Piacenza, Teatro Municipale: “Pagliacci”

Piacenza, Teatro Municipale – Stagione d’Opera 2018-19 – Anteprima
PAGLIACCI
Dramma in un prologo e tre atti.
Libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
Nedda ESTIBALIZ MARTYN
Canio DIEGO CAVAZZIN
Tonio KIRIL MANOLOV
Beppe GIOVANNI SALA
Silvio VITTORIO PRATO
Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Voci bianche del Coro Farnesiano di Piacenza
Direttore Vladimir Ovodok
Maestro del Coro Corrado Casati
Maestro del Coro di voci bianche Mario Pigazzini
Regia e ideazione scenica Cristina Mazzavillani Muti
Ideazione spazio e luci Vincent Longuemare
Costumi Alessandro Lai
Coproduzione Ravenna Festival, Teatro Alighieri di Ravenna, Fondazione Teatri di Piacenza
Piacenza, 04 ottobre 2018
La resa di “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, che è in scena al Municipale di Piacenza fino a domenica, aprendone de facto la nuova stagione, presenta diverse criticità, che non possono essere minimizzate apponendovi l’etichetta di “provincialità” con cui alcuni sono soliti liquidare le produzioni dei teatri di tradizione. Non è certo una novità che “Pagliacci”, pur essendo un atto unico, abbia già delle problematiche tutte sue, legate sia all’ambientazione metateatrale, sia al contesto verista che l’ha prodotto: per questo chi voglia portarlo in scena è bene che sia consapevole di dover costruire una narrazione drammaturgica in grado di assecondare il libretto e, allo stesso tempo, implementarlo, aprirlo (come avrebbe detto Umberto Eco). La scena di Vincent Longuemare, spoglia, candida, dominata da otto lampade svoboda e quattro proiettori, che vengono avvicinati o allontanati dai cantanti protagonisti, svecchia la produzione, stornando da essa qualsivoglia velleità baracconesca o giullaresca: semmai i pochi riferimenti circensi rimandano alla “Strada” di felliniana memoria, senza suonare, però, uno sterile omaggio. Eppure non basta questo, e il contestuale buon lavoro di luci dello stesso scenografo, per dare senso a una regia – a cura di Cristina Mazzavillani Muti – spesso inconsapevole del libretto (nel duetto di Nedda e Silvio, ad esempio, dove si parla del bacio che si sono scambiati, ma che qui i cantanti non si sono dati davvero), a tratti velleitaria (ad esempio, in alcuni momenti, con la presenza di un aitante danzatore seminudo, il cui senso sfugge ai più), in ogni caso orientata alla ricerca dell’effetto e non alla gestione consapevole del cast. E arriviamo, così, alla seconda nota meno felice: il cast dell’opera presenta due elementi francamente poco convincenti, anche e soprattutto sotto l’aspetto musicale; Kiril Manolov, un Tonio eccessivamente truce, manco fosse uno Iago, vocalmente solido nei centri, assai meno in acuto con suoni non sempre controllati e qua e la intubati; a sua discolpa va detto che è l’unico sulla scena che si preoccupi – fin dal celeberrimo prologo – di costruire davvero un personaggio, cercando spesso colori ed espressività anche al di là delle aspettative, anche a scapito della precisione musicale e il controllo emissivo. Questa ricerca, come anticipato, ci propone una versione compiaciuta e quasi mefistofelica di Tonio, forse affascinante per l’artista o la regista, ma decisamente distante dalle intenzioni di Leoncavallo: nell’ottica verista, Tonio è l’ultimo dei diseredati, emarginato anche dagli emarginati per la sua bruttezza, incattivito poiché cattivi gli altri sono costantemente con lui; egli fa il male, non è il male. Questa versione del povero gobbetto, invece, che lo vuole intrigante, ambiguo burattinaio di sventure, suona troppo stridente con l’effettivo intervento di Tonio nella vicenda – vicenda, che, da libretto, è Nedda che innesca, con le sue tendenze adultere e la sua poca scaltrezza nel gestirle. Nedda, per l’appunto, diviene, con un simile Tonio (anche fisicamente imponente, più un Mangiafuoco che un Quasimodo), poco più che una adolescente sciocchina, perdendo sostanzialmente la caratterizzazione di padrona (quasi virago) tipica del personaggio; dal punto di vista vocale, inoltre, Estibaliz Martyn in questo ruolo sembra del tutto spaesata: la cantante spagnola ha forse maggiore dimestichezza con altro repertorio, giacché presenta un canto un po’ troppo garbato, eccessivamente misurato, privo del languore sensuale sul quale poggia gran parte del mito del soprano verista. Successo personale per Diego Cavazzin, un Canio sufficientemente carismatico, parte un po’ in sordina, sia vocalmente sia scenicamente – con una Nedda bambinesca e un Tonio diabolico, non è rimasto alla regia che offrirci, infatti, un Canio molto più riflessivo e meno incandescente di quello da libretto. Fortunatamente, dal celebre “Vesti la giubba” in poi, la situazione cambia, e Cavazzin è tutto un crescendo di un canto vigoroso carico di espressività, senza eccessi ben controllata e ben articolata sul fraseggio musicale. Apprezzabile anche la bella linea di canto e l’attenzione emotiva che  Vittorio Prato da a Silvio, così come valido l’apporto vocale e interpretativo di Giovanni Sala (Beppe) nella famosa “Canzone di Arlecchino”. Il Coro del Teatro Municipale di Piacenza (a direzione del Maestro Corrado Casati) si mostra emozionante e partecipe, e nel celebre “Coro delle campane” semplicemente incanta la platea con l’eleganza di una perfetta fusione vocale. Precisa la prova delle Voci bianche del Coro Farnesiano di Piacenza (preparati da Mario Pigazzini). Infine, ma certo non per importanza, un plauso va al direttore Vladimir Ovodok, a capo dell’ottima Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”, il vero trionfatore della serata: una concertazione lucida, energica senza essere affrettata, attentissima alle molte (a dispetto della brevità) sfumature drammaturgiche ed emotive che la partitura nasconde; buono anche il controllo dei solisti in scena (in particolar modo di Cavazzin, che deve al rigore del Maestro ucraino buona parte della compostezza della sua interpretazione): il teatro gremito tributa al direttore i più calorosi riconoscimenti. Foto DelPapa