Parma, Teatro Regio: “Anna Bolena”

Parma, Teatro Regio, Stagione d’opera 2017
“ANNA BOLENA”
Tragedia lirica in due atti, libretto di Felice Romani
Musica di Gaetano Donizetti
Anna Bolena YOLANDA AUYANET
Enrico VIII re d’Inghilterra MARCO SPOTTI/RICCARDO ZANELLATO
Giovanna Seymour
SONIA GANASSI
Lord Rochefort
PAOLO BATTAGLIA
Lord Riccardo Percy
GIULIO PELLIGRA
Smeton
MARTINA BELLI
Signor Hervey
ALESSANDRO VIOLA
Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Coro del Teatro Regio di Parma
Direttore Fabrizio Maria Carminati
Maestro del coro Martino Faggiani
Regia Alfonso Antoniozzi
Scene e videodesign Monica Manganelli
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Luciano Novelli
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma in coproduzione con il Teatro Carlo Felice di Genova
Parma, 17 gennaio 2017
Nella storia è una donna ad aver la peggio, ma in fatto di casting la nuovissima Anna Bolena parmigiana s’è rivelata vorace mantide religiosa. Maxim Mironov doveva fare Percy: indisposto, ha abbandonato la produzione dopo la generale. Simile sorte all’Hervey di Pietro Picone. Per entrambi è giunto il sostituto. E alla seconda recita che qui si recensisce, l’Enrico VIII titolare è stato colpito da repentino calo di voce. Ragion per cui Marco Spotti stava in scena muto come Sarah Bernhardt, mentre a bordo palco Riccardo Zanellato scolpiva tonante figura di sovrano con suono nobile e pieno. Vice Percy era invece Giulio Pelligra, voce minuta ma fulmineo e sicurissimo nel salire ad acuti e sovracuti ficcanti, facili e ampi in ambo le arie con cabalette. Come che sia, il focus è su di loro, sulle donne. Yolanda Auyanet è diva perché antidiva: non ha quel carisma debordante costruito anzitutto su filati e puntature di certe colleghe, né fa delle cabalette puro sfogo virtuosistico. Al personaggio sempre s’attiene, il soprano spagnolo, e non solo per recitazione misurata ma intensa: dipinge accorato ritratto di regina con centri preziosissimi e gravi sonori quanto basta, dolcezza d’accenti, solidità d’appoggio e linea di canto lunga e rifinita. E questo vuol dire far belcanto. Momento supremo della serata il suo duetto con Seymour. Qui interpretata da una Sonia Ganassi in bella forma, che nella miglior tradizione mediosopranile enfatizza i passaggi di registro e ne cava espressione del dissidio di Giovanna. Spigliata in scena anche lei, dizione scandita a suon d’erre arrotate e sibilar di esse: grandissimo mestiere. Aggiungiamo alla donnesca terna Martina Belli, Smeton androgino per vertiginosa altezza ma di fascino assai femminile, timbro scuro, rotondo e legato come di rado se ne sentono. Attorno a queste donne si costruisce la regia di Alfonso Antoniozzi. Una regia fatta di distanze e abbracci eloquenti, rapporti umani definiti e basata su una salda, logica direzione degli attori. Per un’opera come Bolena, netta senza sovrastrutture per personaggi e situazioni, basta e avanza. Peccato che il regista aggiunga suggestioni su suggestioni, ora concettose, ora ordinarie, ora kitsch. I costumi di Gianluca Falaschi mescolano pellicce e vestaglie, vintage anni Quaranta, fogge Tudor in minore. Oltre l’ingombrante pedanone pensato da Monica Manganelli, passano in videoproiezione ventagli che sembrano monconi della vicina stazione AV di Reggio Emilia, boscherelli fantasy, monoliti in 3D. Figuranti otto, a spasso per tutta l’opera. In scena anche l’Hervey franco e sfogato di Alessandro Viola e Paolo Battaglia, un Rochefort fine non troppo ma sonoro assai. Il Coro del Teatro Regio diretto come di consueto da Martino Faggiani è preciso e intrigante nel vociferare iniziale (meno nel finale primo, ma vai a capire di chi è la colpa del breve scollamento) e sfoggia colore splendido anche a sezioni distinte. Grigiotta invece suona l’Orchestra dell’Emilia Romagna (ma lode ai clarinetti). Certo il gesto poco incisivo di Fabrizio Maria Carminati non giova. È la sua una direzione che non accompagna il solista nei cantabili, non incalza a dovere i concertati, né infonde respiro nei brani strumentali: come nel 1836 Giuseppe Mazzini abbia potuto vedere nella Bolena una vetta del “sublime tragico”, da questa sua lettura non lo si capisce granché. A fine recita, qualche vestale del culto donizettiano tuonava contro potature nei pezzi d’assieme e tagli dei da capo. Visto il groove del direttore, non c’è da lamentarsene. Foto Roberto Ricci