalto al testo ed alla parola, sia durante le oasi di espansione lirica, sia nei recitativi o in altri momenti chiave dello sviluppo drammaturgico (la lettura della lettera nella parte centrale del secondo atto).
La Azucena di Mariana Pentcheva ha suscitato numerose perplessità. Il colore scuro della sua voce ci è sembrato subito adeguato al ruolo della zingara, ma sia nell’intonazione che nel passaggio di registro si sono notate molte incertezze, soprattutto nell’emissione delle note più acute. In “Stride la vampa” la Pentcheva raggiungeva a stento i suoni più alti, calando di tono in modo evidente, cosa che non è passata inosservata e che ha suscitato immediati dissensi da parte del pubblico. D’altro lato, nella zona grave, il mezzosoprano è riuscito ad offrire intensi momenti di coinvolgimento drammatico, enfatizzati dai tempi lenti talvolta adottati – e in modo efficace – dal direttore d’orchestra. Un po’ meglio in “Condotta ell’era in ceppi”, dove la recitazione è riuscita a sopperire alle pecche vocali, e nel finale con Manrico (“Ai nostri monti ritorneremo”), sostenuta in entrambi i casi dall’ottima intesa con Giordani.
Il coro, all’inizio incerto, nel corso dell’opera ha acquistato in sicurezza, raggiungendo buoni risultati nella nota scena ad apertura del secondo atto (“Vedi le fosche notturne spoglie”) interpretata in modo compatto e coinvolgente. Privi di nota i comprimari, da Roberto Jachini Virgili nel ruolo di Ruiz, a Domenico Ghegghi nel ruolo del messo, a Vincenzo Raso vecchio zingaro. Accoglienza tiepida da parte del pubblico, che ha apprezzato soprattutto le prove degli interpreti maschili, riservando applausi calorosi a Roberto Frontali.
Foto Franco Lannino – Teatro Massimo di Palermo